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7 giugno 2023

 

I concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

In queste pagine, come nelle precedenti, Heidegger sta insistendo molto sulla questione del πάθος, sulle emozioni. Insiste molto come se lì ci fosse qualcosa di veramente importante e noi dobbiamo dargli ascolto. Non ha torto e, in effetti, ci ha mostrato e continuerà a mostrarci come ciascuno è sempre situato in un certo modo: l’esserci è sempre un esserci in un certo modo, non esiste un esserci di per sé, ciascuno è in quel momento. Ma esserci in quel momento significa esserci con le emozioni, ciò che ciascuno prova in quel momento, con il suo πάθος, appunto. Ed è interessante il fatto che Heidegger consideri il πάθος sotto due aspetti: ἡδονή e λύπη, che letteralmente si traducono con piacere e dispiacere. Noi potremmo invece cogliere come soddisfazione e insoddisfazione o, meglio ancora e come lui stesso ci consentirà di fare tra breve, come l’avere il controllo e il non avere il controllo. ἡδονή e λύπη: piacere e dispiacere, ho il controllo, quindi, tutto va bene; non ho il controllo, pertanto mi agito e devo recuperarlo quanto prima. Ci sta dicendo, dunque, che la situatività di ciascuno è sempre connessa con l’avere il controllo o con il non avere il controllo. Infatti, parlerà poi del φόβος, della paura, come perdita di controllo. È una cosa interessante dal momento che i cosiddetti attacchi di panico non sono che l’istantanea perdita di controllo di una situazione che si immaginava di controllare totalmente: all’improvviso, ecco che non controllo più niente, da lì il panico. Naturalmente non è successo nulla, è successo soltanto che il mio pensiero mi ha fatto pensare di non avere più il controllo su niente. Ecco l’importanza del πάθος, del modo in cui ciascuno è situato. Se è situato in modo tale da pensare di avere il controllo allora costruirà proposizioni atte, oltre che adatte, a mantenere il controllo. Se teme di avere perduto il controllo allora costruirà proposizioni che servono a riprendere il controllo. Domanda: è questo che fanno gli umani ventiquattro ore su ventiquattro da quando esistono? Sì. Quando Nietzsche parlava di potenziamento e superpotenziamento alludeva in un certo senso proprio a questo, cioè al fatto che ciascuno costruisce proposizioni per consolidare qualche cosa e, nel momento in cui è consolidato, poi accade quello che diceva Nietzsche, e cioè il depotenziamento, perché interviene la paura. Qui ne parla Heidegger, la paura degli altri: sì, io ho il controllo, ma se gli altri me lo tolgono? Devo, quindi, controllare gli altri, ciò che mi si minaccia di portare via, devo controllare tutto. E, quindi, non mi annoio mai, sono sempre preso a fare qualcosa di importante, perché io ovviamente lo ritengo importante – per il resto del mondo no, ma il resto del mondo non mi interessa minimamente; quello che mi interessa è che per me è la cosa più importante, perché è quella che mi dà da parlare. E qui lo dice a un certo punto: è la paura che innesca il λόγος – ho paura, quindi, mi do da fare, quindi, costruisco proposizioni, scene, racconti, per arginare il timore di perdere qualcosa. Ma vediamo cosa dice qui Heidegger. A pag. 266. Nello οὗ ἔνεκα (per che cosa) emerge l’autentico carattere ontologico dell’essere del vivente. Il carattere ontologico dell’essere del vivente è il “per che cosa”: qualunque cosa è sempre per qualche altra cosa. Potremmo aggiungere che se fosse per sé non esisterebbe, ma esiste in quanto è per qualche cosa. La vita è sempre riferita al “per che cosa”, al τέλος, all’“esserci finito” nel senso dell’“essere nel mondo”. Il τέλος, il finito: ogni cosa è sempre volta al finito, cioè, il “per che cosa” è rivolto sempre alla finitezza. Per tornare al discorso che facevo prima, ciascuno costruisce proposizioni sempre per un qualche cosa di finito, cioè di utilizzabile – solo se finito, come sappiamo, è utilizzabile. Quindi, il “per che cosa”, potremmo dirla così, si rivolge a un qualche cosa che deve essere utilizzabile, e per essere utilizzabile deve essere finito – finito nel senso di compiuto. Tutte le determinazioni ontologiche del vivente vanno primariamente orientate sull’essere in quanto essere-presso,… Non fa altro che parlare della relazione, insiste incessantemente sulla relazione. …poiché è da esso che ogni ente riceve anzitutto il suo carattere determinato nel suo aspetto. È evidente: l’essere presso qualcosa è ciò che dà l’aspetto di un qualche cosa. Cesare ha quell’aspetto perché è presso tutte le altre cose che non sono Cesare. Possiamo cogliere così anche la ὕλη nel suo essere caratteristico. Il σῶμα (corpo), la ὕλη del vivente, non è semplicemente materia che appare diversamente nel suo contorno, poiché il σῶμα del vivente è piuttosto ὃργανον (strumento). La materia, che è sempre stata pensata come il fondamento alla base di tutto, è posta come strumento, cioè come qualcosa che è per qualche cos’altro; neanche la materia è per sé. Questo lo dirà anche Aristotele nel De generatione et corruptione. La materia del vivente ha il carattere primario dell’essere-per…, essere-presso, essere-in. Potremmo anche dire: essere nel linguaggio. Il termine ὃργανον intende significare: un ente che ha il carattere della prestazione, che è orientato in se stesso sull’“essere per la fine”. Anziché come strumento, Heidegger traduce così ὃργανον, in modo più articolato: l’essere di qualche cosa è sempre orientato verso la sua fine, verso il suo compimento. Riprendendo il discorso di qualche volta fa, l’essere dell’antecedente è sempre rivolto al conseguente, perché sappiamo che non c’è antecedente senza conseguente. Poiché ogni momento dell’essere compiuto del vivente in riferimento alla ὕλη ha questo carattere di compiutezza, l’interpretazione di questo stesso ente deve prendere la mosse dal carattere primario dell’essere-in; … /…/ Nel caso del vivente ogni ὕλη è ὃργανον Ogni materia è sempre strumento, cioè, è per qualche cos’altro. …determinato dalla possibilità del vivente, prefigurato dalla prestazione. Questo anticipa un po’ quello che poi Heidegger dirà in Essere e tempo rispetto all’utilizzabile: orientato verso la prestazione vuole dire utilizzabile. Queste due cause: lo οὗ ἔνεκα e la seconda questione in esso fondata: ὃθεν ή άρχή τῆς κινήσεως (il da dove) mostrano in quale contesto ontologico si collocano i πάθη. Le emozioni sono anche un loro un “per che cosa”. Teniamo sempre presente che le emozioni sono fondamentalmente due: piacere e dispiacere, controllo e perdita di controllo. I πάθη sono determinazioni della possibilità ontologica dell’uomo. Queste emozioni sono determinazioni della possibilità stessa dell’uomo, di essere quello che è. Quindi, sono fondamentali, hanno direttamente a che fare con l’essere. Aristotele affronta il movimento… Sì, perché l’emozione, come già dice la parola stessa, prevede il movimento: ex moveo. …nel De motu animalium. Pe lungo tempo questo scritto fu ritenuto non aristotelico, e solo Werner Jaeger poté dimostrare, in base allo studio dei manoscritti conservati a Roma, che si tratta a tutti gli effetti di un’opera di Aristotele. Jaeger stesso ne ha dunque curato la nuova edizione. Si tratta di uno scritto di fondamentale importanza per la questione di principio relativa al movimento del vivente. Un suo passaggio essenziale è quello in cui Aristotele mostra in che senso il movimento in quanto tale è possibile solo se qualcosa è in quiete. A pag. 268. …una scienza può essere attiva già da lungo tempo, può avere già accumulato materiali e scoperto principi e teorie, e ciò nondimeno non essere ancora minimamente in chiaro quanto al suo oggetto, e che lo sviluppo di una scienza non dipende dalla quantità di acume e di tecnica dimostrativa che essa di per sé implica. La scienza è infatti una questione che riguarda il giusto rapporto con le cose. Come mi rapporto alle cose? Lui dice che è preferibile rapportarsi bene alle cose, ma qui non si tratta di rapportarsi bene o male alle cose quanto rapportarsi alle cose in modo tale da intendere queste cose come facenti parte di un tutto, cioè facenti parte del linguaggio. Questo sarebbe il modo “giusto” per approcciare le cose: o le considero nel linguaggio e allora ho un qualche accesso alle cose, oppure le considero fuori del linguaggio e allora mi precludo per sempre ogni accesso; posso misurare, calcolare tutto quello che voglio ma non avrò mai accesso a niente. Questo non li si può ottenere con la forza… Con il calcolo. …poiché si tratta di qualcosa che dipende da noi al massimo per ciò che concerne i preparativi, ma che in fondo dipende dal destino, ovvero dalla misura in cui giungono ed esistono coloro che danno vita a tale rapporto fondamentale. Non sono le cose che importano, siamo noi in quanto diamo alle cose il valore che riteniamo abbiano o vogliamo che abbiano. A dispetto di ogni teoria precedente, gli uomini di scienza sono stati a poco a poco costretti dalla verità stessa a vedere l’ente. Nel medesimo contesto Aristotele utilizza due espressioni caratteristiche importanti per ciò che egli intende come verità. Dice di Empedocle: egli fu guidato dalla verità stessa, che in un certo senso fece crollare la sua teoria. E di Democrito: egli fu spinto dalla cosa stessa e ne fu condotto alla scoperta che l’ente dovrebbe essere concepito in riferimento non solo alla sua ὕλη, ma anche al suo σχῆμα (forma). I termini ἀλήθεια (verità) e πρᾶγμα (cosa) sono usati qui nel medesimo senso: ἀλήθεια non significa “validità”, conformità a una tesi, o qualcosa del genere (come insegna una logica fuorviante), bensì nient’altro che l’ente nel suo essere scoperto, è πρᾶγμα, nella misura in cui l’ente con cui ho a che fare “ci” è in una certa svelatezza. Sì, certo, “in una certa svelatezza”, ma questa certa svelatezza è data da che cosa? Dal πάθος, dal modo in cui io mi approccio alla cosa. Non serve a niente, lo diceva prima, forzare la cosa attraverso il calcolo matematico, perché non raggiungerò nulla se non tengo conto del modo in cui io mi sto approcciando alla cosa. Potremmo dirla così, forse più semplicemente: che cosa ho intenzione di fare? Questo determinerà ciò che farò, ciò che proverò, ciò che calcolerò. L’accesso alle cose era sbarrato poiché si negava la domanda sul τό τί ᾖν εἷναι (in latino “Quod quid erat esse”, ciò che era e continua a essere), nella misura in cui ogni indagine in senso stretto a essere in questione sarebbero il “che cosa” e il “come”. Il “che cosa” e il “come”, questi due aspetti sono inscindibili. Come accade sempre, ci sono i due aspetti che occorre considerare, per dirla alla Hegel, come due momenti dello stesso. Non li consideriamo come due momenti dello stesso e allora ci ritroviamo, volenti o nolenti, nel discorso religioso: buoni e cattivi, bene e male. Qui fa un’annotazione interessante. Socrate ha invitato a occuparsi delle cose stesse, benché al suo tempo lo ζητεῖν περί φύσεως (ricerca intorno agli enti di natura) fosse un po’ in ribasso, dato che si preferiva rivolgersi alla πολιτική, mentre i φύσει ὅντα passavano in secondo piano. Non fu una dimenticanza qualsiasi, come se si badasse più alle scienze dello spirito che a quelle della natura, fu invece un errore fondamentale, dato che anche i concetti dell’“essere della πόλις” si basano su concetti naturalistici. Aristotele se ne rendeva conto e concentrò il suo lavoro dapprima sull’indagine della φύσις in quanto essere. Da qui egli ha guadagnato terreno per l’indagine ontologica in quanto tale. Cosa vuol dire tutto questo? Che c’è una cosa importante: occuparsi della φύσις, di ciò che appare, di ciò che sorge, cioè, occuparsi del linguaggio. A pag. 269. Il πάθος in quanto ἡδονή e λύπη (piacere e dispiacere, controllo e perdita di controllo). 1. L’essere della natura vivente è definito nel suo εἶδος in quanto δύναμις dell’“essere nel mondo”… In quanto forma che può essere nel mondo. … dunque anzitutto in quanto εἶδος, determinazione ontologica dell’ente. È interessante qui anche perché se si tiene conto del lavoro di Aristotele, εἶδος qui diventa l’essere, diventa come l’ούσίαIn Aristotele accade tante volte che intende l’εἶδος come essere, il λόγος come essere, l’ούσία come essere; ci sono continuamente oscillazioni, non lo definisce mai in modo unitario, ma è sempre definito da una serie di cose a seconda del momento. 2. In quanto incontro a partire dal mondo: il vivente è nel mondo anche in un secondo senso, nel senso dell’appartenenza al mondo. Io guardo il mondo, io-mondo guardo il mondo. Io sono il mondo e guardo il mondo. Quindi, che cosa guardo? Me stesso. Cosa vi dicevo qualche volta fa? Quando si parla, si parla sempre soltanto di parole. Lo diceva Gentile: quando si pensa qualche cosa, in realtà si sta pensando il proprio pensiero. Il mio essere è “essere nel mondo” e, al tempo stesso, nel secondo senso, essere nel mondo in quanto appartenenza a esso,… Sì, sono nel mondo, ma appartengo al mondo, io e il mondo siamo la stessa cosa. Ci sarebbe da evocare Hegel: soggetto e oggetto sono la stessa cosa, io soggetto che guardo l’oggetto sono la stessa cosa che sto guardando. Questo per sottolineare quanto fosse importante per Hegel l’Aufhebung, l’integrazione, cioè tenere i due momenti come inseparabili e, torno a dirvi, nel momento in cui li separo, in quell’istante io costruisco una religione: buono-cattivo, ragione-torto, ecc. … e precisamente in modo tale che io, nel mondo, posso farmi incontro per qualcun altro, come una sedia. È per questo che vedo la sedia: perché io sono il mondo, e vedendo il mondo allora le cose appaiono, perché sono io che parlando produco parole e in queste parole c’è anche quella cosa che chiamiamo sedia. Per i greci sono entrambi εἶδος, il greco non conosce la differenza tra osservazione esterna e osservazione interna. Ne derivano connessioni fondamentali dell’essere della vita in senso ampio. Faccio notare che l’essere l’uno con l’altro ha ricevuto ora una definizione più precisa: 1. Nell’“essere l’uno con l’altro” a essere l’uno con l’altro sono quegli enti che sono “essere nel mondo” ciascuno per sé. Essere l’uno con l’altro è la tesi fondamentale di Heidegger. È questo l’essere nel mondo: io sono nel mondo perché sono continuamente con altri, sono in un continuo dialogo con l’altro; anche quando lo faccio tra e me, ma comunque è sempre un dialogo, non posso cessare di essere un dialogo. L’incontrarsi l’un l’altro è l’esserci l’uno per l’altro, in modo tale che ogni ente, che è per l’altro, è nel mondo. L’essere nel mondo è essere in relazione. Essere nel mondo possiamo intenderlo benissimo come essere nel linguaggio, non è altro che essere in relazione con qualunque cosa: se mi approccio a qualunque cosa sono già in relazione a questa cosa. A pag. 270. Riassumiamo i risultati dell’intera analisi dei πάθη: i πάθη sono qualcosa che accade nell’anima… L’anima come la intende il greco, non l’anima dei cristiani, come ciò per cui ciascuno è vivente. Parlava della ψυχή, ricordate: la ψυχή è l’essere vivente in quanto fa delle cose; come diceva lui stesso, è colui che legge il giornale la mattina, e per leggere il giornale devono esserci una serie di cose. …che è nell’essere-vivente, e significano l’essere coinvolti, il perdere il controllo, che mira all’essere autentico del vivente, l’“essere in un mondo”. Quindi, questo perdere il controllo ha a che fare con le emozioni. L’emozione è una perdita di controllo. Emozione, ex moveo, cioè sono mosso da qualche cosa. I πάθη sono modi dell’essere convolti in riferimento all’“essere nel mondo”, attraverso di essi vengono determinate in modo essenziale le possibilità di orientarsi nel mondo. Sta dicendo che sono le emozioni quelle cose che ci orientano nel mondo e non la ragione, la ratio. Le emozioni ci orientano, ci fanno andare da una parte oppure da un’altra. Il ragionamento interviene dopo a dare giustificazione all’emozione: io sento questo perché… L’ho inventato lì sul momento, ma magari è un ragionamento fatto per benino, come Dio comanda, che mi convince. E, quindi, mosso dalle emozioni, sono continuamente indaffarato a costruire quelle proposizioni che mi danno conferma di ciò che le emozioni mi dicono.

Intervento: Verrebbe da dire che la logica sia un modo per riacquisire il controllo.

Sì, la logica così come è intesa oggi. Bisogna sempre tenere conto che la logica, così come la ponevano gli antichi, era una cosa differente. La logica, che sarebbe meglio chiamare processo inferenziale, è semplicemente la necessità per l’antecedente, per esistere, di avere un conseguente, che lo rende finito, utilizzabile: questo è il processo inferenziale, da cui poi è sorta la logica. In se stesso, l’“essere fuori di sé” è riferito all’essere-pronto, alla ἓξις. Uno che è fuori di sé dev’essere pronto a fare che? A ristabilire il controllo. Mediamente e quotidianamente siamo coinvolti, ci muoviamo oscillando fra tensioni opposte. In riferimento a ciò si dà un essere-pronti. Poiché, quindi, i πάθη si caratterizzano come un modo di essere del vivente la cui struttura fondamentale è l’“essere nel mondo”, l’avere a che fare in esso, l’avere a che fare con altri, ne risulta prefigurata l’analisi dei singoli πάθη in quanto tali, nella misura in cui sono da considerarsi: 1. in riferimento al mondo in cui il vivente in questione si trova-situato, cioè al mondo-ambiente che circonda il vivente stesso; 2. in riferimento al modo del sentirsi-situato, del comportarsi nei confronti del mondo degli altri; 3. in riferimento a come si debba essere noi stessi, a quale debba essere la nostra stessa disposizione d’animo per essere afferrati dai vari πάθη. Una caratteristica determinazione dei πάθη, che finora non abbiamo discusso, è che ciascun πάθος, a ciascun essere coinvolti, segue una determinata situazione emotiva, benché non in senso temporale: con il relativo πάθος fa tutt’uno una ἡδονή o una λύπη. Fa tutt’uno, cioè, il πάθος non fa altro che questo: soddisfazione e insoddisfazione. Questa è l’emozione che gli umani provano, non ce ne son altre, ci sta dicendo leggendo Aristotele. Dice che il πάθος fa tutt’uno con questi aspetti, non è qualcosa che si aggiunge prima o dopo, no, sono la stessa cosa. L’emozione è avere o non avere il controllo sulle cose. La determinazione della compresenza simultanea della relativa situazione emotiva è talmente fondamentale da indurre Aristotele a sostenere che il πάθος stesso sarebbe una ἡδονή o una λύπη. Questa è l’emozione. Tutte le emozioni, e ce ne sono un certo numero, sono avere o non avere il controllo; su questo, ci dice Heidegger, Aristotele ha insistito moltissimo nella Etica Nicomachea. A pag. 271. …ogni ente che vive reca implicitamente in sé la determinazione in base a cui esso tende alla vera e propria finitezza dell’esserci. Qui si apre una questione: l’essere finito. È questo a cui tende, il τέλος. Avere il controllo significa poter rendere finito qualcosa, cioè renderlo utilizzabile per altro. Questo è avere il controllo sulle cose: renderle finite. Ogni vivente è per così dire tendenzioso, ha la tendenza a essere in quanto essere-finito. Io sono in quanto finito, compiuto. Quindi, ciò che a noi interessa è questo, e cioè che questa ἡδονή, questa λύπη, avere o non avere il controllo, è connesso con il fatto di essere o non essere finito. Ciò che è finito lo controllo, ciò che non è finito è πειρον, è fuori controllo, ed essendo fuori controllo mi chiama perché io lo controlli, così mi dà da fare, sono sempre occupato e non mi annoio mai. In fondo, è quello che fanno gli umani quotidianamente: trovare sempre e continuamente qualcosa da fare, cioè qualche ente da dominare, sennò sono perduti, non sanno cosa fare, perché non sanno di essere dei. Ci riallacciamo qui alla Metafisica di Aristotele, lo accenna anche qui a un certo punto: dio, nell’accezione aristotelica del termine θεῖον, non è altro che il pensiero che pensa se stesso. È quel pensiero, dicevamo qualche volta fa, che non ha più da dominare nessun ente perché sa di averli già dominati tutti. Li ha dominati non nel senso che li controlla tutti quanti ma nel senso che sa che cosa sono e cosa non possono non essere, in questo senso li ha “controllati”. E questo sarebbe il dio, θεῖον. Qui c’è una citazione. “Tutti perseguono una ἡδονή”, una situatività, e per lo più “non quella cui credono di aspirare, né quella di cui comunemente si dice che importi agli uomini, bensì tutti la medesima”. Agli uomini importa di vivere. “Vivere” potete pensarlo così: continuare a parlare. L’ente, in quanto vivente, è un essere tale cui… Questa è un’espressione celebre di Heidegger. …nel suo essere, ne va dell’esser-ci. Quindi, è quell’essere tale per cui è così fatto che per lui ne va, cioè importa del suo esserci. È l’unico ente al mondo in cui importa di sé, in cui pensa se stesso, in cui cerca il piacere, la soddisfazione, cioè, cerca il controllo: in questo senso ne va del suo esserci. In Aristotele il θεῖον non è nulla di religioso: θεῖον in quanto essere autentico dell’essere-sempre, dell’eterno. Se ne può già dedurre che la ἡδονή è una determinazione del vivente che appartiene all’essere-vivente come tale. Qui dice una bella cosa. Dice che tutti cercano l’ἡδονή, però dice che non è così, che è una determinazione, è già qui. Questa soddisfazione che tutti cercano non è qualcosa che si aggiunge, che interviene a un certo punto e poi va via, no, è sempre presente, perché non è nient’altro che la volontà di potenza, la volontà di dominare l’ente. La ἡδονή, il sentirsi-situato, è la situazione in cui ho notizia del mio “essere nel mondo”… Mi accorgo di essere nel mondo, diciamola così, per via della volontà di potenza, perché voglio impormi su qualcosa. È questo, dice, che mi dà notizia del mio essere nel mondo, cioè mi dà il motivo per esistere: io sono in quanto voglio impormi. …io ho il mio “essere nel mondo”. Al tempo stesso, io ho una determinazione del mio essere, un modo del mio essere. Di volta in volta sono diverso. Questo fenomeno è appunto ciò che intendiamo quando diciamo o chiediamo a qualcuno: “Come va?”. Chiedere a una persona “Come va?” è come chiedere “Come sei situato?”. La ἡδονή non è il cosiddetto “piacere”, ma una determinazione dell’essere in se stesso in quanto vita. Sta continuando a insistere sul fatto che la ἡδονή, che a questo punto è la volontà di potenza, è qualcosa che fa parte dell’essere di ciascuno, è la vita. Solo in questo quadro è possibile sviluppare l’analisi della ἡδονή in quanto determinazione fondamentale. Aristotele approfondisce la sua spiegazione della ἡδονή nel libro X, capitolo 8… /…/ L’atto del “vedere”, l’“avere sott’occhio”, il “guardare attivo” è in se stesso “finito”, τέλειον, il che significa: non vi è nulla che possa ancora aggiungersi per rendere più compiuto il vedere in ciò che è, poiché ogni volta che vedo, il vedere “ci” è, in se stesso, sempre tutto d’un colpo. Questa è l’idea che offre Aristotele del vedere: io vedo l’uno, la forma, l’εἶδος, ed è quella e non un’altra cosa. Questo perché il vedere non è indubbiamente nient’altro che un modo, attuato in questo momento, dell’“essere attualmente presenti nel mondo” nel modo dell’“aver-lo”. A pag. 273. La ἡδονή è qualcosa di finito in se stesso,… Ritorna la questione della finitezza. …che non si muove: il suo essere non è tale da diventare finito solo nel corso di un determinato tempo. La ἡδονή è già da sempre finita, nel senso che è il finito. Se ci atteniamo alla traduzione di ἡδονή come l’avere il controllo, allora se ho il controllo è finito. È la λύπη, il non controllo, che invece si trova ad avere a che fare con l’ᾂπειρον, con l’indeterminato. Invece la ἡδονή, esattamente come l’αἴσθησις, è ciò che è “nell’attimo”, “non nel tempo” inteso nel senso di una determinata estensione – essa non perviene all’essere-finita solo nel corso del tempo. Questo carattere, il fatto di non essere una κίνησις (movimento), la contrassegna come una determinazione della presenza attuale dell’esserci in quanto tale. Perché io sono l’esserci? Perché io ci sono in questo momento e ci sono in questo momento nella mia situatività, che sappiamo essere determinata da ἡδονή e λύπη, dall’avere il controllo oppure no: io sono questo, questo è l’esserci. È vero che Aristotele, nel libro I, capitolo 11, della Retorica dice che la ἡδονή è una κίνησις, κίνησις τις (movimento verso qualcosa), nella misura in cui essa ha anche la determinazione del πάθος, determinazione dell’“essere di volta in volta coinvolti”. Ciò implica la determinazione del “mutamento repentino da… a…”. In relazione a ciò anche la ἡδονή è in un certo senso una κίνησις, una μεταβολή (mutamento). In un certo senso però, perché ha appena detto che invece non è movimento. Tuttavia è anche vero che la ἡδονή non è un modo di essere che si presenta ogni tanto, che potrebbe comparire in concomitanza con un altro modo di comportarsi: la ἡδονή è in se stessa già compresente con l’essere in quanto vivente. Ci sta dicendo che la compiutezza è necessaria: parlando io compio continuamente le cose. E questo ce lo diceva bene Aristotele parlando del processo inferenziale: parlando io compio continuamente. L’inferenza “se-allora” che si pone ogni volta come finita, quindi, come utilizzabile. E io sono sempre lì, sono sempre in questa cosa: se parlo faccio continuamente questo. Non si può dire che essa, per esempio, sia presente in quanto possibilità nel relativo avere a che fare in quanto tale, non è una ἓξις dell’αἴσθησις (possibilità della percezione) – come se per il fatto che vedo correttamente, e vedo l’oggetto adatto, tramite il compimento del vedere subentrasse la ἡδονή –, non va intesa come un risultato di queste circostanze, bensì, al contrario: la possibilità del “sentirmi situato in questo e quel modo” si fonda nel mio essere in quanto “essere nel mondo”. Per dirla in termini spicci, io ho questa possibilità di sentirmi situato nel mondo, di essere nel mondo, perché parlo: io sono nel mondo perché parlo; se non parlassi non sarei nel mondo, semplicemente non sarei. Non è un risultato di determinate circostanze, tanto che Aristotele, nella sua definizione della ἡδονή, può identificarla tout court con la ζωή, la “vita”. È la vita. Che è un altro modo di dire ciò che dicevamo tempo fa, e cioè che la volontà di potenza è il linguaggio, non è una cosa che si aggiunge, ma “è” il linguaggio, cioè, la vita, la vita è linguaggio. A pag. 274. L’essere autentico dell’uomo, la sua suprema possibilità di essere, consiste nel θεωρεῑν, che è la possibilità di esser-ci nel modo più radicale. In sintesi, la ἡδονή altro non è che la determinazione della presenza attuale dell’“essere nel mondo”, che “ci” è nel sentirsi-situati in quanto tale. La ἡδονή è il modo in cui io sono presente in questo momento nel mondo, e cioè il modo in cui mi sento in questo istante; non posso fare altro, non posso sentirmi come mi sentivo dieci minuti fa, né posso sentirmi come mi sentirò tra un quarto d’ora, non lo posso fare. Facendo seguito a questa definizione della ἡδονή esporrò brevemente come va inteso ciò che è stato detto del θεωρεῑν. Bisogna quindi sbarazzarsi del modo in cui la psicologia tradizionale concepisce λύπη e ἡδονή come annessi dei processi psichici. Qui, quando si parla di ἡδονή, si mira sempre alla vita in quanto “essere nel mondo”. Essere nel mondo, cioè essere nel linguaggio, non è un processo psichico, ma è la condizione per potere pensare i processi psichici. Soltanto così si può comprendere il modo in cui Aristotele caratterizza i vari πάθη. Con quale diritto il φόβος è concepito come λύπη, ossia come un determinato sentirsi-situato caratterizzato dall’essere-depresso? Abbiamo una struttura fondamentale peculiare: l’esserci, nella misura in cui è vita, è sempre un esserci di volta in volta, non si dà un esserci in generale. Non c’è l’esserci di per sé, c’è l’esserci che sono io in ciascun atto, in ciascun momento. Esserci è sempre: io sono, non un ente che è, bensì un ente che io sono, e che però ha nel contempo la possibilità di essere un ente che si è. Io sono e, poiché io posso dire io sono, posso anche dire che io sono un ente. Ogni ἡδονή è una determinata ἡδονή, così come ogni λύπη. Non c’è una ἡδονή in astratto ma c’è la situatività di ciascuno in ciascun momento, cioè il modo in cui vive, il modo in cui avverte l’emozione. E l’emozione sappiamo che cos’è: controllo e perdita di controllo. Queste sono le emozioni, non ce ne sono altre. A pag. 275. …la vita è caratterizzata in quanto “essere nel mondo”, vita in quanto essere-in. È data così la possibilità che l’ente che è in questo modo, in quanto orientato, in un certo senso abbia con sé se stesso. Un ente che può pensare se stesso. Ma come si pensa? Si pensa attraverso le emozioni, attraverso il tentativo di controllo. Quindi, quando io penso a me, questo mio pensare a me è già un controllare. Dobbiamo però rinunciare all’idea che l’“avere se stesso” sia orientato alla riflessione. La riflessione è solo una forma per così dire esagerata in cui l’esserci è cosciente di se stesso. Ma in base a ciò non si potrà mai pervenire alla comprensione del modo primitivo del sentirsi-situato. L’affettivo in quanto tale ha già il carattere dell’“avere se stesso”. La ἡδονή penetra in modo talmente originario nell’essere dell’esserci da poter essere identificata con lo ζῆν. La ἡδονή appartiene all’esserci stesso. È interessante qui la questione della riflessione. La riflessione viene dopo l’emozione. È l’emozione che pilota la riflessione. È l’emozione, cioè la mia necessità di controllare le cose che determina le mie argomentazioni. Le mie argomentazioni sono costruite sulla necessità di controllare le cose, non hanno nessun’altra funzione e la logica serve esclusivamente a questo, al controllo. La ἡδονή (o la λύπη), si è detto, è originariamente inseparabile dall’esserci del vivente e ne costituisce la situatività fondamentale, cioè il modo in cui l’esserci, per così dire, coinvolge se stesso; ora, è proprio per questo che la ἡδονή può essere caratterizzata in quanto πάθος, un πάθος che Aristotele descrive come “completamente impregnato di colori”, un πάθος, insomma, che colora e impregna completamente il ϐίος, non ζωή: ϐίος in quanto “esistenza”, “vita” intesa, in senso accentuato, come vita dell’uomo, che afferra se stessa nella προαίρεσις (intenzione di fare qualcosa). Aristotele fornisce una formulazione diversa, più precisa, ripetendo costantemente: in ogni prendersi cura sono compresenti sia la ἡδονή che la λύπη, in ogni πάθος, ma anche, analogamente, in ogni percepire, pensare, ponderare, nonché nella θεωρία. Tutti questi casi, nella misura in cui si tratta di modi fondamentali della vita, sono inseparabilmente accompagnati dalla ἡδονή.