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7 giugno 2017

 

M. Heidegger, Essere e Tempo 

 

Siamo a pag. 196. Aveva appena parlato della σύνϑεσις e della διαίρεσις e diceva che Nella logistica è risolto in un sistema di “correlazioni”; diviene oggetto di “calcoli”, anziché esser tema di interpretazione ontologica. Si limita al calcolo proposizionale anziché domandarsi che cosa sta facendo. La possibilità e l’impossibilità della comprensione analitica di σύνϑεσις e διαίρεσις e della “relazione” nel giudizio in generale sono strettamente connesse al rispettivo livello raggiunto dalla problematica ontologica fondamentale. Quanto profondamente questa problematica influisca sull’interpretazione del λόγος e, inversamente, con un singolare contraccolpo, quanto il concetto di “giudizio” influisca sulla problematica ontologica, risulta chiaramente dal fenomeno della copula. È una questione sulla quale Heidegger ha insistito parecchio perché è fondamentale. L’ha ripresa anche in moltissime altre occasioni, in quanto è uno degli elementi che consente di parlare. Copula, quindi, lega degli elementi. In questo “legame” vengono in chiaro due cose: in primo luogo che la struttura della sintesi vi è assunta come ovvia, e in secondo luogo che essa conserva la sua funzione interpretativa determinante. Quando diciamo che “questo è quello” facciamo una sintesi, una condensazione. Ma se i caratteri formali di “relazione” e di “legame” non possono portare alcun contributo fenomenico all’analisi concreta della struttura del λόγος, risulterà chiaro che il fenomeno cui si allude con il termine “copula” non ha in fondo nulla a che fare con quelli di legame e di collegamento. L’“è” e la sua interpretazione, sia che l’“è” venga espresso esplicitamente, sia che si faccia ricorso per indicarlo alla desinenza verbale, cadono nel contesto dei problemi dell’analisi esistenziale, perché l’asserzione e la comprensione dell’essere sono possibilità esistenziali dell’essere stesso dell’Esserci. (pag. 196-197) La questione della copula, del l’“è”, va affrontata in termini esistenziali, non in termini logici. Affrontata in termini esistenziali vuol dire che non si può pensare all’“è” se non ci si riferisce all’Esserci, se non ci si riferisce a un progetto, a ciò che getta continuamente in avanti. L’elaborazione del problema dell’essere incontrerà nuovamente questo peculiare fenomeno d’essere che ha luogo nel λόγος. In via preliminare basti avere mostrato, mediante la dimostrazione della derivazione dell’asserzione dall’interpretazione e dalla comprensione, che la “logica” del λόγος ha le sue radici nell’analitica esistenziale dell’Esserci. È quello che ha mostrato in precedenza, e cioè che la comprensione, l’apertura dell’orizzonte dell’Esserci, è ciò che consente l’interpretazione, quindi, l’asserzione. È questo che intende quando dice che la questione va affrontata in modo esistenziale, cosa che la logica non fa. La logica non si cura minimamente di intendere, mentre fa i suoi calcoli, in che modo ciascun elemento che interviene si situa rispetto al progetto, ma viene inteso come un elemento che è fuori, come se l’espressione di una semplice presenza. Quando la logica scrive “se a allora b”, tanto la “a”, quanto la “b”, quanto l’“allora”, vengono presi come semplici presenze. Alla logica non passa minimamente per la testa di domandarsi in che modo questa “a” si situa storicamente, da dove arriva, qual è la sua portata esistenziale, cioè, nella sua esistenza, cosa che non interessa alla logica, mentre per Heidegger, sì, anzi, sono fondamentali. Il chiarimento dell’insufficienza ontologica dell’interpretazione abituale del λόγος ci fa vedere meglio anche la non originarietà dei fondamenti metodologici su cui riposa l’ontologia antica. Il λόγος vi è assunto come semplice-presenza e interpretato come tale. Anche l’ente che esso manifesta ha il senso della semplice-presenza. A sua volta questo senso dell’essere non è distinto da altre possibilità dell’essere, sicché, ad esempio, si mescola ad esso anche l’essere nel senso formale dell’esser-qualcosa, senza addivenire neppure a una semplice differenziazione regionale tra i due. È l’obiezione che fa Heidegger alla logica, ma anche alla scienza, al discorso comune, metafisico, cioè, il fatto di considerare ciascuna volta le cose come enti, ma enti presi in quanto semplici presenze, non enti che hanno a che fare con l’esistenza, che hanno a che fare con l’Esserci, con l’uomo, quindi, con una storicità che li delinea per quello che sono. E qui ci sta dicendo che anche il λόγος è stato preso così, come un ente, come una cosa fra le tante cose. Poi dedica un paragrafo all’Esser-ci e il discorso. Il linguaggio. Pag. 197. Gli esistenziali fondamentali che costituiscono l’essere del Ci, l’apertura dell’essere-nel-mondo, sono la situazione emotiva e la comprensione. Secondo lui questi sono i due elementi fondamentali che costituiscono l’essere del Ci: la situazione emotiva e la comprensione. Perché insiste tanto su questi due elementi? Perché per lui sono inscindibili. La situazione emotiva è quella che ciascuno prova nel muoversi verso qualcosa, nell’andare verso qualche cosa, e l’andare verso qualche cosa è a sua volta preso nella comprensione: non vado da nessuna parte se non c’è un orizzonte che mi dice come stanno le cose, nel senso che mi dà la possibilità di cogliere gli enti. Ricordate la sua tesi fondamentale: c’è un orizzonte dell’essere, la comprensione, che è quella consente il venire alla luce degli enti, il loro manifestarsi. Ora, la situazione emotiva di cui parla è come dire che ciascuna volta mi rapporto a un ente all’interno di una situazione emotiva, che è quella cosa che Husserl, almeno inizialmente perché poi si ricrede anche lui, tentava di eliminare in modo da poter avere un approccio puro con l’ente, senza alcuna emotività giungesse a inficiare la relazione pura con l’ente. La comprensione cela in sé la possibilità dell’interpretazione, cioè dell’appropriazione del compreso. Per Heidegger interpretazione significa appropriarsi di ciò che è compreso, infatti, prima diceva, a proposito dell’asserzione: l’asserzione è una manifestazione che determina e comunica (pag. 192). Ma, intanto, soprattutto “determina”, poi, certo, “comunica”, nel senso che è per qualcuno, è sempre per qualcosa, ma determina e determinando questa determinazione è la condizione dell’appropriazione, se non determino non mi approprio di nulla, se tutto è indeterminato come faccio ad appropriarmi di alcunché? La chiarificazione del terzo significato dell’asserzione, la comunicazione (l’espressione), ci ha condotto ai concetti del dire e del parlare, rimasti finora volutamente inesplorati. Il fatto che il linguaggio sia messo a tema soltanto ora, sta a indicare che questo fenomeno ha le sue radici nella costituzione esistenziale dell’apertura dell’Esserci. Mettere a tema il linguaggio, a suo avviso, è possibile soltanto se si considera anche il linguaggio come un qualche cosa che procede, che ha come condizione l’apertura dell’Esserci. Il fondamento ontologico-esistenziale del linguaggio è il discorso. Qui occorre fermarsi un momento perché c’è un problema, che forse avrete già intravisto. Ovviamente, occorre intendersi su ciò che si dice quando si parla di linguaggio e di discorso, però, attenendoci a ciò che dice lui, è come se il discorso lo ponesse come l’apertura dell’essere, vale a dire, l’esserci già nel linguaggio, e si è già nel linguaggio perché si è da sempre in un discorso, il discorso dei genitori, il discorso degli antenati, ecc., si è comunque in questo discorso, che non si ferma, che procede. Quando ciascuno nasce nasce dentro un discorso. È questo che gli fa dire che il fondamento del linguaggio è il discorso. La sua posizione nei confronti del linguaggio è un po' fragile; in effetti, lui non si è ben reso conto che il linguaggio è quella struttura senza la quale nessun discorso è possibile. Considera il linguaggio, sembrerebbe, come un ente al pari di qualunque altro, cioè, è possibile parlare perché ciascuno è nato già all’interno di questo discorso, ma non si pone la questione di sapere a quali condizioni questo discorso può farsi. Per lui l’unica condizione è che ci sia questa apertura dell’essere. Chiaramente, se avesse inteso che l’apertura dell’essere è il linguaggio, tutto sarebbe stato più semplice e non avrebbe scritto Sein und Zeit. Nella nostra analisi della situazione emotiva, della comprensione, dell’interpretazione e dell’asserzione abbiamo già ripetutamente fatto appello a questo fenomeno, ma esso è sempre sfuggito in certo modo di soppiatto all’analisi tematica. Il fenomeno di cui lui parla è questo, cioè, come diceva prima, che il discorso è il fondamento del linguaggio. Il discorso è esistenzialmente cooriginario alla situazione emotiva e alla comprensione. Quindi, il discorso avviene nel momento in cui c’è una situazione emotiva e la comprensione. La situazione emotiva, come dicevamo prima, è il fatto che il mio approccio a qualunque cosa non è mai puro, c’è sempre di mezzo una situazione emotiva, che potrebbe essere determinata dal motivo per cui mi approccio a una certa cosa. Quindi, dicendo che il discorso è cooriginario alla situazione emotiva è come dire che questo discorso, in cui ciascuno già è da sempre, si origina insieme alla situazione emotiva. La situazione emotiva non può darsi se non all’interno di questo discorso in cui ciascuno già si trova, ed è questo discorso in cui ciascuno già si trova che fornisce le condizioni perché ci sia una situazione emotiva. Un discorso, in cui io mi trovo da sempre e che, come direbbe lui, mi parla, perché le parole che uso, che sto considerando, sono parole che vengono da una storia, che hanno una tradizione, un significato, tutte cose che in un certo senso io ho fatte mie ma per lo più a mia insaputa. Non ho deciso io il significato delle parole, non ho deciso io di parlare la lingua italiana né di venire al mondo, per così dire, mi ci sono trovato, cioè mi ci sono già trovato nel linguaggio. È per questo che sono parlato dal linguaggio: perché mi ci sono trovato da sempre, appena sono nato sono stato lì, nel linguaggio. A pag. 198. La comprensione emotivamente situata dell’essere-nel-mondo si esprime nel discorso. La totalità di significati della comprensibilità accede alla parola. Lui parla di totalità dei significati della comprensibilità che è qualche cosa che, a un certo punto, ha accesso alla parola come se questi significati precedessero la parola, non possiamo che intenderla così. Ma dal suo punto di vista è comprensibile perché questa articolazione di significati, di cui è fatto il discorso, in effetti, se lui pone il discorso come la condizione del linguaggio, è ovvio che anche questi significati precedono il linguaggio ma non il discorso, perché sono nel discorso. Dice che I significati sfociano in parole. Non accade, dunque, che parole-cose vengano fornite di significati. Dicendo che i significati sfociano in parole fa un discorso complesso, perché è come dire che questi significati sono già nel discorso, sono già in cui io mi trovo nascendo. Non ha torto, però, occorre tenere conto che la nozione di linguaggio è più radicale di quella che pone lui. Così come l’abbiamo posta, il linguaggio è la condizione perché ci sia qualunque discorso. Il discorso, in quanto costituzione esistenziale dell’apertura dell’Esserci, è costitutivo dell’esistenza dell’Esserci. Che è quanto abbiamo appena detto: il discorso è ciò che costituisce l’Esserci, questo Esserci è fatto di questo discorso, in cui nasce, e che a suo modo contribuisce a proseguire. Fanno parte del linguaggio discorrente come sue possibilità il sentire e il tacere. … Il discorso è l’articolazione “significante” della comprensibilità dell’essere-nel-mondo di cui fa parte il con-essere e che si mantiene sempre in una modalità determinata dell’essere-assieme prendente cura. (pagg. 198-199) Sta dicendo che il discorso è la comprensione significante, cioè, che fornisce i significati a questo essere-nel-mondo, nel quale mondo l’Esserci si mantiene sempre, come essere-assieme, come con-essere, in-essere, ecc. Quest’ultimo discorre nella forma dell’assenso e del dissenso, dell’invito e dell’avvertimento, della discussione, dell’abboccamento, dell’intercessione; anche quando “rende testimonianza” e “tiene discorsi”. Il discorso è sempre un discorso su… Il sopra-che-cosa del discorso non ha necessariamente, e per lo più non ha affatto, il carattere di tema di un’asserzione determinante. Anche un comando verte sopra… Lo stesso dicasi dell’augurio. … Ciò sopra cui nel discorso si discorre è sempre “preso di mira” sotto un determinato riguardo ed entro certi limiti. Ogni discorso comporta un ciò-che-il-discorso-dice come tale: ciò che, in ogni augurare, in ogni domandare, in ogni esprimersi costituisce il detto come tale. In esso il discorso si fa comunicante. Quindi, quand’è che il discorso si fa comunicante? Quando c’è un’intenzione di dire qualcosa su qualcosa, cioè, quando c’è una volontà di fare qualcosa. Questa volontà di fare qualcosa è ovviamente la volontà di potenza. Si comunica per volontà di potenza, si comunica perché con il discorso io posso modificare ciò intorno a cui il discorso dice delle cose. Dire che il discorso si fa comunicante andrebbe preso per bene, perché non è che prima c’è il discorso e poi questo discorso si fa comunicante: il discorso è comunicante, altrimenti non è discorso, non è niente. Il discorso è comunicante nel senso che non c’è discorso senza tonalità emotiva, non c’è discorso senza un’intenzione di dire qualche cosa su qualcosa, ma il dire qualcosa su qualche cosa è l’intenzione di afferrarla. Infatti, diceva propriamente, l’asserzione è una manifestazione che determina e comunica (pag. 192). Qualunque discorso è fatto di asserzioni, quindi, un discorso non fa altro che procedere determinando e comunicando. Perché comunica? Per volontà di potenza, cioè per modificare qualche cosa. Come fu indicato già nel corso dell’analisi dell’asserzione, il fenomeno della comunicazione deve essere inteso in un senso ontologico largo. Una “comunicazione” che asserisce qualcosa, ad esempio un “avviso”, è un caso particolare della comunicazione intesa in senso esistenziale fondamentale. Dicendo che a lui interessa il senso esistenziale fondamentale, dice che a lui interessa come la comunicazione si situa a livello dell’esistenziale, cioè, dell’Esserci. In quest’ultima si costituisce l’articolazione dell’essere-assieme comprendente. Quando voglio comunicare, che cosa si fa? Si costituisce l’articolazione dell’essere-assieme comprendente. Vedete come ritorna la questione della volontà di potenza continuamente, anche se non la cita mai, però, di fatto, che lui lo voglia o no, ne parla. La comunicazione non è mai un trasferimento di esperienze vissute, per esempio di opinioni o di desideri, dall’interno di un soggetto all’interno di un altro. La comunicazione non è semplicemente una trasmissione di informazioni. Il con-Esserci è già essenzialmente manifesto nella situazione emotiva comune e nella comprensione comune. Cioè, l’essere insieme con altri. Qualunque cosa io faccia, questo volere fare qualcosa ha a che fare con gli altri e ha a che fare con gli altri nel senso di volerli modificare. Nel discorso il con-essere viene partecipato “espressamente”; dunque esso è già, ma non è ancora partecipato perché non è ancora afferrato e appropriato. Tornano questi termini “afferrare” e “appropriare”. Come diceva dell’asserzione: determinare e comunicare. Ogni discorso sopra…, che comunica attraverso ciò-che-dice, ha anche il carattere dell’esprimersi. Parlando, l’Esserci si esprime; non perché sia dapprima incapsulato in un “dentro” contrapposto a un fuori, ma perché esso, in quanto essere-nel-mondo, comprendendo, è già “fuori”. (pagg. 199-200) Anche questa è una questione importante, perché lui ci sta dicendo che non c’è un dentro e un fuori. Quando io parlo a qualcuno non sono io che parlo a un qualche cosa che è fuori di me. Il mio mondo è fatto anche di quella persona con cui io sto parlando, io sono questo dialogo con quest’altra persona, io sono anche quella persona perché quella persona appartiene al mio mondo in questo momento. Ecco perché dice in quanto essere-nel-mondo, comprendendo, è già “fuori”, io sono già fuori. Quando parlo con qualcuno non sono un soggetto e l’altro l’oggetto cui mi rivolgo, entrambi facciamo parte del mondo in cui o mi trovo, del mondo che in questo istante mi costituisce per quello che sono in questo momento. Ciò che viene espresso è proprio l’esser-fuori, cioè il rispettivo modo della situazione emotiva (della tonalità emotiva) che, come abbiamo mostrato, investe in pieno l’apertura dell’in-essere. Che cosa si esprime quando si parla? Ciò che si esprime, ciò che appare quando si parla, è l’essere già fuori, è l’essere già nel mondo, è l’essere già nel progetto, è l’essere già gettato in avanti. L’indice linguistico della manifestazione della situazione emotiva dell’in-essere da parte del discorso è costituito dalla cadenza, dalla modulazione, dal “tempo” del discorso, dal “modo di parlare”.  Anche questo indice linguistico interviene rispetto a una situazione emotiva, perché è la situazione emotiva che determina il modo in cui parlo: se sono arrabbiato parlo in un certo modo, se sono calmo e rilassato questo indice linguistico è diverso. Tutto questo è un tentativo da parte sua di cogliere l’essenza del linguaggio. I tentativi di cogliere l’”essenza del linguaggio” si sono sempre orientati verso l’uno o l’altro di questi momenti, concependo il linguaggio in base all’idea o di “espressione” o di “forma simbolica” o di comunicazione in quanto asserzione o di “partecipazione” delle esperienze vissute o di “forma” della vita. Una definizione esauriente del linguaggio non potrebbe d’altronde essere raggiunta nemmeno riunendo sincretisticamente tutte queste determinazioni parziali. Decisiva rimane l’elaborazione preliminare della totalità ontologico-esistenziale della struttura del discorso sul fondamento dell’analitica esistenziale. Come abbiamo visto prima, questa è la sua posizione, e cioè che non si può intendere il linguaggio se non lo si intende come un qualche cosa che procede dal discorso in cui ciascuno è già da sempre. Solo che il linguaggio, come lo intende lui, sembra essere posto da lui come una manifestazione verbale, l’esternazione, l’espressione di una situazione emotiva all’interno del discorso. Il che è problematico, avrebbe forse dovuto occuparsi di più di linguistica. A pag. 201. Qui riflette sulla questione del sentire. Aveva detto precedentemente che due aspetti importanti del linguaggio sono il sentire e il tacere. Perché? Per una sua questione che è quella di prima, e cioè che il linguaggio appartiene al discorso. Infatti, dice Il sentire costituisce addirittura l’apertura primaria e autentica dell’Esserci al suo poter-essere più proprio, come ascolto della voce dell’amico che ogni Esserci porta con sé. Io non sento, come dirà dopo, dei rumori, sento la motocicletta che passa, non sento un rumore qualunque ma la voce di qualcuno che sta chiamando qualcun altro, ecc. Questi rumori non sono semplici presenze, sono sempre e comunque all’interno del discorso, all’interno di questa apertura per cui io non posso sentire un rumore se questo rumore non è il rumore della motocicletta, non è il canto del bambino, ecc., perché è così che sento queste cose, non come rumori. Il rumore di per sé non lo sentirei se non fosse di qualcosa che comprendo, se non fosse già inserito in un poter sentire. Per lui il poter sentire è questo: posso sentire se questo sentire è situato all’interno dell’orizzonte della comprensione che fa sì che una certa cosa sia compresa in quanto facente parte del mondo. Io sento un rumore ma lo sento perché è lo scoppiettio di una motocicletta, non un rumore astratto, isolato dal resto del mondo. Sul fondamento di questo poter-sentire essenzialmente primario è possibile qualcosa come l’ascoltare, che, da parte sua, è fenomenicamente più originario di ciò che la “psicologia” definisce “innanzi tutto” come “udito”, cioè la ricezione dei suoni e la percezione dei rumori. Anche l’ascoltare ha il modo di essere del sentire comprendente. Cioè, non sento se non comprendo. “Innanzi tutto” non sentiamo mai rumori e complessi di suoni, ma il carro che cigola, la motocicletta che assorda. Si sente la colonna in marcia, il vento del nord, il picchio che batte, il fuoco che crepita. È necessario un atteggiamento assai artificioso e complicato per “sentire” un “rumore puro”. Il fatto che udiamo innanzi tutto motociclette e carri attesta fenomenicamente che l’Esserci, in quanto essere-nel-mondo, si mantiene già sempre presso l’utilizzabile intramondano… Io non sento dei rumori ma comprendo il suono di un qualche cosa perché questo qualche cosa è un utilizzabile, è qualche cosa con cui ho a che fare nel mio mondo.

Intervento: Ha a che fare anche con il senso tutto ciò?

Certo. Infatti, per lui la significatività procede dalla comprensione, è la comprensione che fornisce la significatività, cioè, il significato delle cose. In quanto essenzialmente comprendente, l’Esserci è già, innanzi tutto, presso ciò che comprende. Questo, per Heidegger, significa essere nel discorso, essere, cioè, in ciò che comprende. È perché sono in ciò che comprende che comprendo. Tutto ciò è interessante perché, se badate bene, tutta la questione del soggetto, da Cartesio in poi, viene spazzata via: io non sono più quella cosa che determina che questo rumore è il rumore di una motocicletta, che determina quelle cose, che quindi ha il dominio degli oggetti, ma io comprendo delle cose perché queste cose appartengono già al mio mondo, io sono fatto di tutte queste cose, dalle quali non posso scindermi perché sono il mio mondo. Io mi trovo all’interno di questo mondo ed è questo mondo in cui mi trovo che determina a mia comprensione. E’ questo mondo stesso che è l’apertura della comprensione e, pertanto, comprendo all’interno di questo, non posso comprendere fuori da questo, non posso comprendere il rumore puro, perché non è niente. Anche quando stiamo esplicitamente a sentire il discorso dell’altro, comprendiamo innanzi tutto ciò che è detto o, meglio, siamo già anticipatamente con l’altro presso l’ente sul quale verte il discorso. Si chiede lui: com’è che ascoltiamo quando si chiacchiera con qualcuno, più o meno amabilmente? Mentre ascoltiamo, siamo non tanto a sentire le parole dell’altro ma è come se fossimo presso a ciò di cui l’altro sta parlando. Dice Heidegger, è come se ci mantenessimo vicini a ciò di cui si sta parlando. Innanzi tutto non sentiamo semplicemente il suono delle parole. Anche quando il discorso ci risulta non chiaro o ci è addirittura ignota una lingua, udiamo innanzi tutto parole incomprensibili e non una molteplicità di dati sonori. Sono parole incomprensibili ma sono parole. Incomprensibili, perché se qualcuno mi parla in finlandese non capisco nulla; tuttavia, ciò che dice per me sono parole, non sono dati sonori. A pag. 202. Solo se è data la possibilità esistenziale di discorrere e di sentire, uno può ascoltare. Cioè, solo se esiste il discorso, se esiste questa apertura che consente la comprensione. chi “non riesce a sentire” e “deve intuire” è forse ben in grado, proprio per questo, di ascoltare. È più in grado di ascoltare perché, non riuscendo a capire o a sentire propriamente, è come se dovesse fare appello al mondo in cui si trova in quel momento per dare una comprensione a ciò che sta ascoltando, cerca di intendere il contesto, ma per intendere il contesto deve comprendere ciò che sta accadendo in quel momento. Discorrere e sentire si fondano nella comprensione. Questa non scaturisce né dai molti discorsi né dall’affannarsi a sentire qui e là. Solo chi ha già capito può ascoltare. Che è la conclusione di tutto ciò che ci ha detto fino ad adesso. Solo chi ha già capito può ascoltare. Solo una persona che si rende conto che tutto ciò che può comprendere è già nel suo mondo, perché sennò non potrebbe comprenderlo, soltanto a questa condizione può ascoltare qualche cosa, cioè, può accogliere un qualche cosa che per lui abbia un senso. E ha un senso perché è costruito all’interno del suo mondo. Su questo stesso fondamento esistenziale riposa anche un’altra essenziale possibilità del discorso, il tacere. A pag. 203. Questo è importante. Poiché il discorso è costitutivo del Ci, cioè della situazione emotiva e della comprensione, e poiché l’Esserci significa essere-nel-mondo, l’Esserci, in quanto in-essere che discorre, ha già sempre espresso se stesso. L’Esserci che discorre, man a mano che discorre, non può fare altro che esprimere se stesso, cioè, esprimere il fatto di essere nel mondo, non può fare altro. Quando si parla si fa questo, per Heidegger: si esprime l’essere nel mondo, si esprime il con-essere. Poi aggiunge L’Esserci ha il linguaggio. Su questo ci sarebbe da discutere, sul fatto che l’Esserci abbia il linguaggio a disposizione, e cioè che l’Esserci e il linguaggio siano separabili. Questo è molto problematico in Heidegger perché, se così fosse, questo Esserci potrebbe essere fuori del linguaggio. Per lui, certo, rispetto all’equivoco del discorso, l’Esserci ha il linguaggio ma è da sempre nel discorso e in questo modo se la cava, perché non tiene conto che il discorso è fatto di linguaggio. È forse a caso che i greci, il cui esistere quotidiano si era prevalentemente costituito sotto forma di dialogo e che, nel medesimo tempo, “avevano occhi” per vedere, abbiamo definito l’essenza dell’uomo, tanto nell’interpretazione prefilosofica quanto nella filosofica, come Ϛψον λόγον έχον? Cioè, come animale provvisto di linguaggio. La successiva interpretazione di questa definizione dell’uomo come animal rationale non è certamente “falsa”; essa però nasconde il terreno fenomenico da cui questa definizione dell’Esserci è stata tratta. L’uomo si presenta come l’ente che parla. Ciò non significa che egli abbia la possibilità della comunicazione orale, ma che questo ente esiste nella maniera dello scoprimento del mondo e dell’Esserci stesso. Qui si avvicina alla questione del linguaggio senza porla direttamente. Dire che parla non significa che abbia la possibilità della comunicazione, per Heidegger non ha la possibilità, nasce già nel discorso, quindi, non è una possibilità ma è il modo in cui l’Esserci esiste. I greci non avevano un termine per dire linguaggio, perché intesero “innanzi tutto” questo fenomeno come discorso. Poiché tuttavia il λόγος si presentò alla riflessione filosofica prevalentemente come asserzione, la teorizzazione delle strutture fondamentali, delle forme e degli elementi del discorso ebbe luogo seguendo il filo conduttore di tale logos. La grammatica cerò il suo fondamento nella “logica” di questo logos. Ma a sua volta quest’ultima si fonda nell’ontologia della semplice-presenza. La grammatica, che cosa fa? Dice si fonda nell’ontologia della semplice-presenza, nel porre come esistenti semplicemente le cose che appaiono, esistenti di per sé. La struttura fondamentale delle “categorie del significato” passate nella linguistica successiva e ancor oggi sostanzialmente in vigore è desunta dal discorso inteso come asserzione. La logica, sì, fa questo, il discorso è un continuo asserire, però pone queste asserzioni come asserzioni intorno a qualcosa che è quello che è, fuori dal discorso, potremmo dire a questo punto. Se invece si assume il fenomeno nella sua originarietà fondamentale e nella sua portata esistenziale, diviene necessario reimpostare la linguistica su fondamenti ontologicamente più originari. Il compito di una liberazione della grammatica dalla logica richiede, in via preliminare, una comprensione positiva della struttura che fonda a priori il discorso in generale in quanto esistenziale;… Sta dicendo che liberare la grammatica dalla logica, cioè, liberare la grammatica da questa gabbia che la logica impone, per cui ciascun elemento della grammatica sarebbe quello che è per virtù propria, dice lui che comporta preliminarmente la comprensione di un discorso più generale, per cui occorre andare più a fondo. A pag. 204. L’indagine filosofica deve rinunciare alla “filosofia del linguaggio” e dedicare la sua attenzione alle “cose stesse”, portandosi sul piano di una problematica concettualmente chiara. Rinunciare alla filosofia del linguaggio, cioè, fare del linguaggio una filosofia, fare del linguaggio un qualche cosa che può essere posto come ente fra gli enti. Gli piace pensarla così. La filosofia del linguaggio pone il linguaggio, appunto, come l’oggetto di comprensione, come un oggetto metafisico e, quindi, cerca le sue proprietà, immagina, un po' aristotelicamente, che tutte queste proprietà che trova siano la cosa stessa. Heidegger, invece, ci sta dicendo che dobbiamo abbandonare la filosofia del linguaggio per dedicarci al linguaggio come fenomeno. Il linguaggio come fenomeno è il linguaggio che appare che si manifesta nel mondo che lo fa esistere. Per dirla con Heidegger, il compito della filosofia, rispetto al linguaggio, è considerarlo all’interno del discorso, cioè, tenere conto che il linguaggio è qualche cosa che sorge nel discorso e che, quindi, va preso come una manifestazione del discorso, un modo in cui il discorso si manifesta. Il fatto è che lui intende il discorso non come linguaggio, perché ciò che lui chiama discorso sarebbe il linguaggio più propriamente. Lui non intende che il linguaggio è una struttura che consente la costruzione di proposizioni, riconoscibili come tali, all’interno di una struttura, di un sistema. Non sapendo queste cose, è chiaro che per lui il linguaggio è quello che diceva prima, il logos, quindi, un modo della manifestazione del discorso. E, allora, quello che dice ha un senso, e cioè il fatto che la filosofia del linguaggio intende il linguaggio, questa manifestazione, come un oggetto da studiare. Lui dice no, comunque è un ente che si manifesta e che va compreso fenomenologicamente, cioè come qualcosa che compare all’interno del mondo. La questione del linguaggio in Heidegger è problematica perché non intende la questione fondamentale rispetto al linguaggio, che non è la manifestazione del discorso, un modo in cui il discorso si manifesta attraverso varie modalità, ma è quella struttura che consente di pensare, per esempio, che esista un discorso, di pensare che esista qualunque altra cosa. Senza questa struttura, che chiamiamo linguaggio, non c’è alcuna possibilità di accorgersi dell’Esserci. Questa operazione richiede una serie sterminata di altre operazioni che sono consentite dal linguaggio. È chiara qui la distanza tra la posizione che stiamo seguendo ormai da tempo, che è più vicina alla semiotica, da quella di Heidegger, che è prettamente filosofica, a lui interessa dare delle indicazioni per potere parlare, in modo più appropriato, dell’essere. Come abbiamo visto, non possiamo parlare dell’essere come di un qualche cosa che è la sostanza di un’altra cosa ma è il trovarsi continuamente gettati in un progetto. Per lui questa gettatezza è originaria, fondamentale, ma questa gettatezza lei stessa non sarebbe pensabile in assenza di linguaggio. La scolopendra non ha nessuna gettatezza… né può pensarla, non potendola pensare non c’è. Questo è il problema rispetto al linguaggio che si rileva in Heidegger, anche se si rende conto che il linguaggio è l’unico modo che è peculiare all’Esserci perché l’Esserci possa accorgersi delle cose e interrogarle, però, è come se rimanesse ancora in qualche modo quasi uno strumento dell’Esserci. Difatti, prima diceva che l’Esserci “ha” il linguaggio, come uno strumento, ed è l’unico ente che ha questo strumento che consente di fare una serie sterminata di cose. Rimane, però, questa distanza tra l’Esserci e il linguaggio che, inteso così, lo porta poco lontano. Lui pone, invece, l’accento sul discorso; insiste sulla questione del linguaggio ma sempre come qualche cosa che è peculiare dell’Esserci, dell’uomo, ciò che consente all’uomo di potere relazionarsi con il mondo, di accorgersi di essere nel mondo, parlare con gli altri, ecc. Manca, però, la questione fondamentale: il linguaggio non è solo queste cose, è anche queste cose, ma è soprattutto la condizione per potere pensare di fare queste cose.

Intervento: è come se Heidegger ponesse le semplici presenze fuori dal linguaggio…

Lui non dice mai che le semplici presenze sono furi dal linguaggio, dice fuori del mondo. Noi possiamo dire che pone la manifestazione della semplice presenza come un qualche cosa che è fuori da linguaggio, cosa che lui non dice mai, non poteva neanche pensarla. Per lui la semplice presenza è qualche cosa che non procede dall’Esserci ma vive per conto suo, esiste fuori del mondo, cioè non fa parte del mio mondo. Tutte queste cose le riprende, rielaborandole, da Husserl, soprattutto dal concetto di Husserl di Lebenswelt, cioè del mondo della vita, tutte le cose sono quelle che sono perché sono prese nel mondo della vita. Husserl si esprimeva così, Heidegger era un pochino più raffinato, le cose sono quelle che sono perché sono nel mondo in cui io mi trovo, e non posso immaginare né pensare alcunché che sia fuori del mio mondo, non c’è un dentro e un fuori, e su questo Heidegger è molto preciso. Io sono già fuori, perché io sono già il mondo che mi circonda, non c’è un dentro, non c’è niente dentro, io sono il fuori, fuori nel senso che io sono nel mondo.