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7 maggio 1998

 

L’angoscia in genere è considerata un disturbo se non addirittura una malattia insieme all’anoressia e allora a scopo puramente dimostrativo ho deciso di proporre come tema generale delle conferenze, di indicarle come figure retoriche in modo da suggerire già di primo acchito un approccio differente a questi aspetti. Che siano figure retoriche sì, certo, tu giustamente ti chiedi a che scopo definirle in questo modo, l’unico scopo è che il più delle volte non sono definite così ma come delle malattie, dei disturbi psichici o in qualunque altro modo. Essendo una figura retorica non ha una cura ovviamente, una figura retorica non è curabile, non c’è un’aspirina, a meno che non consideriamo anche la struttura, per esempio il discorso religioso, alla stregua di una malattia, potremmo anche farlo però in questo caso, non andremmo da nessuna parte....

Intervento:…

Sì, tenere conto che sia l’ansia, l’angoscia, qualunque cosa, ma il fatto che questa persona avverte o comunque ti racconta che avverte una serie di cose che lui definisce problemi, cioè nell’ambito del suo discorso, nell’economia del suo discorso, questi elementi hanno una posizione particolare, lo interrogano in un certo modo e di questo sicuramente occorre tenere conto, poi che lo chiami angoscia o qualunque altra cosa, questo non ha importanza. Non è che dici “questo è angoscia quindi faccio in questo modo”, no, ascolti quello che lui dice in relazione a quello che lui chiama angoscia, così come qualunque altra cosa, senza nessuna differenza. Avere o possedere degli strumenti per individuare una certa condotta e chiamarla in un certo modo non offre nessun vantaggio rispetto all’itinerario analitico, assolutamente nessuno, si potrebbe anche ignorare l’esistenza dell’angoscia, però sai che questa persona dice di avere delle sensazioni che lui chiama angoscia e che sono sgradevoli, che sono fatte in un certo modo, questo sai e nient’altro. Da qui ecco la questione etica ovviamente connessa con la psicanalisi, dal momento che tutto ciò che una persona dice, racconta, descrive qualcosa che per lui ciò che dice è male e del quale in linea di massima intenderebbe sbarazzarsi. Ora, abbiamo indicato che ciò a cui tendono gli umani è il bene o, più propriamente, chiamiamo bene ciò a cui gli umani tendono; d’altra parte sappiamo anche che nessuno costringe la tale persona a provare certe sensazioni, sappiamo che tali sensazioni che lui dice di provare sono prodotte dal suo discorso, come dire che il suo discorso va in quella direzione, dunque saremmo indotti a considerare che quello è il suo bene contrariamente a ciò che lui afferma. Ma a questo punto ci troviamo di fronte alla considerazione che non è marginale e che prendiamo alla lettera, e cioè che se il suo discorso va in quella direzione quello è bene, lui dice che sta malissimo; quello è bene ma non nel senso che lui sbaglia, cioè considera male ciò che è bene, no, ma nel senso che il suo discorso va anche in quella direzione e andando in quella direzione produce tutti gli effetti che produce. Ciò di cui non possiamo non tenere conto è che il suo discorso fa due operazioni: l’una, costruire qualcosa che lui chiama angoscia o ansia o quello che gli pare, l’altra che produce un discorso che dice che ciò che ha prodotto non lo vuole. Questo sappiamo e  nient’altro che questo, Posta in questi termini è ben bizzarra questione, in definitiva abbiamo di fronte due proposizioni, come dire un discorso che produce due proposizioni, di cui l’una nega l’altra; apparentemente può sembrare una bizzarria ma di fatto è una cosa piuttosto normale, sono soltanto due proposizioni, né più né meno, noi sappiamo soltanto che dice di volersi sbarazzare di qualcosa che chiama angoscia, non sappiamo esattamente di cosa stia parlando né tutto sommato è importante, sappiamo solo quello che dice e sappiamo anche che tutto ciò è prodotto dal suo discorso, come se fossero due proposizioni una che afferma che questo aggeggio è nero e l’altra che afferma che è bianco. Ma se il suo discorso produce entrambe queste proposizioni, l’unica differenza fra le due costruzioni del suo discorso è che dell’una, per dirla così, ne accoglie la responsabilità, dell’altra no, come dire che della produzione di questa angoscia non accoglie la responsabilità, cioè non può affermare “sì, sono io che me la produco, a mio uso e consumo”. E allora potremmo domandarci eventualmente perché, cosa impedisce di accogliere la responsabilità di questa proposizione che afferma che ha l’angoscia? Da qualche parte avevo accennato alla questione, e in effetti...in quel caso era il dispiacere, ma potrebbe andare bene anche per l’angoscia, e cioè che se io accolgo il dispiacere come piacere cessa di essere dispiacere, cioè non posso più, per una questione grammaticale chiamarlo dispiacere, cosa che non va senza qualche intoppo, e l'intoppo consiste nel fatto che chiamandolo dispiacere ho una serie di vantaggi, di vario genere. Provare l’angoscia, per esempio, può avere il vantaggio di produrre la sofferenza e quindi, adesso dico così la prima cosa che mi viene in mente, produrre l’interesse altrui, può ancora dare un senso all’esistenza, può ancora consentirmi di avvertire delle sensazioni forti, come se mi trovassi di fronte al nulla, marasma generale, uno di fronte alla fine del mondo sicuramente proverebbe qualche sensazione, insomma ci sono dei vantaggi, per questo non può in nessun modo chiamare piacere ciò che chiama dispiacere, perché tutti questi vantaggi cesserebbero, cioè sarebbe un’altra cosa. La volta scorsa dell’etica dicevamo che non è altro che il tendere o, più propriamente, non poter accogliere il fatto che non c’è uscita dal linguaggio; accogliendo una cosa del genere supponiamo che io affermi di provare l’angoscia, posso affermarlo, nessuno me lo impedisce, affermando questo, cioè accogliendo che non c’è uscita dal linguaggio, accolgo anche che è un atto linguistico, inesorabilmente, e quindi non qualche cosa che accade, che mi accade così fra capo e collo e di cui non sono responsabile. Essendo un atto linguistico è un atto linguistico che riguarda il mio discorso, è cioè una sua produzione e pertanto non posso non considerare che io l’ho prodotto e che se l’ho fatto ho un buon motivo, sappiamo che ciascuno è mosso da qualche cosa, che abbiamo chiamato bene, dunque soffro per il mio bene, né più né meno. Ecco che l’etica impone questa considerazione, parlando dell’etica poniamo l’accento sulla responsabilità, che attiene a ciascuno rispetto a ciascun atto linguistico che il suo discorso produce, e considerare che ciascuno è mosso da qualcosa ha una portata direi “universale” e non soggettiva. Se fosse soggettiva, allora diremmo che anziché utilizzare un quantificatore universale utilizzeremo invece un quantificatore esistenziale, però in questo caso negheremmo che per ciascuno interviene qualcosa che lo muove, almeno per uno non ci sarebbe nulla che lo muove, abbiamo detto che ciò che muove è il linguaggio dunque dovremmo considerare che vi è almeno uno che è fuori dal linguaggio e questo non lo possiamo fare, come abbiamo enunciato in varie circostanze, dunque non ci resta che affermare  inesorabilmente che per ciascuno che si trovi nel linguaggio si impone il tendere verso qualcosa. Sappiamo che nessuno è fuori dal linguaggio e ciascuno è mosso verso qualcosa, quindi non è una questione soggettiva che riguarda il singolo e che può non riguardare altri. Per questo dicevo che l’etica posta in questi termini non è propriamente una questione soggettiva, e soggettivo poi cioè che riguarda ciascuno nella sua struttura non il fatto di tendere a qualche cosa ma la configurazione, potremmo dire così, la forma che prende questo tendere a qualcosa, allora sì, certo, c’è chi tende alla beatitudine e chi tende alla turpitudine, entrambi però tendono a qualcosa, questo qualcosa è il bene, per definizione...

Intervento: Il tendere a  quel qualcosa è soggettivo, il fine…

È questo che stiamo dicendo,  ma non può non farlo...(....) Sì, si ascolta molto spesso che si parla di etiche differenti, però in questo caso l’accezione di etica è differente da quella che abbiamo proposta. Se parliamo di etiche differenti è come dire che muoviamo dall’idea che esista un’etica generale, universale, poi stabilito questo allora nel particolare ciascuno si fa una etica, sempre tenendo conto comunque dell’idea generale di etica, perché altrimenti non potremmo parlare di etiche differenti, non potremmo usare definizioni, che in alcuni casi sono diametralmente opposte per indicare la stessa cosa, avremmo una contraddizione terribile, cioè l’etica è per esempio A ma è anche non-A e questo ci comporterebbe problemi insormontabili. E allora ecco che si particolarizza cioè a partire dall’idea generale si dice: l’etica è questo… Però, poi la utilizziamo in questo modo, come il bene per esempio, è sempre la stessa cosa, ciascuno ha un’idea di bene, il fatto che poi per ciascuno possa essere differente la configurazione, la forma di questo bene, questo non toglie nulla al fatto che per ciascuno esista un’idea di bene, per me il bene potrebbe essere la beatitudine per lei invece l’assassinio, però entrambi abbiamo un’idea di bene, che poi assuma una forma diversa, ma l’idea di bene c’è comunque ed è ciò a cui ciascuno tende inesorabilmente. Diciamo questo perché se poniamo un’etica soggettiva come lei proponeva ciascuna di queste etiche è assolutamente discutibile, ovviamente mentre invece stavamo cercando e abbiamo trovato una nozione di etica che non sia discutibile, nel senso che non sia negabile più propriamente, perché nei termini che lei indicava la questione può raffigurarsi in questo modo, cioè a me piace che l’etica sia questo. Va bene, però è una decisione che io prendo ma dicendo o affermando, per esempio, “a me piace che l’etica sia questo” mi riferisco pure a qualche cosa parlando di etica, parlo di qualche cosa o parlo di niente? E di che cosa esattamente? Di qualche cosa che trascende il mio gusto particolare, la mia decisione del momento, occorre che abbia questa idea, che funzioni in qualche modo...

Intervento: Chiamare etica il tendere non è un po’ riduttivo? Chiamare etica il tendere verso ... non è un modo di evitarlo anziché affrontarlo il problema?

Ho inteso quello che dici. Dunque, c’è qualcosa che etica non può non essere per poter ancora utilizzare questo significante, qualcosa che dobbiamo necessariamente accogliere muovendo anche dal luogo comune, perché no? In effetti, la volta scorsa abbiamo preso le mosse in definitiva da ciò che già Aristotele poneva, e cioè che gli umani tendono al bene, qualunque cosa sia questo bene non ha importanza. Però, abbiamo aggiunto un elemento e ci siamo chiesti se possono non farlo e se no per quale motivo? Poi, ci siamo posti un’interrogazione intorno a che cosa può intendersi a questo punto con bene visto che in effetti poi ciascuno ci mette del suo, cioè: è possibile reperire un qualche cosa di cui non si possa non dire? E allora abbiamo detto che cos’è in definitiva questo tendere se non il muoversi del discorso in una certa direzione, questa come definizione più ampia possibile come generalmente facciamo, e quindi abbiamo concluso che il tendere di ciascuno verso qualcosa non è altro che il tendere del suo discorso verso qualche cosa. Rovesciando la questione non abbiamo detto che ciascuno tende al bene ma che chiamiamo bene ciò a cui ciascuno tende, qualunque cosa sia. Ora, però si pone un problema che giustamente Roberto ha rilevato, cioè tutto ciò che è stata considerata la questione etica da 3000 anni a questa parte viene eliminata, solo apparentemente però perché, ponendo la questione in questi termini, tutto ciò che è stato considerato etico diventa estetico... (sì, però chiamarlo etico... ) Ma potrebbe non esserlo, potrebbe non esserlo se consideri che generalmente con questo significante “etica” viene anche indicato ciò che necessariamente è bene, ciò che è da seguire, ciò che deve essere seguito. Ecco, porre una variante e cioè non più ciò che deve essere seguito ma ciò che non può non essere seguito. Questo inserisce un elemento nuovo e allora l’etica non è più ciò che io debbo fare, per una qualunque cosa, per essere questo o quest’altro, ma ciò che non posso non fare dal momento che parlo. E allora, ecco, che parlare di etica è come dire una sottolineatura di responsabilità in cui ciascuno si trova parlando....

Intervento: Io parlerei di una valenza etica di una regola logica...

Poni ancora però l’etica, come diceva Cesare, in un modo soggettivo e mi sono chiesto se è possibile parlarne in modo non soggettivo. Ma nei termini in cui necessariamente una cosa del genere non possa non essere accolta, l’etica è il tendere verso il bene? Sì. Bene, da qui abbiamo fatto una serie di considerazioni che ho appena ripetuto e allora volgere come dicevo prima  “il ciò che debbo fare”  in “ciò che non posso non fare”. Questo è in effetti è l’apporto che stiamo iniziando a fornire, che può apparire una costrizione ma non più di come appaia una costrizione il fatto che ciascuno sia nel linguaggio; a questo punto parlare di costrizione diventa un non senso. Cercare dunque di compiere questa operazione di cercare un modo di definire l’etica che non dipenda dal soggetto, ma dipenda appunto da un gusto estetico. Se l’etica, così come è comunemente intesa, dice che io debbo fare una certa cosa, il fatto che la debba fare non è provato, né è sicuro, né è stabilito in nessun modo certo, inequivocabile e innegabile, dunque è un ghiribizzo, un arbitrio, che poi abbia tutti i suoi motivi questo per il momento non ci interessa nulla, rimane che è una mia decisione, come dire: a me piace così. Ecco perché parlo di questione estetica, così come abbiamo avvertito che la quasi totalità di ciò che viene comunemente enunciato sotto le apparenze di logica di fatto non è altro che retorica. Allo stesso modo pare che tutto ciò che generalmente si dica intorno all’etica costituisca invece una questione estetica, questione tutt’altro che marginale, cioè non è “che deve essere così” ma “a me piace che sia così”, cambia parecchio. L’utilità di giungere a una considerazione in modo tale da rendere l’etica qualcosa di necessario consiste nel potere utilizzare un significante come “etica” in modo tale che questo significante rilasci qualche cosa che mi serva per esempio in una elaborazione teorica, così come quella che andiamo facendo, perché in un altro modo, così come è posta generalmente, non ha nessun utilizzo, non ha nessun valore assoluto, in nessun modo. In altri termini ancora, ciò che stiamo facendo è ciò che la metafisica ha sempre cercato di trovare. Tempo fa abbiamo parlato di motore immoto, abbiamo detto l’essenziale di tutto ciò che andiamo dicendo e cioè trovare quel elemento che sia assolutamente certo sicuro, in altri termini non negabile. Tutto ciò che non è negabile è ciò che procede in effetti da considerazioni da cui abbiamo preso le mosse e cioè che non c’è uscita dal linguaggio ovviamente, poi di lì si tratta di produrre altre proposizioni che per via deduttiva mantengano questa stessa non negabilità dal momento che in questo gioco particolare che stiamo creando ci servono soltanto questo tipo di proposizioni, le altre, rispetto a questo gioco, non hanno nessun utilizzo e allora o l’etica è così come l’abbiamo definita o è niente. Niente in una certa accezione, cioè se deve porsi come valore assoluto e posta nei termini in cui è posta generalmente è nulla, poi ovviamente ha una funzione anche nei termini così come generalmente è posta, una funzione estetica, e potere considerare, tenere conto di questo aspetto, cambia le cose di molto, cioè costringe ad accogliere quella responsabilità rispetto all’atto linguistico prodotto dal proprio discorso che costituisce uno degli aspetti fondamentali di ciò che andiamo dicendo, anche per quanto riguarda poi l’aspetto analitico che a questo punto è sempre meno distinguibile con queste considerazioni...

Intervento: Per Aristotele il senso etico era poi pratico, un etica formale non mi sembra un etica, mi sembra gratuita...

Posso risponderti in due modi, uno prettamente logico, l’altro pragmatico. Consideriamo l’aspetto logico, ciascun elemento che interviene nel linguaggio ha un utilizzo, come abbiamo detto in varie circostanze; ora, l’utilizzo di questo significante “etica” può considerarsi da una parte o semplicemente una regola in ciascun caso del gioco, allora l’etica è esattamente quello che io voglio che sia di volta in volta, per cui è etico sgozzare i bambini appena nati, oppure è etico aiutare le persone, a seconda di come mi sveglio la mattina, oppure… per indicare se questo termine è possibile considerarlo non soltanto come regola del gioco ma come procedura linguistica. Qual è l’utilità di questa operazione? Che possiamo mostrare di un significante, per esempio “etica”, ciò che in nessun modo può non essere. Questo può avere, per prima cosa, un forte potere persuasivo, secondo, può costringerci a riflettere sul fatto che in ciascun caso esistono delle procedure linguistiche di cui il linguaggio è fatto e di cui non è possibile non tenere conto. Dice “a questo punto potremmo non chiamarla etica”, no, perché questa procedura è fatta esattamente della stessa cosa di cui è fatto ciò che comunemente si chiama etica e cioè tendere al bene, visto che esiste questo significante l’abbiamo utilizzato e portato alle estreme conseguenze.

Intervento: L’utilizzo del significante all’interno del linguaggio è a fine pratico, pragmatico, quando si parla di etica se ne parla a fini pratici…

Ed è per questo che noi ci siamo soffermati sull’etica se no l’avremmo lasciata al suo destino; è proprio per questo, perché ha una valenza pratica, pragmatica fortissima, anzi, come tu dici giustamente, è questa la sua natura, perché se abbiamo detto ciascuno tende a qualcosa, e questo qualcosa lo chiamiamo bene, allora questo tendere è sì il tendere del discorso ma il discorso non è fatto soltanto di ciò che si dice, perché ciò che si fa non è fuori dal linguaggio e se io non posso non considerare che il bene a cui tendo non è altro che il proseguimento del discorso e che non posso, non può esserne stabilito nessun altro in nessun modo, stabilito in modo innegabile, ecco che la mia condotta, ciò che faccio, quindi ciò che penso, ciò che dico, il modo in cui mi muovo, muta, non è la stessa cosa, intendo dire che mi comporterò in un altro modo. Se io non posso non assumermi la responsabilità di ciò che dico e considerare quindi ciò che dico come un atto linguistico, anziché come un segno del destino o una necessità esterna, cambia, cambia tutto. Come dire che per esempio in un itinerario analitico, o meglio un itinerario analitico ha un forte aspetto pragmatico, se io cambio il modo di pensare, ad esempio, cambia anche necessariamente di conseguenza il mio modo di agire, se io penso differentemente agirò anche differentemente, dal momento che ciò che faccio non è altro che, adesso la diciamo così in modo un po’ rozzo e molto provvisorio, la manifestazione di ciò che penso, in molti casi di ciò che credo. Se sono un integralista islamico e credo fermamente in questo la mia condotta seguirà una certa direzione, se io cesso di credere questa cosa, anche la mia condotta muterà. Ecco perché porre l’etica nei termini in cui l’abbiamo posta ha una fortissima valenza pragmatica, perché impedisce, per così dire, di muoversi a partire da una serie di considerazioni che non possono più essere credute, non possono più essere o costituire il supporto dell’azione e se lo fanno lo fanno in modo tale che non posso non saperlo, non posso non sapere che sto facendo quella certa cosa.

Intervento:…

No relativista, è assoluta, se ci pensi bene l’etica in questa accezione è ciò che non può non essere accolto. (...) sì e no, vedi perché se tu non puoi più credere una certa cosa, non puoi più farla allo stesso modo, se per te per esempio, l’etica è ciò a cui non puoi non tendere, cioè il fatto che il tuo discorso prosegua in una certa direzione. Qui, certo, si apre un discorso che è molto lungo e che faremo, però sarà molto difficile che tu ti trovi a relativizzare nel senso di dire che posso fare questo o quello, non potrai non tenere conto di una quantità enorme di elementi e la più parte delle cose cesserà di avere qualunque interesse. Su questo però occorre lavorare ancora molto, perché non è di fatto un aspetto così relativistico, anzi poi diventa fortemente limitante, tanto più limitante quanto più si persegue in questa direzione, limitante in una accezione particolare, nel senso che sempre meno cose interessano ma quelle meno interessano sempre di più, adesso per dirla così in un modo molto rozzo, per cui non è che accada che puoi fare qualunque cosa, puoi anche dire che potresti farla ma non ha più nessun senso. Di fatto altera moltissimo, modifica moltissimo la tua condotta, il tuo interesse, tutto ciò che ti muove. Tra l’altro volevo riprendere Aristotele laddove parla di ricerca teoretica, perché probabilmente proprio lì che va a parare tutta la questione; si tratterà poi di precisare in termini molto più rigorosi tutto quanto ma c’è l’eventualità che l’etica, il fine dell’etica così come già Aristotele in qualche modo aveva intravisto sia esattamente questo, sia la ricerca teorica, la teoresi.

Intervento:…

Il fatto che non si possano non fare non toglie che si facciano infinite altre cose (...) Sì, forse sarà qui la questione più interessante, forse però non potremo comunque non tenere conto dell’etica, forse però è ancora tutta una cosa da elaborare e questo ci impegnerà non poco nei prossimi vent’anni...

Intervento:…

Come vedete, le cose che interrogano e ancora da elaborare sono molte e degne, nobili di essere perseguite. Ché poi non è ciò che sto dicendo adesso che è ciò cui tende il discorso, ancora da verificare, non è molto lontano da ciò che si considera rispetto anche a una psicanalisi, dicendo che occorre che un analisi per esempio conduca all’analista, divenire analisti, cioè che questo si ponga come irrinunciabile. Detta così può risultare un po’ bizzarra però forse c’è qualcosa di prossimo in questa nozione. Uno volta si diceva questa formula divenire analista del proprio discorso, come se l’itinerario analitico conducesse quasi necessariamente inesorabilmente a questo.