INDIETRO

 

 

7-8-2013

 

Ci sono delle questioni a partire dal concetto di “significato”? Tenendo conto anche e soprattutto dell’aspetto che riguarda il potere, la necessità di ottenere il potere che poi non è altro che l’esigenza di fare riconoscere la propria verità: è questa la fantasia di potere. Ha potere chi riesce a imporre il “suo” significato alle cose, in effetti le considerazioni che si fanno in ambito filosofico intorno al significato non tengono mai conto, né potrebbero farlo perché non hanno i mezzi per farlo, del fatto che al di là di ciò che i termini per esempio, i componenti di una proposizione significhino il significato dell’intera proposizione non è più soltanto il prodotto dei significati dei singoli termini che lo compongono, ma è un’altra cosa, e il significato di questa proposizione è molto probabile che abbia a che fare sempre con la necessità di imporre una verità. Certo, la questione del significato è molto complessa così come la pongono i filosofi, poi di fatto è molto più semplice però, come dicevo forse la volta scorsa, si perdono in ipotesi, il più delle volte squinternate e sgangherate che rimangono ipotesi naturalmente e quindi non hanno di fatto nessuna utilità. La questione è che a determinare il significato di una certa proposizione pare intervenire anche l’intenzione di imporre questa proposizione e cioè di mostrare che questa proposizione è vera e farla riconoscere come tale ad altri. Costruiamo una proposizione banale: “ieri Giorgio correva”. Ciò che comunemente si dice è che per comprendere una proposizione di questo genere occorre conoscere il significato dei vari termini “ieri” “Giorgio” “correva”, ora la conoscenza di questi termini è una cosa abbastanza semplice in quanto è fornita da qualunque dizionario e ciascun parlante ha appreso il modo in cui vengono utilizzati questi termini, se so come usare ciascuno di questi termini l’avverbio, il sostantivo, il verbo, so come si usano e so costruire questa proposizione e so dargli anche un senso in generale, cioè che c’è una x, cioè c’è un tale che si chiama Giorgio che compie questa operazione, e questa operazione è avvenuta ieri. Questa proposizione ha una particolarità e cioè, questa è una questione che pongo, il motivo, l’intenzione per cui qualcuno proferisce questa proposizione ha a che fare con il significato di questa proposizione oppure non c’entra niente? Certo se si considerasse che la proposizione non è altro che la sommatoria dei significati dei vari elementi apparentemente no, se invece considero che io affermo una cosa del genere o meglio la proposizione che ho affermata per un motivo e cioè in questo caso per fornire un esempio che serva a chiarire dei concetti, quindi mettere in condizione altri, voi in questo caso, di intendere quello che sto dicendo e quindi fare in modo che attribuiate voi una sorta di verità a ciò che io affermo, oppure può essere una considerazione intorno a ciò che faceva effettivamente Giorgio ieri quindi un mio sapere su un certo fatto, oppure può essere un modo per comunicare ad altri una mia conoscenza intorno a degli eventi, mostrare ciò che io so qualche cosa che altri ignorano. Questi motivi per cui questa proposizione viene pronunciata hanno o no a che fare con il significato di questa proposizione? Se sì in che modo? Questa è la questione che dobbiamo considerare perché se, almeno come pare, il motivo per cui viene detta una certa cosa interviene a determinare in parte e non soltanto, ma interviene anche a determinare il significato di quella proposizione allora la questione può essere importante. La questione può essere probabilmente enunciata in termini molto più generali, cioè “perché si parla?”, perché si costruiscono proposizioni? Sì certo, perché il linguaggio è fatto così, però qual è propriamente il motivo che spinge una persona a costruire una certa proposizione anziché un’altra? È una questione molto complessa, per il momento incominciamo a vedere se possiamo sgrezzarla. Dicevo che uno dei motivi è il fatto di costruire un esempio in modo che possa essere utilizzato da chi mi ascolta per intendere ciò che vado dicendo, dunque il motivo per cui si afferma qualche cosa potrebbe essere la necessità di affermare qualcosa che possa essere riconosciuto da altri e soprattutto accolto da altri, perché se non avessi avuto nessun motivo per fare questo esempio “ieri Giorgio correva” non sarebbe mai comparsa questa proposizione. Se qualche cosa si afferma, allora questa affermazione non è per niente, c’è un motivo. Qui si aprono varie vie, varie direzioni, non ultima quella avviata da Freud: qual è il motivo per cui una persona va in una certa direzione anziché un’altra? Per via delle sue fantasie, e cioè per via di discorsi che per la persona sono importanti e che essendo importanti vanno proseguiti, o in ogni caso confermati e meglio ancora hanno la necessità di trovare conferma in altri perché la fantasia tende a giungere a un’affermazione che, proprio perché la fantasia sia tale, deve in qualche modo dare conto del “mondo” del “come stanno le cose”. La fantasia, contrariamente a quanto si suppone, cerca di chiudere la questione e cioè dire “ecco è così”. Ora se, come andiamo dicendo, ciascuna fantasia ci appare configurata come una fantasia di potere allora si afferma qualche cosa sì, per una fantasia, ma una fantasia di potere, quindi si afferma qualcosa all’unico scopo di ottenere un potere. L’unico scopo, potremmo dire, è affermare qualcosa che sia riconosciuto da altri, che sia accolto da altri, non perché altri comprendano. Qui c’è uno dei problemi che anche la filosofia analitica ha incontrato marginalmente, ma senza capirci molto perché per la filosofia analitica importante è intendere com’è che si capisce qualche cosa, perché ci sia comunicazione, ma la comunicazione avviene anche se l’altro non capisce niente, come per esempio si manifesta il più delle volte in ambito politico, ma in moltissimi altri ambiti: una persona può costruirsi un suo discorso utilizzando un termine di cui ignora il significato però sa, perché l’ha sentito dire da altri, che inserito all’interno di una proposizione di un certo tipo viene accolto. L’idea diffusa in ambito della filosofia analitica che il significato sia la condizione per la comunicazione è falsa, perché che cosa voglio comunicare? Voglio comunicare un mio potere, voglio comunicare che io conosco come stanno le cose, non voglio comunicare i significati propriamente, o anche, ma non solo; io posso veicolare per esempio un significato partendo da una sequenza di discorso che dice soltanto che quello che io affermo è vero, è importante indipendentemente dal fatto che la persona sia al corrente o meno del significato di tutti i termini che io utilizzo, e questa è una questione grossa perché cambia completamente la prospettiva rispetto alla filosofia analitica. Sto dicendo che si parla per affermare delle verità e quindi è implicito nel fatto che si parli il potere imporre o fare accogliere queste verità. Costruisco un discorso e voglio che questo discorso sia accolto da altre persone, ora il fatto che io ritenga questo discorso vero può essere marginale, posso anche sapere che il mio discorso non è vero, “vero” qui in accezione più tradizionale del termine cioè “vero” nel senso dell’adeguamento, io so che quello che dico non è adeguato alla supposta realtà cioè sto mentendo, però voglio lo stesso che ciò che io affermo sia accolto dagli altri, è una cosa che si verifica con una frequenza straordinaria, qualunque finanziaria fa questo tanto, per dirne una, quindi l’intenzione, e cioè la volontà di imporre su altri il proprio discorso non soltanto interviene nella significazione di ciò che io dico ma in molti casi la determina. Se per esempio io faccio un discorso mettendoci dentro dei paroloni, parole difficili di cui pochissime persone so che sapranno il significato, io posso sapere, perché l’ho imparato ovviamente, che usando dei paroloni chi mi sta a sentire sarà indotto a pensare che io sappia molto, perché utilizzo molte parole che loro ignorano, immaginando che io sappia molto il passo successivo è immaginare che io stia dicendo cose importanti, se sono cose importanti sono cose vere. Quindi io ho indotto un significato, che è quello che io sto dicendo cose vere, impedendo in un certo senso alle persone che mi ascoltano di comprendere i significati dei singoli termini, quindi ho fatto un procedimento che è esattamente l’opposto di quello che tradizionalmente si considera che si debba fare per ottenere una comunicazione, e cioè mostrare i significati dei termini o usare dei significati che altri possano comprendere, ho fatto esattamente il contrario, ho usato cioè dei termini dei quali termini le persone non conoscono il significato, cosa è accaduto in questo caso? È accaduto che io ho costruito un’argomentazione al solo scopo di imporre il mio potere, che quindi non passa affatto attraverso la significazione, nell’accezione classica del termine, cioè come adeguamento, non ho detto delle cose che le persone possono riferire a una realtà, perché non sanno neanche di cosa sto parlando. L’operazione che compio in questo caso è di indurre una semiosi cioè una produzione di senso in chi mi ascolta, non utilizzando i significati dei termini, anche se molti devono essere comuni ovviamente, se no non succederebbe niente. Verdiglione usava questo procedimento, e cioè un procedimento che al contrario di quello che utilizzano i logici per esempio consiste nell’utilizzare un termine in una accezione che non è comune, quando dico “non comune” intendo non del dizionario chiaramente, non tutti i termini ovviamente, anche in questo caso se no non si produrrebbe niente, però i termini principali quelli che dovrebbero dare un senso a tutto quanto questi non sono conosciuti perché compaiono in un’accezione che è differente da quella comune. Questo è ciò che per esempio nella filosofia analitica non deve accadere in una comunicazione, sì ma quale comunicazione? Perché in quel caso, sto parlando di Verdiglione, c’era della comunicazione perché si produceva un effetto di significazione. Perché l’uso di un termine in un’accezione che è differente da quella comune, normale, allude, questo perché le persone sono state addestrate in un certo modo, allude al fatto che la persona che sta utilizzando quel termine in un’altra accezione sia padrona, conosca molto meglio il significato di quella cosa, e quindi l’uso, l’accezione che sta usando in quel momento è più corretta anche se meno comune, ma è più corretta, lui, in questo caso Verdiglione, ha la funzione dell’esperto, la filosofia analitica parla di “deferenza” in questo caso cioè ci si rimette, quando non si conosce l’esatto significato di un termine, all’autorità che può essere il dizionario, può essere qualcuno in carne ed ossa. Il fatto è che ciascuno pensa che l’utilizzo di quel termine in un’altra accezione non sia per ignoranza del termine ma anzi, per una grande e notevole conoscenza e consapevolezza delle proprietà di quel termine e quindi si produce un effetto di comunicazione, cioè sta comunicando in quel caso che quel termine che lui sta utilizzando in modo non comune ha un’altra accezione, come direbbe lui, molto più interessante. Questo ha degli effetti nella clinica analitica per quanto riguarda l’ascolto del discorso, il mostrare per esempio che, come si soleva fare, che un certo termine ha, possiede un’altra accezione, non è una questione puramente informativa, non si informa la persona che questo termine ha anche un’altra accezione, significa spostare l’attenzione da una certa accezione che produce delle conseguenze a un’altra accezione che può produrne altre. Questa era la tecnica che veniva utilizzata in buona parte da Verdiglione per intervenire laddove un discorso cercava una chiusura immaginando, che un certo termine avesse quel significato e solo quello. Che sia corretta una cosa del genere oppure no questa è tutt’altra questione ma, dicevo, che introducendo la necessità, diciamola così per adesso, di imporre la propria volontà su altri il significato delle proposizioni viene o può venire modificato proprio da questa intenzionalità: se io per esempio voglio affermare la bontà del fare una certa azione che voglio che altri facciano, posso costruire un’argomentazione che mostra semplicemente i vantaggi di una certa cosa, però altri possono subentrare dicendo che invece facendo in un altro modo si hanno vantaggi anche migliori; ma se io riesco a fare in modo che le cose che io dico appaiano assolutamente vere perché dette da una persona che sa moltissime cose allora sarà più facile per queste persone accogliere quel significato del discorso che io voglio che loro recepiscano, che non è soltanto il fare ciò che io voglio che facciano ma è farlo perché questo è vero, ed è vero perché io dico cose vere e dico cose vere perché so parlare, perché so tante cose eccetera eccetera. A questo punto c’è il significato del mio discorso, che cioè è bene fare una certa cosa, ma c’è anche un altro significato che interviene e cioè il fatto di imporre la mia volontà, imporla in modo tale che siano altri a volerlo fare di buon grado. Il problema più grosso che ho incontrato in tutte le varie teorie semantiche, cioè teorie del significato, della competenza semantica eccetera, riguarda la difficoltà di comprendere perché le persone costruiscono certe proposizioni fatte in un certo modo, mentre invece il motivo per cui vengono costruite certe proposizioni in un certo modo, è molto semplice: sono costruite in un certo modo perché si ritiene quello più efficace non per la comunicazione, i dati di informazione, ma per raggiungere l’obiettivo. Potremmo dire che l’unico obiettivo di un discorso è quello di imporre la mia verità facendola accogliere benevolmente se è possibile dal prossimo. È una questione importante, perché non soltanto mette ancora in evidenza il fatto che ciascuno parla al solo scopo di affermare delle verità, cioè di dire come stanno le cose indipendentemente dal discorso che fa e di che cosa dice, perché è la struttura del linguaggio di cui ciascuno è fatto che impone di procedere per affermazioni, e ogni affermazione cosa afferma? Afferma che le cose sono così. Anche in questo preciso istante ciò che io sto dicendo non esce da una cosa del genere, cioè non esce da una struttura del linguaggio, né potrei farlo ovviamente, e quindi ogni affermazione è come se mostrasse una configurazione di un “mondo possibile” cioè il “mondo” dove una cosa del genere è vera…

Intervento: non c’è l’auctoritas che funziona?

Sì certo, l’auctoritas è un elemento, è una figura retorica per altro non per caso, l’auctoritas è quella che serve, che viene utilizzata per rafforzare la veridicità del proprio discorso, per esempio nel medioevo era Aristotele: “se lo dice Aristotele è così, nessuno può controbattere, non si discute” oppure se vogliamo salire ancora di più è dio “deus dixit”. Dicevo che anche in questo momento non posso esimermi dal compiere le affermazioni, cioè alla lettera “ad fermare” fermare per qualcosa, per qualche motivo; un linguaggio che non procedesse per affermazioni sarebbe complicato perché non avrebbe, procedendo lungo la sua via, non avrebbe degli elementi da stabilire come veri per potere su di questi elementi costruire altre sequenze. Anche se fosse paradossalmente una sequenza dove non si conclude mai niente, ma una sequenza di congiunzioni, e, e, e, e, e… comunque sarebbe partita questa sequenza da un’affermazione, da un elemento che si è posto come un’affermazione in ogni caso, oltre il fatto che sarebbe una conversazione di scarso interesse una sequenza di congiunzioni che congiungono, congiungono elementi che comunque sono affermazioni. Ma al di là di queste amenità rimane il fatto che non è possibile uscire da questa struttura che è quella linguistica, è quella del linguaggio e cioè premessa, passaggi, conclusione, il sistema inferenziale e se anche non usassi per mio capriccio l’inferenza propriamente detta cioè il “se … allora” comunque userei la sua altra forma anziché “se A allora B” “ non (A oppure B)” che è la stessa roba per cui concludo sempre che “non (A oppure B)” è una conclusione, dice qualcosa, afferma qualcosa, che non è vero che se c’è A allora non c’è B, se c’è A ci deve essere B. Sapere questo, e cioè che in questo momento io sto compiendo affermazioni non mette in una condizione critica in ambito teorico, nel senso che ciò che sto facendo è costruire un gioco linguistico che renda conto, stabilite certe premesse, di quali conclusioni si diano. Se io muovo da certe premesse che appartengono al funzionamento del linguaggio, allora posso mostrare, facendo questo gioco, quali possibili conseguenze, implicazioni, possano trarsi da queste premesse non uscendo con questo dal fatto che comunque sto facendo un gioco, anche se muove da premesse che appaiono necessarie, ma il trarre conseguenze da questo è comunque fare un gioco, fare un gioco nell’accezione strutturale del termine e cioè costruire delle sequenze in base a delle regole stabilite. Questo può portare anche all’aspetto ludico del gioco, cioè divertente, il fatto di potere vedere fino a che punto è possibile costruire sequenze in una certa direzione che mantengano la coerenza con la premessa da cui sono partite. Dunque tutta la teoria del significato non ha nulla di naturale, nulla di necessario, ed è questo che la filosofia analitica non ha mai inteso né può intenderlo anche perché per molti di loro, Putnam, per dirne uno, il significato di una certa cosa è garantito dalla cosa, dalla natura, è la natura che ha l’ultima parola, sì io posso chiamarlo questo in un modo, nell’altro ma il fatto di chiamarlo in un certo modo è perché questo coso è quello che è, e quindi è un fatto naturale. È un po’ la questione del Cratilo di Platone, infatti è una sorta di platonismo, ci sono le cose che emanano il significato e quindi il significato è quello, per dire gatto dico ‘gatto’, non posso dire un’altra cosa. È una tesi straordinariamente ingenua oltre che sciocca, eppure ha avuto e ha molti seguaci. La teoria del significato è un gioco linguistico, se non si intende questo allora ci si precipita in un’altra direzione e cioè si cerca qual è il significato vero di una certa cosa, il significato ultimo, anche se molti si sono accorti che pur non essendoci un significato di ultima istanza del concetto di significato, ciò non di meno questo significato ha comunque sempre un referente in qualche cosa nel mondo, per cui io posso chiamarlo in un certo modo, posso dire che questo significato è convenzionale, che è stabilito, che è normativo, tutto quello che voglio, però comunque si riferisce a quella cosa lì. Questo è un problema, anche perché quella cosa lì subisce le stesse sorti del significato che io do a quella roba lì, però di questo abbiamo detto in varie e altre occasioni. Ma dicevo che se la teoria del significato, come appare che sia, non è altro che un gioco linguistico, allora la cosa si fa più interessante, quando dico più interessante lo dico in termini “analitici” consentitemi questo termine, e cioè interessante nel senso che apre altre direzioni, apre altre porte, altre vie, altre cose da interrogare, apre ad altre domande, ad altre questioni e cioè consente di continuare a giocare, visto che il sofista, come in “Alice e il Sofista” non può smettere di giocare, è ciò che non può non fare.

Intervento: cosa ha a che fare il transfert con tutto questo? lei parlava prima dell’ascolto, però perché questo avvenga uno psicanalista direbbe “perché possa spostarsi la direzione del discorso, perché ci sia un’apertura occorre che ci sia del transfert”, a questo punto questo concetto di “transfert” è un concetto. Questo accade continuamente “io ascolto” un discorso politico e mi convinco che le cose stanno in un certo modo cioè ho dato un significato diverso a quello che pensavo perché c’è stato un effetto di ascolto rispetto a una certa questione.

Si è inserito un elemento che lei ha accolto come vero quindi ha modificato. Il termine ‘transfert’ viene utilizzato per indicare qualche cosa di misterioso, di oscuro, che avviene in una analisi e viene indicato come transfert perché non si sa bene che cosa sia però fa comodo dire che c’è il transfert perché questo giustifica tutta una serie di operazioni…

Intervento: si parla di amore di transfert ma questa relazione non è assolutamente differente da qualunque altra relazione…

Stavo considerando che tutto ciò che stiamo facendo in effetti è una teoria dei giochi linguistici, differente da quella di Wittgenstein, e anche questa teoria dei giochi è un gioco, che è la cosa più importante, non è nient’altro che un gioco, non sta dicendo come stanno le cose, anche se afferma, afferma ma sa che afferma all’interno di un gioco, sta qui la differenza sostanziale…

Intervento: le afferma con la consapevolezza che serve semplicemente per giocare.

Esattamente. Ora la questione è che tutto ciò che andiamo dicendo, cioè la questione dei giochi, che è la cosa più importante, potrebbe essere confutata da una teoria che riuscisse a provare che gli umani non sono parlanti, credo che questa sia l’unica condizione in cui ciò che affermiamo potrebbe essere confutato, una teoria che potesse affermare in modo ineccepibile, argomentandolo ovviamente, che gli umani non sono parlanti, è necessario provare che gli umani non sono parlanti perché se sono parlanti sono all’interno di questa struttura linguistica con tutte le conseguenze, non dico che sia facile, non ho neanche detto che sia possibile.