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7 aprile 2021

 

I concetti fondamentali della filosofia antica di M. Heidegger

 

Siamo a pag. 183, punto b), dove Heidegger parla del mito della caverna di Platone. È un mito importante perché ha contribuito fortemente alla nascita della metafisica. La caverna è l’immagine del nostro essere nell’ambito spaziale. La luce all’interno della caverna. Al suo esterno si trovano il sole e l’ente da esso illuminato, condizionato e stimolato nella sua crescita, l’essere autentico: immagine del mondo delle idee, in cui il sole rappresenta l’idea suprema. Questo in Platone. Il sole è la metafora dell’idea suprema, cioè dell’illuminazione, del sapere sulle cose. Ciò che nel paragone rappresenta l’elemento supremo, il mondo delle idee, fuori di esso è in realtà l’ambiente spaziale: è quest’ultimo a venire simboleggiato dalla caverna. L’ambiente spaziale, illuminato dal sole, svolge quindi una doppia funzione: 1) come simbolo: il mondo superiore; 2) come mondo reale: mondo inferiore. È anche questa una metafora della teoria delle idee di Platone: il sole rappresenta l’idea assoluta, quindi, la vera realtà delle cose, mentre l’immanente, ciò con cui gli umani hanno a che fare, è rappresentato da ciò che accade e che c’è nella caverna. In quanto essente, ovvero come ciò che si mostra di volta in volta per primo. Esso è assunto e accettato in quanto essente: δόξᾰ δέχεσθαι (senza verifica). Nella misura in cui un esserci è, esso ha una δρα, una “sede” e un luogo, quindi un ambiente. Per quanto poco quest’ultimo sia accessibile, con l’esserci è già scoperto un ambiente. Questo è interessante perché ci sta dicendo che con l’esserci è già scoperto l’ambiente, che il parlante, proprio in quanto parlante, è già in un ambiente, ha creato un ambiente, è quello che il “ciò che lui dice” costruisce. Ciò implica una luce, un rischiaramento, in modo tale che almeno qualcosa possa essere scorto, sia pure soltanto ombre nella semioscurità dell’essere. In altri termini, affinché l’ente sia esperibile è già sempre necessario un rischiaramento dell’essere. Qui c’è la teoria di Heidegger: occorre che ci sia l’essere perché possa darsi l’ente; l’essere è quel rischiaramento che consente all’essere di apparire, di mostrarsi. Comprensione dell’essere. La luce deve illuminare, anche se non è necessario che sia già veduta, né che per questo si sappia che esista. Gli uomini incatenati non sanno nulla della luce né possono mai saperne nulla. La luce c’è, l’esserci vive nella comprensione dell’essere senza saperne nulla. Questa è di nuovo la posizione di Heidegger. È chiaro che l’esserci vive nella luce, nell’essere, perché se così non fosse non ci sarebbero neppure gli enti, però non lo sa, quindi, vive negli enti immaginando che questi enti siano l’essere. Ecco la necessità di una differenza ontologica, stabilita da Heidegger. Qui, però, c’è un altro aspetto importante che merita di essere considerato. Il mito della caverna non si pone soltanto in modo ontologico ma anche in modo ideologico, cioè, costruisce una ideologia. In effetti, è questa ideologia quella che a noi forse interessa di più, proprio perché in quanto ideologia ci mostra in atto la volontà di potenza. L’ideologia è l’imposizione di un’idea, di un pensiero, che è ritenuto essere vero in quanto illuminato. L’idea, riprendendo il mito della caverna, che ci sia qualcuno che dalla caverna risalga in superficie, vede il sole - vede come stanno veramente le cose, che sono illuminate dal sole, quindi, dalla verità - e che poi ritorni indietro per mostrare a coloro rimasti nella caverna qual è la verità, cioè come stanno veramente le cose. Ecco, questa è la ideologia metafisica, vale a dire, l‘idea che qualcuno, che possiede o ritiene di possedere la verità, cioè l’illuminazione, abbia il diritto o addirittura, almeno in Platone in parte è così, il dovere di mostrare la verità a coloro che non sanno. È ovvio che nulla garantisce che la verità di cui parla il tizio uscito dalla caverna e che vuole, attraverso questa verità, ideologizzare quelli che sono all’interno della caverna, sia più vera di quella di coloro che sono rimasti dentro. In base a quale criterio potrà stabilire che le cose che stanno fuori, illuminate dal sole, sono più vere di quelle illuminate dalla fiaccola all’interno della caverna? Questa è l’ideologia, cioè il muovere dall’idea, dalla certezza che le cose illuminate dal sole, poste sotto la luce della verità, valgano di più di quelle che invece continuano a vedere coloro che sono dentro la caverna. Come dicevo, questo autorizza colui che conosce o suppone di conoscere la verità a intervenire su chi a suo parere, invece, non la conosce. Questo sentirsi autorizzati viene dall’idea di possedere la verità, l’unica verità. Ovviamente, in Platone questa verità è il mondo delle idee, o l’essere, così come anche per Heidegger, in fondo. Però, l’aspetto ideologico è che questa verità, questo essere, questo sole, questa luce, vengono utilizzati per imporre su altri il proprio sapere, la propria volontà, il proprio dominio. Questo è l’aspetto ideologico del mito della caverna di Platone e da qui è sorto il pensiero che chi detiene la verità abbia più valore di chi la ignora e sia tenuto a mostrare ad altri questa verità. Ora, è difficile pensare che Platone abbia inventato ex novo tutto questo. Sicuramente, c’è già nei presocratici i prodromi di un pensiero del genere, sicuramente li troveremo, ma ciò che a noi interessa è questa lettura ideologica del mito della caverna, cioè, il momento in cui il pensiero ha incominciato a costruire questa favola, questa narrazione, questa storia, per cui chi conosce la verità ha il dovere di imporla agli altri. Questa è, potremmo dire, la questione centrale del mito della caverna. A pag. 185. …conformemente alla comprensione dell’essere (indistinta, oscura) ancora predominante e proveniente dai gradi precedenti, egli finirà per ritenere non essente l’ente che ora gli viene incontro, le cose stesse, appunto perché non sono qualcosa di indistinto. Qui si riferisce a coloro che stanno dentro la caverna. Dice una cosa che merita di essere presa in considerazione. Dice che questo tizio non riconosce le cose che gli vengono incontro perché non sono qualcosa di indistinto. Come dire che ciò che si riconosce è ciò che non è precisato, ciò che non è distinto, ciò che non è interrogato. Questo si riallaccia alla questione dell’ideologia di cui dicevo prima, perché in questa ideologia, proposta e avanzata, direi quasi istituita dal mito della caverna, c’è questo altro aspetto importante, e cioè che si riconosce, in effetti, soltanto ciò che è indistinto. Questo indistinto non ha nulla a che fare con l’indeterminato, con l’infinito, di cui parla Anassimandro, ma è l’ignorato, il non conosciuto. Se anziché vivere nell’indistinto, nell’ignoranza, nella chiacchiera, direbbe Heidegger, si incomincia a interrogare, a problematizzare, a mettere a tema ciò che appare ovvio e scontato, allora accade questo fenomeno per cui non si riconoscono più le cose. Non si riconoscono più perché incominciano a determinarsi, cioè, a mostrarsi altrimenti da come si pensava o, più propriamente, da come “non” si pensava che fossero. La ricerca della determinazione di qualche cosa è un modo per allontanarsi dalla chiacchiera e avanzare verso un sapere autentico, un sapere autentico nel senso che pone a tema, problematizza e pensa ciò che effettivamente è da pensare. Certo, le cose sono indeterminate, di fatto appaiono così, ma questa indeterminatezza giunge a un’autentica indeterminatezza, qui proprio nel senso di Anassimandro, nel momento in cui si interrogano, cioè, per dirla alla Gentile, quando dall’astratto dell’astratto si passa al concreto, quando ci si accorge che questa astrazione vive, di fatto, nel e dell’essere nel concreto. È il concreto l’indeterminato, l’πείρων, che impedisce ogni possibile determinazione. Ma qui nel mito della caverna questa indeterminazione è posta come principio, come ciò che consente di riconoscere: io riconosco qualcosa solo se è indeterminato, solo se lo ignoro lo riconosco. A pag. 188. La comprensione dell’essere avviene originariamente nella visione dell’idea così concepita. Qui sta la verità fondamentale stessa, che rende possibili tutte le verità. … L’essere è oltre ogni ente. In seguito Platone ha colto questa differenza in modo ancora più preciso, anche se non l‘ha sviluppata in termini esaustivi. La questione, qui, è la seguente: non bisogna domandare di che cosa consiste e come nasca l’ente, bensì che cosa significhi “essere”, che cosa intendiamo in genere con “essere”. Ciò di cui qui si tratta è oscuro. La domanda sull’essere trascende se stessa. Il problema ontologico muta improvvisamente! Diviene metontologico: θεολογική; l’ente nel suo insieme. Θεολογική, teologia, nel senso di Aristotele, cioè, come la riflessione sui principi primi. Ιδέα άγαθού (idea del bene): ciò che in assoluto va preferito a tutto, il sommamente pre-feribile. L’essere in generale, e “ciò che va preferito”. Essendo quest’ultimo ciò che è ancora al di là dell’ente, e che appartiene alla trascendenza dell’essere, è ciò che determina in senso essenziale l’idea dell’essere! È la possibilità più originaria! È ciò che rende possibile originariamente ogni cosa. Sta parlando del linguaggio, senza avvedersene propriamente. C’è però un’altra questione che a noi interessa, e cioè l’idea del bene (άγαθού). L’idea del bene è ciò che è preferibile, è ciò in vista di cui si fanno le cose, in vista di cui si pensa, si parla, si dice, si fa. Che cos’è il bene? Facendo un balzo, potremmo porre il bene come il superpotenziamento, di cui parla Nietzsche. Questo è il bene, vale a dire, l’idea di possedere l’essere, che, come ha appena detto Heidegger, è il trascendente; quindi, è complicato possederlo perché è infinito. Quindi, per possedere l’essere occorre renderlo finito, dominabile, comprensibile, renderlo manipolabile, renderlo uno strumento, un utilizzabile. Ecco perché la cosa ci interessa e comincia anche a porsi la questione del perché. Già dai presocratici la domanda ha cominciato a vertere sulla questione dell’essere. Quando ci si è accorti che l’ente per essere ente necessita di qualche cosa che lo garantisca, si è posta la questione dell’essere. A quel punto la questione della volontà di potenza si è spostata dall’ente all’essere e, quindi, ecco perché la domanda intorno all’essere, intorno al principio primo, a ciò che garantisce e fa essere l’ente quello che è. Come dire che la volontà di potenza, di dominio, si è spostata dall’immanente al trascendente: possedere il trascendente è possedere tutto. Che poi, in definitiva, non è altro che l’idea di possedere il linguaggio, possederlo nel senso di poterlo dominare, di non esserne più travolti, di non subire più il linguaggio ma di dominarlo; solo dominandolo sarebbe possibile il dominio totale. Qui si andrebbe però incontro a quel paradosso che già Nietzsche aveva colto: un dominio totale non è totale se non comprende anche le cose che verranno. Per questo motivo, ogni superpotenziamento nel momento in cui viene posto in essere, già in quello stesso momento diventa un depotenziamento, perché è già proiettato verso un altro superpotenziamento, cioè, verso il futuro, verso ciò che sarà. A pag. 195. Qui considera il non, la negazione. …il “non”, la negazione, è sempre (dipendente dalla) modalità di coglimento. Forse non c’è affatto questione dell’essere se non si prende in considerazione la modalità di accesso all’ente, e in definitiva la domanda esplicita sul sapere non è nient’altro che una formulazione più precisa del problema in vista della determinazione dell’essere. Il sapere è “sapere di” (wissen von), è l’avere scoperto l’ente, l’avere e il custodire l’ente in quanto scoperto. Il “sapere di” è riferito all’ente in modo più preciso e, secondo la convinzione greca, è qui che l’ente in generale è accessibile. Sofista: μή ν (non essere). Anche questo è interessante. Sta dicendo che se nego qualcosa è perché l’ho già colto, è perché è già presente, non posso negare qualcosa che ignoro totalmente. Quindi, ciò che ho colto di sicuro non è l’essere ma è l’ente e, in effetti, non c’è essere senza ente. Qui sta dicendo la stessa cosa: ho bisogno dell’ente, che ci siano le cose, perché io possa costruire una domanda intorno all’essere dell’ente. La domanda intorno all’essere dell’ente prevede che ci sia l’ente, ovviamente. E qui è chiaro che, parlando di presenza dell’ente, si pone anche la questione del non essere, del μή ν. Qui sarebbe facile un rinvio alla questione che pone Hegel, e cioè al non essere come condizione dell’essere: l’essere sarebbe nulla se non ci fosse il non essere in quanto negato. A pag. 196. Ασθησις, δόξᾰ, λόγος (percezione, opinione, linguaggio): problema. Ricordare: la Repubblica: δόξᾰνόησις. La nuova impostazione della problematica complessiva perviene alla questione dell’idea e dell’essere. L’idea del bene: ciò in base a cui diventa comprensibile tutto quello a cui aspirano i diversi comportamenti; “in vista di” una cosa, “a che cosa” una cosa è adatta, è destinata. Questa è la ripresa di ciò che dicevamo poc’anzi: l’idea del bene come ciò che ha a che fare direttamente con la volontà di potenza. Il bene è la soddisfazione, e la soddisfazione la si ottiene nel momento in cui interviene il superpotenziamento. La soddisfazione è quella emozione, quella tonalità emotiva che interviene nel momento in cui qualcosa si soddisfa, riesce, si compie e, quindi, si domina. Con il Teeteto si inizia in un certo senso il distacco del problema dell’essere dall’idea del bene. A ragione Stenzel ha eletto questo fatto a criterio del distacco della filosofia platonica da Socrate e dall’orientamento di fondo specificamente etico. Due periodi: la conclusione del primo è rappresentata dalla Repubblica; la nuova impostazione emerge nel Teeteto. Il distacco del problema dell’essere dall’idea del bene è un fatto, anche se continua a sussistere un duplice problema sostanziale: 1) perché mai l’essere ha potuto essere compreso in base all’άγαθον? 2) Perché anche in seguito – in Aristotele e dopo di lui – l’άγαθον è inteso come determinazione fondamentale dell’essere: omne ens est bonum? Dovremmo quindi domandare: 1) L’orientarsi de problema delle idee sull’idea del bene è solo un episodio, oppure nel contenuto problematico della domanda sull’essere vi sono motivi oggettivi che condurrebbero all’άγαθον? 2) A tale questione si può rispondere dalla prospettiva dell’ultimo periodo di Platone? In altri termini: ciò che si intendeva con l’idea dell’άγαθον non è forse contenuto anche nello sviluppo della dialettica vera e propria e nella concezione della ψυκή che emerge nell’ultimo periodo? La funzione dell’άγαθον non si ripresenta forse alla fine? Vedete qui la questione del bene: il bene come ciò che orienta, che orienta il discorso, orienta il pensiero, orienta il fare, cioè, pone tutte queste cose, il fare, il pensare, ecc., come qualche cosa che è “in vista di”, che sono tali perché sono “in vista di”, vale a dire, sono in vista del superpotenziamento. È chiaro che porre il bene (άγαθον) come ciò in vista di cui si fanno, si pensano e si dicono le cose, sposta parecchio la questione perché a questo punto non è più una questione etica, nell’accezione comune del termine. Pone, invece, l’accento sul fatto che ciò per cui si fanno le cose, cioè il bene, che non è altro che il superpotenziamento, il raggiungimento della soddisfazione attraverso il compimento di un qualche cosa che era già in vista di questo qualche cosa. A pag. 203, sempre a proposito della percezione. Tuttavia il bianco è un percepito e, in quanto tale, ha origine mediante e in una interazione fra l’agire e il patire. Il paziente diventa percipiente, non però percezione. L’agente diventa un ποιόν (produttore), non però qualità. Ma allora, se tutto unicamente diviene, e non è, si può in generale parlare del colore determinato di una cosa? “in quanto fluente esso si sottrae costantemente all’indicazione mediante la nominazione e l’asserzione”. Se però nulla permane, non possiamo nemmeno dire che qualcosa sia veduto. Tuttavia, il percepire deve pur sempre essere sapere! D’altra parte, l’indicazione del fondamento della percezione, la κίνησις, implica che non si possa cogliere più nulla di fisso, cioè dire “così” e “non così”. Per poter chiamare ed esprimere una cosa che non fa che mutare incessantemente si dovrebbe, per così dire, inventare un nuovo linguaggio. L’espressione più adeguata sarebbe: πειρον (Kant). Questa è una questione che si pone, naturalmente, ma noi ne poniamo un’altra a fianco a questa. Qui Heidegger, sulla scorta di Platone, ci sta dicendo che se ciascuna cosa si muove, cioè è presa nella dialettica, non si può fermare, quindi, non si può cogliere e pertanto non ci sarebbe propriamente percezione. Ma le cose sono state poi intese molto meglio da Hegel: ciò che permane, ciò che è fermo è il primo elemento della relazione dialettica, cioè, sarebbe l’in sé. Ma questo in sé, ciò che è fisso, in effetti, non può essere colto se non in un ritorno dal per sé, cioè, dal significato. Ma questo significato è infinito, è indeterminato, è appunto l’πειρον. Potremmo dire che anche Anassimandro non aveva tutti i torti: si percepisce ciò che è fermo, ciò che è stabile, non perché lo sia per natura, ma piuttosto che io posso pensare a qualcosa di fermo e di stabile – posso pensarlo, non che esista – a condizione che io possa dare a questo qualcosa un significato, cioè, di averlo già spostato su un significato, che è indeterminato, che è πειρον. Questo significato è ciò che mi consente di fermarmi, di dire, di conoscere, di sapere del primo elemento. E, allora, torniamo alla questione, a cui avevamo accennato tempo fa, e cioè che qualcosa è stabile, e quindi è utilizzabile, a condizione di essere instabile, di essere in continuo mutamento, così come l’essere in continuo mutamento ha come condizione ciò che non muta. È esattamente la questione che si poneva Hegel rispetto al finito e all’infinito: il finito non esiste, non c’è senza l’infinito, e viceversa. Siamo a pag. 204. In base alla struttura della percezione Platone tenta ora di mostrare che essa non può essere sapere, giacché non coglie l’essere. Tuttavia, affinché l‘ente possa essere scopribile, cioè, affinché sia possibile la scoperta, ovvero la verità, è necessario che l’essere sia colto. Però, già prima ci diceva che è impossibile se questo ente è preso in un movimento dialettico inarrestabile. Dove l’essere non è comprensibile, e quindi la verità non è possibile, non si dà alcun sapere, dato che quest’ultimo consiste appunto nell’avere colto l’ente così come esso è. Questa dimostrazione del fatto che la percezione non può essere sapere, compiuta in base alla costituzione intenzionale della percezione, è del tutto diversa dalla dimostrazione precedente, che fa ontologicamente riferimento al processo percettivo; un fluire costante, una instabilità. (Tuttavia anche questa dimostrazione non è priva di scopo: rilievo dato alla mobilità degli αίσθητά (percepiti). Percezione con che cosa? Con gli occhi, con le orecchie? No, bensì per mezzo di essi, con i loro aiuto, attraverso di essi; occhi e orecchi contribuiscono alla percezione, ma non sono essi a percepire. In tal modo però ciò che pria costituiva la base della discussione è rigettato. Non sono gli occhi a percepire, bensì ciò che li utilizza come organi visivi e che prima li organizza come organi. Noi non vediamo perché abbiamo gli occhi, bensì abbiamo gli occhi perché vediamo. Ciò con cui si vede qualcosa è il vedente; ciò attraverso cui si vede, gli occhi, non sono il vedente. È una questione tutt’altro che antica, ancora oggi è molto presente. Dire, come fa lui, che non sono gli occhi che vedono implica subito una domanda: che cosa dico quando dico che vedo qualcosa? A questa domanda ci risponderebbe Gentile: dico che vedo qualche cosa quando mi accorgo di essere quella cosa che dico di vedere, cioè, di essere sempre io che quando penso qualcosa, di fatto, sto pensando sempre e soltanto il mio pensiero. 1) Siamo noi stessi il percepire: esso appartiene al nostro sé più intimo; 2) e come tale rimane lo stesso: stabilità, non instabilità. Sono “io” in quanto rimango lo stesso, che in questo istante odo e vedo 3) attraverso qualcosa. Qui è Gentile, né più né meno. Sono “io” in quanto rimane lo stesso, rimane lo stesso perché è l’atto, è l’atto del vedere o del sentire: in questo atto io sono esattamente ciò che vedo, ciò che odo. A pag. 206. Ma che cosa intendo allora nel percepire, πρώτον μεν, che entrambe sono? Anzitutto e in primo luogo le intendo già come essenti. Questo è evidente. Se io dico che vedo qualcosa, presuppongo che ci sia qualcosa da vedere. Ciascuna è, rispetto a ogni altra, un’altra, ma tutte sono identiche a se stesse. La chiusa positiva: άναλογίσματαλόγοςκατηγορείν. Categorie: scoperta del categoriale in opposizione al sensibile. Qui si scopre il categoriale, sì, certo, ma il categoriale non è altro che il predicato. Dire κατηγορείν o dire praedicamenta è soltanto la traduzione dal greco al latino. Sono i predicati, sono le cose che si predicano, cioè, sono i significati delle cose. Dicendo che percepisco qualcosa dico che questo qualcosa esiste, e se esiste è perché ha un significato, ha un rinvio… perché è nel linguaggio. A pag. 209. Ci sono due tipi di δόξᾰ: άληθής e ψευδς. L’opinione vera e l’opinione falsa. C’è da dire qui che anche in questo caso la δόξᾰ non è qualcosa di separato, di isolato: non c’è la δόξᾰ senza il pensare autentico e non c’è il pensare autentico senza δόξᾰ, intesa questa come la chiacchiera, di cui parla Heidegger. Esattamente per lo stesso motivo per cui senza l’ente non può darsi l’essere. Senza la chiacchiera, senza il luogo comune, senza la volontà di potenza… Il luogo comune è volontà di potenza, cioè, l’utilizzare ciò che altri utilizzano per sentirsi potenti. Quindi, la δόξᾰ non è un sapere di secondo piano rispetto a un sapere autentico, la δόξᾰ è in ogni caso la condizione del sapere. Dunque, ci dice: Ci sono due tipi di δόξᾰ: άληθής e ψευδς. Vale sempre e comunque l’alternativa che noi o sappiamo o non sappiamo qualcosa? È evidente! Si tratta di un’alternativa perfetta! (Lasciamo da parte, per il momento, μεταξύ, l’apprendere e il dimenticare. Il μεταξύ sarebbe qualcosa che sta in mezzo. Dunque, ciò su cui ci regoliamo nell’opinare è qualcosa di ciò che sappiamo o non sappiamo. Sapere e non sapere una cosa, non sapere e sapere una cosa, sono άδύνατον. Sono impossibili: è impossibile che io sappia e non sappia simultaneamente. È chiaro che Platone a questo punto doveva già possedere il risultato del Sofista! Il falso opinare è infatti un regolarsi su una cosa, che è data, e che dunque l’opinante sa. a) Questa cosa, che egli opina e sa, eppure non in quanto questa cosa che sa, bensì in quanto un’altra cosa che sa. Si opina intorno a qualche cosa in relazione a qualche altra cosa che si sa. sapendo entrambe le cose, non sa entrambe. Impossibile. b) Oppure l’opinato è una cosa che egli non sa, e di cui opina ugualmente una cosa che non sa. Impossibile. Dunque, ciò che si sa non lo si scambia comunque per ciò che non si sa, e viceversa. Sarebbe davvero sorprendente. In effetti: questo πάθος (sentire) è presente nella ψευδής δόξᾰ (opinione falsa). Considerato da questa prospettiva il falso opinare è quindi impossibile. O io so una cosa in assoluto, e allora essa è vera; oppure non la so, e allora non c’è nessun “regolarsi su”. Regolarsi-sul non-ente è niente! O so l’opinato, oppure non lo so. Nondimeno, io opino pur sempre qualcosa: μή ν (non essere) – ούκ (non) – ούδέν (nulla affatto). Non si tratta di sapere e non-sapere, bensì di essere e non-essere. Può un qualsiasi uomo opinare il non-ente?, quando egli crede qualcosa, ma non qualcosa di vero. Regolato su qualcosa, non però come vero, è niente. Non accade talvolta anche che uno veda qualcosa, eppure non veda niente? Se è una cosa, allora è pur sempre qualcosa di essente, o no? Ho letto questa cosa perché c’è un aspetto che ci può interessare: il pensare un qualche cosa è sempre un pensare vero. Questo ce lo diceva già Gentile: se io penso qualche cosa, il vero non è ciò che penso ma è il mio pensare che è vero. Ed è questo che “risolve” la questione: la verità non sta nel quid che io opino, ma nel mio opinare stesso, nel fatto che opinando sto opinando, cioè, che sto pensando. Qui c’è una nota alla trascrizione che ha fatto Mörchen delle lezioni di Heidegger. A pag. 374. Si deve mostrare che nel δόξᾰζειν è insito il λόγος, che coglie qualcosa in quanto qualcosa. Il λόγος è inteso come un determinato modo di parlare dell’ente: in quanto fatto così è così. Finora questa concezione del λόγος è rimasta oscura. Antistene: si può enunciare sempre solo l’identico: il cavallo è cavallo, e non: il cavallo è nero. Δόξᾰ = λόγος. All’interno del pensiero platonico questa definizione è nuova e viene fissata nel Sofista. Nell’ambito della filosofia greca solo Aristotele è giunto a formulare un concetto più preciso di λόγος nel senso dell’“asserzione”. In termini fenomenologici la questione va intesa così: asserire è indicare qualcosa in quanto qualcosa. Affinché un λόγος siffatto sia possibile, dev’essere già dato un primo qualcosa. Nell’asserzione questo primo qualcosa già dato è determinato in quanto quest’altro qualcosa che è il determinante. Qui è interessante vedere questo movimento dialettico tra il determinato e il determinante, perché il determinato richiede il determinante, ma il determinante richiede il determinato, sennò non determina niente. La struttura del λόγος è caratterizzata dall’“in quanto”. Il fenomeno dell’“in quanto” è quindi ciò che va scoperto. Io trovo qualcosa “in quanto” qualcosa. Ma come è possibile che in un’asserzione qualcosa di duplice (di già dato e di determinante) sia riferito a una sola cosa? Ecco qui la questione dialettica. Ciò appare difficile ai Greci poiché riguardo al λόγος sussiste un pregiudizio maturato in modo puramente teoretico, non fenomenologico (Antistene sulla scorta di Parmenide), secondo cui, se l’“è” deve avere un senso, posso dire solo “la lavagna è lavagna” e non “la lavagna è nera”. Antistene intende il λόγος come identificazione, e precisamente del già dato con se stesso. Per questo nel Teeteto si discute costantemente dell’τερον, dell’”altro”, e della sua definizione. Consideriamo ora la falsa δόξᾰ: un’asserzione è falsa quando qualcosa di già dato è chiamato in quanto qualcosa che non è: ad esempio, “la lavagna è rossa”. Stando alla teoria greca del λόγος, dovrebbe essere possibile identificare qualcosa di essente con qualcosa di non-essente. Ciò non è possibile, dunque non c’è alcuna falsa opinione. Asserire è identificare: è questa tesi a essere sempre già presupposta. Un vedere sbagliato, una s-vista, un errore si hanno quando qualcosa di già dato è chiamato in quanto qualcosa che non è. Se chiamo in quanto questo e quello uno che mi viene incontro, ciò significa che qualcosa che mi viene incontro è chiamato in quanto qualcosa che mi è noto. L’asserzione però può essere falsa. La tesi greca va demolita. Nondimeno, il risultato di Platone non è puramente negativo, poiché lascia emergere la cognizione che non si tratta solo di un’identificazione, ma che, al contrario, due cose sono asserite l’una in rapporto all’altra. Questa è la portata del gesto di Platone: accorgersi che non si tratta di un’opposizione (nel senso di esclusione) ma di una relazione; non si tratta di escludere ma di integrare – ancora non c’era la questione dell’integrazione –, di cogliere come relazione. Qui ha aperto la strada a tutto il pensiero successivo, Aristotele in particolare, e dopo di lui tutti quanti, cioè, ha reso possibile – è questo il parricidio nei confronti di Parmenide – la convivenza di essere e non essere. Ha dato in un certo qual modo anche la possibilità a Hegel di compiere il suo passo fondamentale, e cioè essere e non essere non sono in posizione di esclusione ma di integrazione: l’uno necessita dell’altro. A pag. 211. L’τερον non è un’esclusione, una diversità assoluta, giacché, al contrario, qualcosa si mantiene. Il μή (non) non esclude dall’ente, bensì τί μηνύει, “mostra qualcosa”… Il “non” non cancella qualche cosa ma “mostra qualcosa”, fa apparire qualcosa. …che è (l’altro) il non-essere, cioè che non è. Il μή non fa scomparire, non porta al niente, bensì fa vedere. Qui c’è già Hegel in nuce, in qualche modo compare la questione della dialettica. A è B: A è identico a B, è lo stesso di B, con A è presente B. A non è B: non è identico, è diverso, è esclusivo. Ogni ente che è, nella misura in cui è, è altrimenti dall’uno. Ogni ente è uno, e, in quanto uno, è ancora altrimenti. Ogni ente, ci sta dicendo, è uno; quindi, è qualche cos’altro da sé, è altrimenti. L’essere-altrimenti appartiene all’essere: “non essere così come”. Struttura del “non-essere”. Che cosa significa allora essere? Possibile essere-insieme. L’essere-insieme: l’essere con-presente. Perché “con”? perché l’“uno” si articola solo negli opposti, ma nel contempo soltanto come accesso. In questi opposti, proprio l’altro è presente in quanto “con”. È una bella definizione di dialettica: l’altro è con-presente. Quindi, non si tratta di esclusione. C’è un’altra nota, sempre di Mörchen, che può interessarci. A pag. 376. La seconda tesi, έπιστήμη = δόξᾰ άληθής, è discussa seguendo il filo conduttore dell’opinione falsa. Anzitutto si dimostra che un’opinione falsa è impossibile; poi si considera questo fenomeno come άλλοδοξία, “opinare altrimenti” = έτεροδοξείν. … Si domanda se nell’opinione falsa avvenga che si pone una cosa per un’altra, τερον άντί τερον, “qualcosa per qualcos’altro”. Platone non dice “in quanto”, bensì “per”. Questo porre l’uno al posto dell’altro è impossibile., poiché si tratterebbe di un’identificazione di ciò che si esclude in senso assoluto. È il principio del terzo escluso. Ma qual è il comportamento con cui in genere mi rivolgo a qualcosa di già dato e lo determino? Ciò che la percezione contiene in più oltre all’ ασθησις ha a che fare con l’anima ed è ora definito in modo più preciso: questo διανοείσθαι altro non è che il λόγος . “È una discussione che ‘anima compie con se stessa su ciò che essa vede”. Più precisamente, tale parlare è un discorrere dell’anima con se stessa, sia pure in silenzio. Essa lascia l’ente, così com’è, espressamente nelle sue determinazioni. Il discorrere dell’anima con se stessa su ciò che essa vede. Δόξᾰ = “discorso compiuto”, λόγος είρημένος. Socrate: se la δόξᾰ consiste in una discussione siffatta, allora dico che τερον τερον εναι: “L’una cosa è l’altra cosa”. Ma posso dirlo? Il bue è il cavallo? Impossibile! E in effetti non dico nulla di simile. Quindi lo τερον τερον εναι è impossibile. Impossibile è dire entrambi in quanto differenti nel λόγος. D’altra parte, se dico soltanto una cosa, non potrò mai chiamarla come un’altra cosa, non potrò mai asserire qualcosa di sbagliato. L’έτεροδοξείν è impossibile. Tentativo di determinare più precisamente il λόγος. Ora in Platone emerge il fenomeno positivo, senza che egli lo prenda sul serio. Il fenomeno positivo non è altro che la dialettica, di cui ci parlerà Hegel molti anni dopo. A pag. 219. Nella discussione della ψευδής δόξᾰ (opinione falsa) emerge come sullo sfondo stia il problema dell’τερον: una cosa al posto dell’altra, una cosa in quanto un’altra cosa, μή ν, e precisamente in riferimento al λόγος. A pag. 225, Capitolo IV, I concetti centrali della filosofia platonica nel concetto della comprensione dell’essere e della questione dell’essere, Paragrafo 49, L’idea dell’άγαθόν (bene). Ne va dell’essere dell’esserci, dell’anima stessa. Ciò di cui ne va è l’essere, laddove l’“in vista di che cosa” del suo ente è, per l’appunto, “l’essere”. Ci sta dicendo che l’“in vista di” è l’essere. Tutto ciò che si è “in vista di”, e questo “in vista di” è l’essere. L’ente al cui essere appartiene la comprensione dell’essere. Chiaramente, è all’ente che appartiene la comprensione dell’essere, perché, come abbiamo visto, senza l’ente non si dà neppure l’essere. La comprensione dell’essere è quel poter-essere per cui ne va dell’essere. Quindi, comprendo l’essere in quanto un poter-essere. Qui ne va dell’essere perché l’essere è questo, è “essere in vista di”, è un poter-essere. Qui naturalmente c’è Heidegger più di quanto ci sia Platone, perché sta parlando dell’essere-gettato: l’esserci è un essere continuamente gettato nel suo progettarsi continuo. Quindi, l’essere è sempre un “essere in vista di”. In termini greci: ciò di cui ne va, l’“in vista di che cosa”, esso stesso in quanto ente, il bene. Ecco che torniamo alla questione in modo preciso: ciò di cui ne va nell’essere è l’essere “in vista di”, ma l’essere in vista del bene, l’essere in vista della volontà di potenza, come soddisfazione per il compimento del superpotenziamento. L’essere è il τέλος, la “fine”, l’άγαθόν. Il fine di tutto, dice, è l’άγαθόν, è il bene, ma questo bene occorre intenderlo. Platone e tutti quanti hanno posto il bene come ciò che massimamente ricercato dall’uomo, ma l’esserci che cosa vuole? Vuole il progetto, il compimento del progetto per essere gettato ancora verso un altro progetto, cioè, per essere gettato ancora in un superpotenziamento. All’άγαθόν si perviene in virtù del fatto che l’essere è compreso in quanto ente; una qualità essente, il bene. Riguardo all’anima si dice più di quanto sia compatibile con il suo senso. L’asserzione ontologica va riportata entro i suoi limiti. Conoscere, vedere sono un agire, un mirare a. Vedete come insiste qui la questione del “mirare a”, dell’essere sempre “in vista di”. Άγαθόν, πέρας; ogni visione è già e anzitutto riferita alla luce. Qui torniamo alla questione della caverna. In essa si compie la comprensione dell’essere. L’essere tramite l’ίδέα, “un veduto”; l’essere tramite l’άγαθόν, “in vista di che cosa”, “fine”. L’idea del bene è l’essere e l’ente autentico. Qui ci riconduce in modo esplicito alla questione della volontà di potenza. Intanto ripropone la questione della luce e dice in essa, in questa visione della luce si compie la comprensione dell’essere. Soltanto se c’è la luce, se c’è la verità, allora è possibile il raggiungimento del fine, del τέλος, ma ciò vuol dire che questa luce è lo strumento attraverso il quale si può ideologicamente costruire la verità - intesa proprio come veritas latina - come uno strumento di dominio, come uno strumento per dominare altri o altro. Conclude dicendo che L’idea del bene è l’essere e l’ente autentico. Certo, l’idea del bene come fine ultimo delle cose, come fine ultimo del mio dire, del mio fare, del mio agire. Io agisco sempre, lo diceva prima, “in vista di”, e l’“in vista di” è riferito al bene, è il bene verso cui ci si muove; questo bene è la soddisfazione, è il dominio, è il controllo. Essere significa anzitutto presenza. Però, oltre che presenza, l’essere è “in vista di che cosa”, a che, άγαθόν, ώφέλεια, “utilità”. Più chiaro di così! L’essere “in vista di che cosa” è l’in vista di qualche cosa di utile, di utilizzabile per il raggiungimento della volontà di potenza. Esso stesso è separato e, in quanto ν, equiparato all’ούσία. L’utilità stessa non è intesa in termini ontologici, bensì coordinata all’essere, dato che l‘essere stesso è ridotto a pura sussistenza, presenza cosale. Qui ci interessa vedere come tutta la questione verta, senza essere mai disvelata, intorno alla volontà di potenza, e cioè al fine ultimo verso cui ciascuna cosa è. Le cose sono in quanto sono prese nel linguaggio, cioè, nella volontà di potenza. È la volontà di potenza che stabilisce ciò che è. A pag. 226. Essere: presenza, più precisamente: partendo da essa si ha la struttura dell’essere: insieme, con-presente, uno – altro, unità – alterità – molteplicità – identità. Essere e relazione. La struttura del λόγος è aperta, ma predefinita: l’essere stesso e la distinzione dall’essere-scoperto; essere e possibilità, δύναμις; essere e movimento, κίνεσις. Tuttavia, anche ciò che si è ottenuto non è nel modo più assoluto un sistema, compiuto e trasparente, bensì è in cammino, è ancora spunto, è oscurità. Qui sta anche il bello del pensiero antico, socratico e presocratico: è ancora tutto “oscuro”, è ancora tutto in fieri, in movimento, è ancora tutto che si sta pensando. Non è ancora intervenuto il già pensato, che interverrà poi nella filosofia successiva, ma è tutto quanto mentre si pensa, è ancora tutto aperto, ogni possibilità è data. Eppure proprio in ciò consiste l’elemento autenticamente produttivo,… Dice bene qui Heidegger. …che indica e conduce in avanti appunto perché non si tratta di un sistema, bensì di un lavoro reale alla scoperta dei fenomeni, che per questo non invecchia mai. È chiaro, il fenomeno accade continuamente. E ciò non accade, ad esempio perché esista una verità compiuta e cosiddetta eterna, bensì perché vi sono domande reali che non vivono come problemi. Il fatto di porre un problema genuino è decisivo ed esige un reale lavoro di ricerca, che si contrappone alle questioni apparenti, risolvibili con formule sofistiche. Tale lavoro non invecchia finché e in quanto non riesce a trovare risposte, a cogliere l’intenzione radicale e a sollevarne una nuova. Nessuna conclusione, dunque, bensì solo rinnovati impulsi. Questo è il progetto, è la sua definizione migliore. È anche quello che ci riguarda in questo lavoro che stiamo facendo, seguendo anche le indicazioni di Heidegger, di rileggere i testi antichi, per ritrovare in questi testi le stesse questioni alle quali gli antichi pensavano e continuavano a pensare e che non hanno chiuse. Sono questioni che rimangono aperte, che continuano a domandare, perché la questione intorno al linguaggio non è mai conclusa, è una continua domanda.