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7 luglio 2021

 

Lezioni sulla storia della filosofia di G.W.F. Hegel

 

La volta scorsa stavamo leggendo ciò che dice Hegel su Anassagora: Col principio di Anassagora (nous, intelletto, come causa di ogni cosa) appare ora la determinazione dell’intelligenza come attività autodeterminantesi. Tale determinazione mancava ancora perché il divenire di Eraclito, che è soltanto processo, come destino, non si determina ancora da sé. Quindi, Anassagora introduce, potremmo usare il termine di Gentile, l’autoctisi. Anassagora invece intende il pensiero affatto oggettivo, vale a dire l’intelletto attivo nel senso in cui diciamo che v’è ragione nel mondo oppure parliamo in natura di generi che costituiscono l’universale. Anassagora, quindi, inserisce questo elemento importante: l’autodeterminazione dell’intelletto, che prima mancava. D’altro lato, di fronte a questo universale sta l’essere, la materia, il molteplice in generale, la possibilità contro l’universale come realtà. Infatti, se il bene o il fine determinato anche come possibilità allora l’universale, come l’automoventesi o piuttosto l’in sé effettivo, insomma l’essere per sé si trova di contro l’essere in sé alla possibilità al passivo. È chiaro che Anassagora non aveva ancora letto Hegel, non c’è ancora questo concetto di integrazione di cui accenna qui. Cita Aristotele dalla Metafisica: In quanto ad Anassagora, chi gli attribuisce l’opinione che i principi sian due, gli attribuirebbe per una argomentazione che egli non formulò chiaramente, ma che avrebbe dovuto ammettere necessariamente a chi gliel’avesse addotta. Infatti, Anassagora dice che originariamente tutto era mescolato, ma dove niente era separato non vi è ancor nulla che sia diverso. Tale sostanza non è qualche cosa di bianco, di nero o di grigio o d’altro colore qualsiasi, essa è incolore, essa non ha qualità né quantità né alcunché di determinato. Tutto, egli dice, era mescolato tranne l’intelligenza, giacché questa è senza mescolanza e pura; sicché egli si trova ad affermare che i principi: l’Uno, che soltanto esso è puro e senza mescolanza, e l’esser altro, ciò chiamiamo l’indeterminato, prima che esso sia diventato determinato e partecipi ad alcuna forma. La critica che Aristotele fa ad Anassagora è che si trova di fronte a due principi: da una parte l’Uno, che è puro e senza mescolanza; dall’altra, l’indeterminato. Vedete come queste figure continuano incessantemente ad apparire. Sono le figure del significante e del significato: l’Uno, potremmo dire l’immanente, l’in sé; di contro, l’indeterminato, l’infinito, e cioè il significato. Ciò che stavano tentando di fare in quegli anni era di trovare questa integrazione tra i due, avvertivano che questi due elementi in quanto separati sono insoddisfacenti. Già con Zenone si era posta la questione, la sintetizzavamo la volta scorsa dicendo che ciò che vedo non è ciò che concettualizzo, non so che cos’è ciò che vedo. Eppure, il ciò che vedo e il non sapere ciò che vedo sono simultanei; quindi, si trattava di trovare comunque un qualche cosa che li integrasse. Occorrerà aspettare fino a Hegel, naturalmente, però hanno posta la questione. Ora, qui Anassagora approccia la questione dello scopo. Ha l’apparenza di determinare uno scopo e di voler prendere le mosse da esso. Ma lo lascia cadere immediatamente e si rivolge a cause affatto esteriori; ma chiamar cause siffatte cose, muscoli, ossa (le cause del movimento, ecc.), è affatto sconveniente. Se però uno dicesse che senza avere muscoli, ossa e tutto il resto che io ho, non potrei fare ciò che ritengo giusto, avrebbe pienamente ragione. Ma sostenere che queste siano le cause per cui io faccio quel che faccio, e che io spero con intelligenza ma senza scelta del meglio, è una grande stoltezza; vuol dire non sapere discendere che una cosa è la vera causa, l’altra invece soltanto ciò senza cui la causa non potrebbe agire, vale a dire, la condizione. È chiaro che quando si parla di causa è ovvio che si trovano sempre problemi, perché si tende sempre a trovare la causa al di fuori, e cioè qualche cosa che muove da di fuori. Con Anassagora si è già arrivati al punto in cui il νος, l’intelletto, è qualcosa che si muove da sé; però, questo nous ha sempre di contro l’indeterminato, ha sempre di contro un qualche cosa che deve integrare ma non si sa come. Rimane, cioè, l’idea che qualcosa si muova sempre per cause naturali. Il senso del nostro rappresentarci che il pensiero crei, ordini il mondo, ecc., non si deve intendere qui che si abbia un che di simile all’attività della coscienza individuale, nella quale io sto da una parte e di fronte a me una realtà, una materia, che io formo, spartisco ed ordino così e così. È l’obiezione che ancora oggi viene fatta quando si pone la questione dell’idealismo: le cose ci sono indipendentemente da me, non sono io che le determino. Certamente no, questo Anassagora lo sapeva. L’universale, il pensiero, deve nella filosofia restar libero da questo contrapposto. L’essere, il puro essere, è esso medesimo un universale, se ricordiamo che esso è assoluta astrazione e puro pensiero. Ma l’essere, in quanto è posto in tal modo come essere, ha il significato di un contrapposto di fronte a questo essere riflesso in se stesso. L’essere che si riflette in se stesso. La questione è già stata posta da Parmenide. Il problema di Parmenide in fondo era questo: l’essere o si doppia (essere=essere), però a questo punto sono due, non è più uno, immobile, irrelato, ecc., come voleva Parmenide, ma l’essere è quello che è per via di una relazione. È questo che i presocratici incominciavano ad intendere e incominciavano a porre. Se io pongo l’essere senza il non essere non ho l’essere perché l’essere, per essere quello che è, occorre che non sia ciò che non è, e cioè il non essere. Quindi, è necessario che ci sia il non essere. Questo Severino lo aveva inteso, solo che Severino dice che questo non essere deve essere tolto; togliendolo, rimane l’essere puro, l’essere parmenideo. Ma come lo tolgo? Già Hegel ci ha fatto capire che se io tolgo il non essere tolgo anche l’essere, perché l’essere è ciò che non è non essere. Quindi, se lo tolgo, come vorrebbe Severino, tolgo anche l’essere, e non c’è più niente. È per questo che non può togliersi, e allora occorre ciò che ha fatto Hegel, l’integrazione: l’essere e il non essere sono due momenti, come in sé e per sé. Fin qui giunsero gli antichi, e sembra poco. Universale è una determinazione povera e ognuno sa parlare di universale ma non sa nulla di esso quale essenza. Il pensiero giunge bensì fino all’invisibilità del sensibile, ma non fino alla determinatezza positiva di considerarlo come universale, sibbene soltanto fino all’assoluto senza predicati. Sarebbe l’essere di Parmenide, che è senza predicati. Il problema è che senza predicato l’essere è nulla, perché sono i predicati, le categorie di Aristotele, che definiscono questa cosa: se io tolgo tutti i predicati, se tolgo tutto ciò che definisce questa cosa, quella cosa rimane indefinibile. Sino a questo punto giunge la rappresentazione volgare dei giorni nostri. Con questo ritrovamento del pensiero chiudiamo la prima sezione… Qui c’è una nota che sarebbe il caso di leggere. Il punto di partenza nel pensiero nel suo ripiegarsi su di sé, internarsi in sé, cioè nel suo farsi pensiero, è l’essere. L’essere, questa somma astrazione, è il pensiero in quanto soltanto comincia, ma l’essere stesso, questo semplice cominciamento, è necessariamente abbandonato dal pensiero in quanto procede oltre nel suo internarsi in sé; quindi, egli si fa esterno e piglia precisamente il significato della massima esteriorità che si possa dare rispetto al pensiero, il significato del contrapposto di quell’esser riflesso in sé che il pensiero è. Questa è una nota del traduttore che riprende pari pari il pensiero di Hegel: il pensiero che si estranea da sé e, quindi, diventa la cosa più esterna che c’è di immaginabile, ciò che è esterno al mio pensiero. Ma è sempre il mio pensiero che compie questa operazione perché, una volta esternato questo pensiero, che devo esternare per poterlo considerare, lo riprendo, lo riassumo, e lo interna in sé; in questo movimento, che è il movimento dialettico, ritorna su di sé, e solo a questo punto il pensiero è pensiero. Aristotele riferisce che uno dei detti, da lui (Anassagora) adoperati con i suoi discepoli era questo, che le cose erano per loro tali quali piacesse loro di crederle. Se pensate che una cosa detta duemilacinquecento anni fa, è notevole: le cose sono tali e quali come a ciascuno piace pensarle. Si ha l’essere unicamente per il fatto che la coscienza lo conosce, e l’essenza è soltanto la conoscenza di esso o il saperlo. Questo è interessate perché dice che noi abbiamo l’essere perché possiamo parlarne, perché possiamo pensarlo. Lo spirito non deve più cercare l’essenza in qualche cosa di estraneo sibbene in se stesso; infatti, ciò che si manifesta in quello che pare estraneo è pensiero. Qui sembra di sentire Gentile: qualunque cosa io pensi sto pensando il mio pensiero. Ciò equivale a dire che la coscienza l’ha in sé. Tenete sempre conto che stava dicendo queste cose duemilacinquecento anni fa. Senonché questa coscienza opposta… Opposta nel senso che si esterna per poi riflettere di nuovo in se stessa. …è coscienza individuale e con ciò è superato di fatto l’essere in sé, giacché l’essere in sé è il non opposto, il non individuale, ma l’universale. Sarebbe l’in sé, che non è determinato, ma per essere quello che è si deve determinare, e per determinarlo ci vuole il per sé, cioè, ci vuole il significato. Vien bensì conosciuto ma ciò che è lo è soltanto nel conoscere, vale a dire, non c’è un altro essere all’infuori di quello che è conosciuto dalla coscienza. Questo esplicamento dell’universale, per cui l’essenza passa completamente dal lato della coscienza, lo osserviamo nella tanto vituperata sapienza mondana dei sofisti. Possiamo considerarlo nel senso che comincia ora a svilupparsi la natura negativa dell’universale. C’è ancora qualche cosa che scrive Nietzsche a proposito dei presocratici che abbiamo considerato. Alcune annotazioni che possono esserci utili. Dunque, I filosofi preplatonici. Nietzsche si occupa dei preplatonici e questo significa che Socrate è compreso nei preplatonici. Qui Nietzsche sta parlando di Anassagora. Un tal essere è l’intelletto (νος), presente in ogni forma di vita, ma nous propriamente non significa né intelletto né ragione, in quanto esprime un potere della lingua proprio solo dei Greci. Esso muove tutto da solo; quindi, anche il movimento nel mondo inorganico deve essere l’effetto di un tale intelletto. Qui c’è una questione interessante. Noi diciamo la parola νος tranquillamente, la traduciamo con intelletto, ma la questione che si pone Nietzsche, e che si porrà poi Heidegger, è che cosa pensava il Greco pronunciando questa parola, cosa gli veniva in mente, a cosa la associava. Tenendo conto che Nietzsche è anche un filologo, qui dicendo νος si dice qualche cosa che muove tutto; quindi, l’intelletto è ciò che muove ogni cosa. Poi vedremo che il movimento, in effetti, non è altro che una sorta di rappresentazione della dialettica. Passiamo ora ad Empedocle. Ricordate intanto i quattro principi: aria, terra, fuoco, acqua, e poi amore e odio, νεκος e ϕιλία. Noi diciamo amore e odio, ma cosa pensava il greco pronunciando la parola νεκος o ϕιλία? Bisogna andarci cauti qui. L’uomo considera vero… Qui sta parlando Nietzsche riferendosi a Empedocle. …solo ciò in cui si imbatte. Ognuno invano si vanta di avere trovato il tutto, ma nessuno può vederlo, ascoltarlo e nemmeno comprenderlo con la mente. Ciascuno considera vero ciò che ha di fronte. In fondo, è anche ciò che pensavano i Greci: il fenomeno, ciò che appare, è il vero. Si suppone che ciò che si vede sia il tutto, corrisponda al tutto. In ciò che si vede ciò che si coglie è un astratto, è un particolare, un qualcosa di determinato, ma lo si scambia per il tutto, cioè si fa, come direbbe Gentile, l’astratto dell’astratto. La ϕιλία, l’amicizia, vuole superare il predominio di νεκος, l’odio. Egli (Empedocle) chiama pure φιλότης oppure στοργή (amore), κύπρις (cipride)… Il nucleo di questa pulsione è la nostalgia dell’uguale; in tutto ciò che è disuguale si genera dispiacere, in tutto ciò che è uguale piacere. In questo senso tutto è animato in quanto avverte la spinta verso l’uguale e il piacere dell’uguale, così come avverte il dispiacere del disuguale. Sta dicendo qui Empedocle, tramite Nietzsche, che ciò muove, la ϕιλία … Qui già da una versione interessante di ϕιλία: il muoversi verso l’uguale, cioè, verso ciò che conosco. Νεκος invece allude all’ingestibile, al nemico, a ciò che non controllo, a ciò che in un modo o nell’altro devo ricondurre all’uguale. Ma adesso si pone il problema principale di considerare come il mondo venga ordinato da quelle pulsioni contrapposte, senza alcuna finalità, senza alcun nous. Qui gli basta il grandioso pensiero secondo il quale, tra innumerevoli difficoltà e impossibilità della vita, nascono alcune forme di vita utili e finalizzate. Qui la finalità di ciò che esiste viene ricondotta all’esistenza della finalità. I sistemi materialistici non hanno mai abbandonato questo pensiero; solo nella teoria di Darwin ne riscontriamo una applicazione particolare. Come dire che si è inventata la nozione di finalità. Ma in seguito a quale domanda? La domanda è come si organizza questo mondo. Naturalmente, c’è già la presupposizione che sia organizzato; da qui la presupposizione di una finalità, di un fine nelle cose, cosa che non è affatto necessaria. Però, questo colpo di genio il grandioso pensiero secondo il quale, tra innumerevoli difficoltà e impossibilità della vita, la finalità ultima si fa strada ed ecco che, come dice Darwin, quelli che meglio affrontano le difficoltà sono quelli che riescono a sopravvivere, mentre gli altri scompaiono. Ora, questa idea della finalità, del finalismo, è rimasta, dice giustamente Nietzsche, fino ad oggi. Dire che c’è una finalità nelle cose è come dire che c’è un ordine nelle cose, che le cose sono ordinate. E se le cose sono ordinate, allora andare contro questo ordine è andare contro natura. Si può, per es., pensare che l’ordine della natura sia quello di mantenere se stessa, cioè di proseguire se stessa. Ciascuna specie ha questo impeto – dio solo sa per quale motivo – di mantenersi in vita e a far proseguire la specie: questa è la natura, questo è ciò che si osserva da sempre. Ora, per fare questo che cosa occorre? Occorrono un maschio e una femmina, sono solo questi due che garantiscono che si preservi questo ordine naturale delle cose. In questo caso, l’ordine naturale delle cose è il mantenimento della specie. Andare contro questo ordine è andare contro natura. Da qui poi sorge l’idea che certi rapporti sessuali siano contro natura; questo sorge dall’idea che esista un ordine naturale delle cose. Se si ammette che esiste un ordine nella natura, allora tutto questo è consequenziale. Lo stesso discorso si può fare all’inverso, nel senso che ammettere che esiste un ordine nella natura è ammettere anche che l’amore debba vincere sull’odio, e cioè che l’amore, nel senso proprio di ϕιλία, debba vincere sull’odio perché le cose comunque proseguono, non si dissolvono; quindi, l’amore è ciò che deve essere in prima istanza posto nelle relazioni di amore, di qualunque tipo esso sia. Anche questa argomentazione segue all’idea che la natura abbia un suo ordine. Entrambe, sia l’una che la sua contraria, muovono dall’idea che la natura sia appunto naturalmente ordinata. Ora siamo con Democrito e Leucippo. Il punto di partenza proprio di Leucippo è rappresentato dalla tesi degli eleati. Solo Democrito parte dalla realtà del movimento, in quanto il pensiero è un movimento. Questo è ciò che determina l’idea della realtà del movimento: il fatto che il pensiero sia movimento. In effetti, il presupposto è questo: c’è un movimento perché io penso, il pensiero ha realtà. Quindi, il movimento è una realtà, la realtà del mio pensiero, il movimento del mio pensiero, della dialettica, avrebbe detto Hegel. Si giunge così all’idea che la materia si muove secondo le leggi più universali attraverso una meccanica cieca, produce conseguenze che sembrano essere disegno di un’altissima sapienza. Qui Democrito concepisce la formazione del mondo. In tal modo nello spazio infinito gli atomi sono sospesi in un movimento eterno. Questo punto di partenza nell’antichità spesso è stato criticato: il mondo sarebbe mosso e generato dal caso, in modo puramente casuale, cioè nessun ordine naturale. Questa è la tesi secondo la quale si nega ogni possibilità di ordine naturale; quindi, si nega la possibilità di quei due discorsi contrapposti, di cui dicevamo prima. Questo è stato il pensiero più criticato. Il cieco caso spadroneggia nei materialisti. Questa è un’espressione del tutto afilosofica. Si deve parlare invece di causalità casuale, di νγκη, necessità, priva di finalità. C’è una necessità interna, il linguaggio ha una necessità interna, ha la necessità di costruire linguaggio, autoctisi, potremmo dire, ma che ci sia il linguaggio non c’è nessuna necessità. Qui si tratta sempre di Democrito. La percezione e il pensiero sono la medesima cosa. Ricordate che questo era il problema del Teeteto, della ασθησις (percezione) che produce il pensiero. Infatti, Aristotele ancora nel De anima osserva: questi (Democrito) identifica senz’altro anima e intelletto. Il vero, per lui, è tutto ciò che appare, sicché diceva che bene aveva cantato Omero “Ettore giaceva altro pensando”. Sui Pitagorici dice alcune cose. Per comprenderne i principi fondamentali dei Pitagorici, per certi versi si deve partire dall’eleatismo. Si parte sempre dall’eleatismo perché ha posto l’impossibilità del pensiero; quindi, tutti i tentativi successivi sono stati finalizzati a rendere possibile il pensiero. Il problema era: come era possibile una molteplicità? Solo per il fatto che pure il non ente avrebbe un essere. Anche perché il non ente è qualche cosa, è appunto un non ente. I pitagorici identificano il non ente con l’πείρων di Anassimandro, l’assolutamente indeterminato, ciò che non ha alcuna qualità; a esso si contrappone l’assolutamente determinato, cioè il peras (il limite, il determinato). L’Uno consta di entrambi, cioè di esso si può dire che è pari e dispari, limitato e illimitato, senza qualità e con qualità. Quindi, contro l’eleatismo essi dicevano: se l’Uno è ente, allora esso in ogni caso è derivato da due principi. In questo caso vi è pure una molteplicità, dall’unità si genera la serie dei numeri aritmetici, monadici, nonché dei geometrici o delle grandezze, le entità spaziali; quindi, se l’unità è qualche cosa di generato, vi è pure una molteplicità. Dal momento in cui si hanno punti, linee, superfici, corpi, allora si hanno pure oggetti materiali. Il numero è l’essere proprio delle cose. Questa è l’idea dei Pitagorici. Gli eleati dicono: il non ente non è, quindi tutto è unità (Parmenide); i Pitagorici: l’unità stessa è il risultato dell’ente e del non ente, quindi in ogni caso il non ente è e, di conseguenza, pure la molteplicità è. Questa sarà poi la tesi che svilupperà Hegel con la dialettica. Ricordiamoci della dialettica di Parmenide, là dell’unità si dice: 1) essa non ha parti né è un tutto; 2) quindi, essa non ha alcuna limitazione; 3) quindi, non è in nessun luogo; 4) non può stare né in movimento né in quiete, e così via. E ancora: in quanto Uno che è risulta essere Uno, e così differenza e poi molte parti, nonché numero e molteplicità dell’essere, quindi limitatezza, e così via. Similmente, si attacca il concetto dell’unità che è in quanto Uno, al quale spettano i predicati opposti, cioè a dire come una cosa contraddittoria in quanto non cosa. Ricordate come i Pitagorici avevano inteso la questione, anche se a modo loro, dell’Uno come qualche cosa che contiene sia il finito che l’infinito, sia l’Uno che il molteplice: c’è già tutto nell’Uno. È un altro modo per intendere la questione del finito e dell’infinito: l’Uno in quanto finito, determinato, contiene in sé anche l’infinito. Ora, tutte queste cose che abbiamo lette ci portano a delle considerazioni interessanti, che ancora non abbiamo fatte. L’accenno che faceva prima Hegel ai Sofisti è interessante, perché i Sofisti hanno compiuto un’operazione notevole. Hanno colto in qualche modo – poi vedremo come – che la logica si basa sulla retorica. Dire questo, e cioè che la logica si basa sulla retorica, significa inficiare la possibilità di validità di qualsivoglia argomentazione, immettendo come criterio di verità il verosimile – questo lo aveva già inteso Hegel – e cioè l’analogia come unico criterio di verità. Come dire che è vero ciò che mi sembra vero: questo è il criterio di verità di qualunque argomentazione, dalla più banale alla più esatta, per riprendere un termine della volta scorsa. Il secondo volume delle lezioni di Hegel incomincia proprio con i Sofisti, con i più importanti, e cioè con Protagora e Gorgia. I Sofisti fanno questo: colgono l’impossibilità per la logica di affermare la verità. La logica può affermare una verosimiglianza. Il fatto è che tutte le argomentazioni che vengono fatte, comprese quelle scientifiche, sono argomentazioni logiche, che utilizzano in modo rigido il sistema logico, il sistema dei sillogismi, cioè quello stabilito dalle tavole di verità. È come se i Sofisti avessero detto: badate che le tavole di verità, su cui ci si fonda per costruire argomentazioni corrette, sono arbitrarie, ciò che si afferma non ha alcuna validità all’infuori di quella che noi attribuiamo alle tavole di verità. Dopo i Sofisti leggeremo qualcosa anche di Platone e di Aristotele, anche per vedere come Hegel approccia questi due pensatori; leggeremo poi qualcosa di Epicuro, che comunque è importante, e poi qualcosa anche degli scettici, di Pirrone e di Sesto Empirico. Gli scettici non sono poi così interessanti, perché nel pensiero scettico è già comparsa l’idea della verità come un qualche cosa che c’è o non c’è, ma la verità è quella lì; è come se l’alètheia greca fosse diventata oramai la veritas latina e non avesse più alcuna possibilità di essere qualcosa da mettere ancora in discussione, cioè da pensare ancora: non è più pensata ma viene utilizzata, è diventata un utilizzabile, come lo era già in buona parte in Platone e soprattutto in Aristotele. Quindi, il fare questo ci porta naturalmente alla questione fondamentale, che è quella della volontà di potenza. I sofisti e in particolare l’eristica… Leggeremo di Platone Il sofista, Gorgia, Protagora e l’Eutidemo. L’Eutidemo è quel dialogo platonico dove si parla in modo più specifico dell’eristica. L’eristica è quella disciplina, messa in atto dai sofisti, in cui c’era il combattimento puro tra due contendenti, dove la validità di ciò che si andava affermando era totalmente inutile e risibile, l’unica cosa che contava era vincere l’avversario usando tutti i trucchi possibili e immaginabili. L’eristica quindi è l’apoteosi della volontà di potenza; l’unico obiettivo dell’eristica è di abbattere l’avversario, non ne ha altri. Questo è il motivo per cui tra l’altro Socrate ce l’aveva con i sofisti: non si occupano di raggiungere la verità ma soltanto di vincere l’agone dialettico. La volontà di potenza, dunque. Ancora non abbiamo colto tutti i risvolti della questione, che magari un po’ alla volta coglieremo. La volontà di potenza risponde a delle domande strane. Per es., perché gli umani parlano sempre? Perché gli umani ridono? Si ride sempre di qualcuno. Perché gli umani giocano? Si gioca sempre contro qualcuno. Tutte queste cose, senza la volontà di potenza, non esisterebbero, non ci sarebbe nulla da ridere, non ci sarebbe nulla da giocare. I sofisti, tra le altre cose, avevano portato all’esasperazione la volontà di potenza, immaginando di potere qualunque cosa attraverso il linguaggio. Ed è vero: attraverso il linguaggio è possibile qualunque cosa. Solo che era messa al servizio della volontà di potenza nel senso della sua rappresentazione, cioè del tentativo di piegare l’altro al proprio volere. Ma ciò che a noi interessa è l’aspetto teoretico della retorica. Nei testi di retorica si parla per lo più dell’uso della retorica, degli strumenti che la retorica utilizza come strumento di persuasione. In effetti, la retorica è prevalentemente uno strumento di persuasione, ma non solo, c’è un aspetto teoretico che riguarda la retorica e che non viene quasi mai considerato. Per es., Cicerone non ne parla praticamente mai, non era un teorico, era un avvocato che doveva vincere le cause a tutti i costi. L’aspetto teoretico della retorica può essere inteso solo a partire dal modo in cui agisce il linguaggio, e cioè dal modo in cui agisce la volontà di potenza, sennò non si intende nulla della retorica, se non come strumento per vincere un agone dialettico, per fare in modo che altri creda ciò che io affermo. Dal prossimo incontro incominceremo a lavorare proprio sui sofisti. Dopo avere letto molto rapidamente il secondo volume di Hegel affronteremo la Metafisica di Aristotele, perché la Metafisica, nel modo in cui la leggeremo, sarà interessante: Aristotele si è trovato a dovere contrastare le obiezioni e soprattutto le aporie poste dagli eleati, in particolare da Zenone e dai Sofisti, e quindi trovare un rimedio e poi, trovato questo rimedio, teorizzare questo rimedio dandogli una valenza e una dignità ontologica. Si tratta quindi di vedere come si è dovuta costruire la metafisica a partire dalle aporie degli eleati. Questo è un lavoro straordinariamente interessante che, per quanto mi risulta, nessuno ha mai fatto. Aristotele in questa opera grandiosa, la Metafisica, ha praticamente determinato tutto il pensiero, insieme anche con il platonismo. Sono ancora vivi questi due pensieri: il platonismo, per esempio, nella matematica, la matematica è platonica; l’aristotelismo nella scienza, la scienza è aristotelica. Questi due modi di pensare hanno deciso non soltanto nel Medio Evo, nella Patristica, nella teologia – il platonismo agostiniano e l’aristotelismo di Tommaso –, ma questi due modi pensare hanno deciso anche di come si pensa generalmente. Si tratterà poi di vedere come in effetti anche questi sono due momenti dello stesso. A Hegel questo è sfuggito, ma questo lo vedremo sicuramente leggendo il suo approccio a Platone e ad Aristotele. Ci interessa come lui coglie questi due pensatori – nel secondo volume dopo i Sofisti parlerà di Platone e di Aristotele –, quali questioni incontra leggendo questi autori, non tanto il riassunto del loro pensiero, che non ci interessa, ma quali questioni Hegel coglie. Hegel è un fine lettore. Certo, legge a partire dalla Fenomenologia dello spirito, non poteva fare altrimenti. Questo è interessante anche perché il lavoro che ha fatto Aristotele per arginare le aporie degli eleati e dei Sofisti è lo stesso lavoro che si continua a fare nei confronti della natura, nei confronti cioè di qualcosa che deve rendersi conoscibile. Questo desiderio, questa volontà di conoscenza della natura – conoscenza in senso aristotelico, di conoscenza esatta – viene da lì, viene dalla necessità di chiudere le aporie, di arrestare la ingestibilità del pensiero che gli eleati, i presocratici in generale, avevano posta immediatamente quando hanno incominciato ad accorgersi che pensavano; basti pensare a Zenone, ma non solo lui. Ciò che ha fatto Aristotele è ciò che a tutt’oggi si continua a fare, nell’immaginare che la scienza – nell’accezione moderna, epistemica, della scienza esatta, come vorrebbe essere – possa cogliere la natura così com’è. Tutto questo ovviamente era già messo in forte discussione dai presocratici fino ad Anassagora. Lo abbiamo visto, con Anassagora la natura la costruisco, è quello che io penso che sia. Anche Gentile poi: quando penso qualcosa, ciò che penso non è quella cosa ma è il mio pensiero pensante. Ed è un modo per intendere anche ciò che sta avvenendo oggi, un modo in più per intendere come pensano gli umani, perché ancora pensano così, pensano in modo per lo più aristotelico, senza saperlo naturalmente, e cioè pensano nel modo che dovrebbe giungere a cogliere la natura per quella che è, presupponendo quindi una natura che sia quella che è. Questo è il presupposto della metafisica. Il presupposto della natura lo pose Aristotele immaginando una sostanza, il primo dei prædicamenta, delle categorie, nonostante ancora ci siano in Aristotele dei problemi rispetto alla sostanza quando poi si tratta di definirla, di determinarla. Però, c’è l’idea di dovere trovare una sostanza che rimanga, che sia quella che è e che consenta quindi di potere pensare in modo scientifico, cioè, in modo esatto. Per fare questo si sono dovuti cancellare i presocratici, lavoro che fa Aristotele nei primi libri della Metafisica. Ha dovuto fare questo prima di potere costruire la sua ontologia, perché con i presocratici non poteva costruire nessuna ontologia. Questo è ciò che faremo nel prosieguo, sempre tenendo conto della questione che dovrebbe costituire l’elemento portante di tutto il discorso, e cioè che ciascuna argomentazione logica, cioè ciascuna argomentazione che utilizziamo per affermare una qualunque cosa, affonda il suo fondamento nella retorica, cioè, nella verosimiglianza, nell’analogia. Ogni argomentazione, tutte, nessuna esclusa.