INDIETRO

 

 

7 marzo 2018

 

C. Sini, Semiotica e filosofia

 

Siamo a pag. 47 alla nota 25, una nota interessante, che dice così: Le categorie semiotiche acquistano, com’è noto, una “valenza” cosmologica nel pensiero maturo di Peirce. Così, se ad es. la Firstness… Lui parla di Primità, di Secondità, di Terzità, che sono i tre aspetti del segno, così come abbiamo visto la Qualità, l’Oggetto e l’Interpretante. …la Firstness nomina il “concetto di essere o esistere indipendentemente da ogni altra cosa”, cioè il quale, la qualità semplice, meramente potenziale, “non qualcosa di esistente, ma una semplice possibilità di esistenza” … Qui c’è una questione interessante, sta dicendo non qualcosa di esistente, che esiste, ricordate la formuletta a è b… Ci sta dicendo che la a non è qualcosa che esiste ma è una possibilità di esistenza. Prosegue …dal punto di vista cosmologico ciò corrisponde all’indeterminatezza originaria o al “caos della sensibilità impersonale”. Al contrario, se la Thirdness nomina il “concetto della mediazione”, della legge e della condotta, dal punto di vista cosmologico ciò corrisponde all’incremento evolutivo della generalizzazione, dell’ordine, delle abitudini (naturalmente attraverso la Secondness che nomina la relazione, il contrasto, l’esistenza, il mero fatto). Più fruttuosa è certamente l’applicazione delle categorie faneroscopiche alla classificazione delle relazioni triadiche dei segni. Muovendo dalla nota definizione del segno come “qualcosa che sta per qualcuno al posto di qualcos’altro sotto qualche rispetto o capacità”, Peirce definisce il “qualcosa” (cioè ciò che propriamente funge da segno) representamen; la significata dal representamen la definisce oggetto; il “qualcuno” al quale viene significato l’oggetto, interpretante… Sappiamo che l’interpretante non è qualcuno ma è un abito. Prosegue con una serie di definizioni. Dice a pag. 48, nella stessa nota, …il representamen è innanzitutto un qualisegno… Sarebbe il segno in quanto qualità, per esempio, dice lui, una sfumatura del tono di voce, una sfumatura di colori, come eventi possibili e infine possibili qualità segniche. In secondo luogo il representamen è un sinsegno o token… Un sinsegno sarebbe un segno dell’oggetto, un segno in quanto oggetto. … In terzo luogo il representamen è un legisegno o type (la regola, o la legge del funzionamento simbolico del segno, cioè il codice che ne specifica l’uso o il carattere tipico). Ma che cosa ne specifica l’uso? Ciò che ne specifica l’uso, ce lo dice lui, è l’abito, ciò che si è abituati a pensare. Ciò che lui intende come abito, in effetti, non è un qualche cosa che è stabilito logicamente da qualcuno, è semplicemente il modo in cui si pensa, il modo comune di pensare; sarebbe, a dirla tutta, la chiacchiera. A questo punto potremmo dire che ciò che fa di un segno un segno, e cioè ciò che interpreta un qualche cosa che appare, ecc., è la chiacchiera, è la chiacchiera che definisce il segno. È una cosa tutt’altro che irrilevante. Infatti, dice poco dopo: Ciò che rende segno un segno è la regola, o legge, o modello (type) che attraversa fatti singoli dotati di qualità e ne specifica il codice d’uso. Quindi, ciò che rende segno un segno è la regola d’uso, e qui siamo in pieno Wittgenstein, quando diceva che il significato non è altro che l’uso che si fa di una certa cosa. Ma questo uso da dove arriva? Dall’uso corrente, dalla chiacchiera, dal modo in cui le cose si usano normalmente. Avete presente un dizionario qualunque, è un elenco di elementi linguistici tratti dalla chiacchiera, dal modo in cui si usano per lo più le parole. Andiamo a pag. 57. Per il fatto che ogni representamen è connesso con tre cose(il ground, l’oggetto e l’interpretante), la scienza semiotica, dice Peirce, presenta tre branche (rispettivamente connesse, è bene aggiungere, con le tre categorie faneroscopiche, come ogni altra classificazione tripartita di Peirce). La prima di tali branche è la grammatica pura (grammatica formale nel saggio del ’67, ove la tripartizione era già introdotta): ciò che Duns Scoto, dice Peirce, chiamava “grammatica speculativa”. “Essa ha per scopo di accertare ciò che deve essere vero del representamen usato da ogni intelligenza scientifica affinché possa incarnare un significato (meaning). In altre parole, la grammatica pura risponde alla domanda: come deve essere il representamen per poter incarnare il significato? Lui dà una risposta ma possiamo fermarci a riflettere un momento su questa cosa: come deve essere una frase per poter avere un significato? Deve essere riconosciuta dal linguaggio come frase, come proposizione. Devo già avere questa informazione, cioè il linguaggio, di cui sono fatto, deve poter riconoscere una certa sequenza, una certa successione di suoni, come proposizione. Quindi, la funzione della grammatica pura sarebbe quella di costruire una certa cosa in una certa sequenza in modo che sia riconoscibile come sequenza linguistica, e non come un disegnetto senza senso. La seconda branca è la logica in senso proprio: “Essa è la scienza di ciò che è quasi-necessariamente vero dei representamina di qualsiasi intelligenza scientifica affinché essi possano restare validi nei confronti di un qualche oggetto, cioè possano essere veri”. In altri termini, la logica, come “scienza formale della verità delle rappresentazioni”, risponde alla domanda: in che senso è vero che un representamen sta al posto di un oggetto? Qui siamo nella nozione di verità come aedequatio. La risposta, anche se qui Peirce non lo dice, è strettamente connessa al problema della “condotta” e viene ampiamente trattata negli scritti in cui Peirce esamina la collocazione della logica fra le scienze normative, e precisamente come scienza Thirdness rispetto alla estetica (Firstness) e all’etica (Secondness). La terza branca è la retorica pura, il cui scopo “è di accertare le leggi mediante le quali, in ogni intelligenza scientifica, un segna dà la nascita a un altro, e specialmente un pensiero ne produce un altro”. Ciò che ci sta dicendo qui della retorica è interessante: lo scopo è di accertare le leggi mediante le quali, in ogni intelligenza scientifica, un segna dà la nascita a un altro. Ora, parlare di leggi a proposito della retorica potrebbe apparire singolare, eppure ci sta dicendo tra le righe che la retorica è l’aspetto determinante in quanto dice se una certa cosa, che sto pensando, si accorda con delle leggi comunemente accettate, quelle leggi che mi consentono di proseguire a dire. Lui lo dice in modo preciso: un segna dà la nascita a un altro, ma a quali condizioni un segno, una parola, dà una nascita a un’altra? Devo sapere che questo passaggio da una cosa a un’altra è “autorizzato” da leggi universalmente riconosciute. Queste leggi, universalmente riconosciute, sono leggi retoriche che non hanno nulla di costrittivo ma sono semplicemente l’uso, l’abito in cui ciascuno si trova, in cui ciascuno nasce; sono, come dicevamo, la chiacchiera. Aveva ragione Heidegger: è dalla chiacchiera che si nasce e ciascuna elaborazione, dalla più sofisticata alla più banale, affonda le sue radici nella chiacchiera. Questo lo sapeva già Husserl, quando parlava della Lebenswelt, del mondo della vita: è dal mondo della vita che le cose traggono la loro origine, sono le prime cose che si imparano, che rimangono lì, e che costituiscono la base da cui partire per fare qualunque cosa. Il problema è che queste cose da cui si parte, questa chiacchiera, questa retorica pura, non ha ovviamente alcun fondamento, non è fondata né fondabile, ed è da lì che ogni pensiero trae il proprio avvio. Poco a pag. 59 dice …la grammatica pura, in quanto campo della possibilità segnica, ha il compito di mostrare che nella natura stessa del segno giace la possibilità del significato. La natura del segno ci mostra la necessità che ci sia un significato. È vero, però, io come so di questa possibilità? La grammatica pura mostra il campo della possibilità, certo, ma come so, per esempio, che una certa sequenza è possibile, cioè è possibile accoglierla come proposizione? Peirce dirà che lo so soltanto perché c’è la Terzità, cioè, c’è l’interpretante, l’abito, cioè la mia abitudine a pensare e a parlare in un certo modo; è questo, dice lui, che m consente di potere dire che una certa sequenza è possibile che significhi qualcosa. Se, per esempio, io trovo una frase scritta in finlandese, lingua che non conosco, c’è qualche cosa che mi fa dire che questa frase significa qualcosa, anche se io non so cosa. Che cosa me lo fa dire? Il mio abito, le cose che sono abituato a pensare, so che se trovo scritto in un libro una frase in finlandese questa frase avrà un significato. Ma questo mio sapere è un sapere retorico, è un sapere che non ha propriamente nessun fondamento. Peirce chiamerebbe questa operazione abduzione, in quanto ho degli indizi già acquisiti che mi dicono che se trovo una frase in finlandese in un libro questa frase significherà qualche cosa, anche se non so assolutamente cosa. Ma poiché tutto, in potenza, è segno… Lui dice in potenza ma poi si correggerà dicendo che qualunque cosa è segno. …cioè tutto è un possibile veicolo di informazione, non è arbitrario, né indebitamente “metafisico”, concludere, come Peirce fa in sede faneroscopica e cosmologica, che l’universo è la possibilità del significato. L’universo sarebbe un po’ come ciò che Heidegger chiamava il “mondo”, in cui ciascuno è, e questo mondo è per Peirce la possibilità del significato. Ma, andando più a fondo, dobbiamo aggiungere che il segno in se stesso o representamen che la grammatica pura studia, non è che il frutto di una considerazione astrattiva (tecnicamente legittima) resa possibile in concreto dalla presenza dell’interpretante e della retorica pura (cioè da un interpretante già fornito di un campo, o caratterizzato da un campo, di informazioni consolidate e operanti). In altri termini: c’è già una retorica perché se e possa astrarre una grammatica. Qui è evidente come metta la retorica in prima istanza: la retorica è ciò da cui procede ogni cosa, la chiacchiera, ciò che comunemente si pensa, ciò che in genere si suppone intorno a qualunque cosa. “Dietro” al segno non c’è un oggetto, nel senso della ovvietà naturalistica. Impiantare la scienza semiotica sulla base di questa ovvietà significa fare un passo indietro rispetto a Peirce. Non dobbiamo pensare come se ci fosse un oggetto “in sé”, preso in una sua beata estraneità rispetto alle relazioni segniche e alle loro funzioni, e poi un modo (ground) in cui esso si rapporta al segno (cioè con un’altra “cosa naturale”). (pagg. 59-60) Che è il modo di pensare comune: c’è la cosa e poi c’è la mia parola che significa quella cosa lì. Bisogna partire dall’interpretante… Cioè, dal terzo elemento, dalla Terzità. …che vede nel ground una possibilità di comportamento (ovvero di “risposta”: si ricordi la massima pragmatica). Vale a dire che questo modo, questo abito di pensiero non è altro che una mia risposta a una certa situazione: io rispondo a una certa situazione a partire dal modo in cui penso, e il modo in cui penso è il modo in cui pensano tutti. Ci sta dicendo che tutto quanto è supportato dalla chiacchiera, dalla retorica pura, da un abito mentale, come dire che non c’è altro fondamento se non l’abito. L’abito non è altro che la risposta che do di fronte a una certa situazione, è il modo in cui io rispondo. In questo “vedere” (che è poi, in senso più proprio, un “fare”, il fare di una struttura culturale definita, il suo modo di porsi in relazione segnica: questo significa in senso profondo l’interpretante) … L’interpretante, il segno, non è altro che un fare determinato da un fattore culturale, da ciò che io sono abituato a pensare; potremmo dire, con Freud, un fare determinato dalle mie fantasie. Cosa sono le fantasie se non un racconto che costruisco per orientarmi nel mondo, cioè, per controllarlo, per pensare di poterlo gestire? Le fantasie hanno questa funzione. Dunque, il segno trae la sua ragione d’essere, diciamola così, dalle mie fantasie, o meglio ancora, il segno, la mia parola, trae il suo significato ciascuna volta dalle mie fantasie. Quando Peirce parla di fatti culturali, di abito, di abitudini, ecc., ciò che io sono abituato a pensare sono le mie fantasie che, certo, tengono conto della mia educazione, di una formazione, di una preparazione avuta negli anni. Tutte queste cose contribuiscono alla costruzione di una fantasia, cioè di un racconto che io faccio, come dicevo prima, per orientarmi nel mondo, cioè, per averne il controllo entro i limiti possibili. Dice In questo “vedere” (che è poi, in senso più proprio, un “fare”, il fare di una struttura culturale definita, il suo modo di porsi in relazione segnica: questo significa in senso profondo l’interpretante) si radica la contemporanea possibilità dell’oggetto e del segno o representamen, cioè si fonda la loro relazione. Il vedere, il modo in cui vedo le cose, in cui le leggo, le interpreto, le stabilisco, ed è in questo vedere che si radica la possibilità dell’oggetto. Questo oggetto, un qualunque oggetto, come ci aveva già avvertiti prima, non va inteso in senso naturalistico come la cosa in sé, ma trae la sua possibilità di esistere dal modo in cui io vedo le cose; per Heidegger, sarebbe dal progetto in cui mi trovo. In effetti, quando Heidegger parla del progetto, parla di queste cose. Il progetto, che io sono, è mosso da tutto ciò che io ho acquisito, anche da quelle cose che sto pensando in questo momento, da qualcosa che è comparso in questo momento che mi ha distratto, da qualunque cosa. Tutte queste cose, che ovviamente sono difficili da tenere in conto, concorrono a farmi vedere le cose in un certo modo, a farmi occupare di una certa cosa in un certo modo, in quel certo modo in cui me ne sto occupando in questo momento. A pag. 62 dice Se dunque il qualisegno… Il qualisegno è il segno rispetto alla qualità, cioè la prima parte, il semplice apparire. …è una qualsiasi cosa o emergenza in quanto può funzionare (venire interpretata) come un segno, bisogna ora aggiungere che tale possibilità è innanzi tutto “iconica”, vale a dire che implica o determina una relazione iconica. Il rapporto che il segno, in quanto qualisegno, intrattiene verso qualcos’altro (l’oggetto) è tale cioè da implicare “un qualche comune ingrediente o similarità”, cioè un ground. Mi rapporto a un qualche cosa in un certo modo. Quando si parla qui di “similarità”… Similarità che definisce la relazione iconica. Sapete cos’è l’icona, pensate alle famose icone russe. L’icona è quel tipo di segno che mostra per similarità il suo rinvio, così come l’immagine della Madonna rinvia alla Madonna. …non bisogna intendere tale espressione in senso metaforico, come qualche studioso di semiotica ha ritenuto. Se si vuole, si tratta caso mai della condizione di possibilità di ogni metafora. Il problema della metaforicità non si può porre a questo livello, poiché esso implica un confronto reale fra il segno e l’oggetto significato o denotato; ma l’oggetto non c’è ancora; esso è per il momento una pura possibilità logica. Come vedete, l’oggetto compare a un certo punto, compare come possibilità logica, se c’è questa possibilità. Perché ci sia questa possibilità è necessario che ci sia l’interpretante, cioè ci sia l’abito con cui io penso le cose. Nell’essere un possibile segno di qualcos’altro è dunque implicita la potenziale emergenza di un ordine relazionale, di un punto di vista o rispetto (ground) che consenta a sua volta l’emergenza di un “altro” (l’oggetto) il quale, sotto quel rispetto, ordine, o capacità, sia insieme il “medesimo”. È sotto il rispetto dell’esser rosso che quella cosa che è la bandierina è lo stesso che mare agitato. …  È qui che si pone, potenzialmente, il rapporto inclusivo-esclusivo di identico e diverso, nonché il primo germe della Thirdness e mediazione. Non c’è prima un caos di momenti diversi e poi il porsi di una somiglianza fra due o più di essi… Qui siamo sempre nella “consapevolezza” di Peirce, per cui questi tre aspetti che lui individua nel segno… Che poi questi tre aspetti non è che esistano propriamente, cioè, c’è prima la Qualità, poi c’è la “è” che indica la possibilità, e poi finalmente c’è il terzo elemento che sarebbe ciò che la possibilità determina. Questa divisione che fa Peirce è puramente didattica, astratta, teorica, non c’è di fatto nel segno, il segno è un rinvio, niente altro che questo, un essere qualcosa che in relazione con qualche cos’altro. Lui individua tutto questo per inventarsi una scienza della semiotica e, quindi, è costretto a individuare con precisione tutti gli elementi che intervengono. Secondo lui, interviene prima la Qualità, cioè il vedere qualche cosa, che appare così come appare, il che potrebbe fare intendere il vedere l’oggetto per quello che è, solo che ciò che dice dopo invece ci costringe a pensare che vedo l’oggetto così com’è perché sono abituato a vederlo così, solo allora lo vedo così com’è, ma così com’è per me, che sono abituato a vederlo in un certo modo, abituato a pensare che sia così, non ci sono altre possibilità per Peirce. Più avanti riflette su tre aspetti, che sono fondamentalmente quelli della filosofia, l’estetica, l’etica e la logica, cercando di intendere come questi tre momenti si possano far derivare in qualche modo dal funzionamento del segno. Lui la pone così: la qualità, che cos’è? È il modo in cui qualche cosa mi appare, e sappiamo anche perché mi appare nel modo in cui mi appare, ma l’apparire non è altro che la sensibilità, un qualcosa di sensibile che mi appare. L’estetica viene da lì, l’ασθησις è la percezione, cioè ciò che viene percepito immediatamente. Lui pone non la logica o, come altri hanno fatto, l’etica come prioritari ma proprio l’estetica, l’estetica come il primo apparire di qualche cosa, l’apparire, come dicevamo prima, come la semplice presenza. L’etica è, invece, ciò che voglio farne di questa cosa. Poi, la logica, cioè il ragionamento che mi consente di pensare tutte queste cose. Naturalmente, posta in questi termini, sarebbe la logica, cioè il pensiero, il ragionamento, che potrebbe, con tutte le differenze e i distinguo, essere la sintesi hegeliana, che pone due elementi, in questo caso l’estetica e l’etica, e in qualche modo li assume su di sé. Vediamo cosa ci dice. A pag. 68. Il problema fondamentale dell’etica non è dunque che cosa è giusto, ma: che sono deliberatamente preparato ad accettare come l’asserzione di ciò che sono solito fare? Vedete che qui l’etica è, sì, il che cosa voglio fare di qualche cosa, ma da dove viene questo volere fare se non da un abito? Quando dice che sono deliberatamente preparato ad accettare che cosa mi ha preparato ad accettare se non ciò che sono stato, ciò che ho sempre pensato, ciò che tutti pensano? Verso cosa sono preparato a volgermi (ora), verso cosa in seguito? Verso cosa deve essere diretta la mia forza di volontà? A pag. 69. L’etica – scrive Peirce – chiede a quale fine ogni sforzo sarà diretto. Cioè, che cosa voglio ottenere. Ovviamente tale domanda dipende dall’altra rivolta a ciò che sarebbe quello che, indipendentemente dallo sforzo, noi ameremmo esperire. Ma al fine di stabilire la domanda dell’estetica nella sua purezza, dovremmo eliminare da essa, non soltanto ogni considerazione relativa allo sforzo, ma anche ogni considerazione relativa all’azione e alla reazione, incluso il nostro ricevere piacere, e in breve ogni considerazione relativa a qualsiasi cosa che appartenga alla posizione dell’io e del non io. Qui pone la distanza tanto dall’idealismo quanto da Aristotele, che intendeva l’etica come modo per raggiungere la felicità. Qui non è difficile pensare a Nietzsche, cioè, il mio sforzo sarà diretto verso una certa cosa indipendentemente, dice Peirce, dallo sforzo, dal piacere che ci produce, ma che cosa mi muove verso una certa cosa? La risposta di Nietzsche sarebbe immediata: la volontà di potenza. È l’unica cosa che muove, l’unico motore dell’etica, cioè, del volere fare qualcosa che interessa fare, volere raggiungere, per qualche motivo, un qualche obiettivo. L’obiettivo da raggiungere è il superpotenziamento e il motivo è la volontà di potenza. Poi, considera la questione dell’estetica che, come dicevo prima, fa precedere all’etica. E, infatti, dice …la domanda dell’estetica è: qual è la sola qualità che, nella sua immediata presenza, è καλός? Καλός = bello. L’etica deve dipendere da tale domanda… Perché se io cerco qualche cosa questo qualche cosa deve essere bello per me, non solo… Καλός vuol dire, sì, bello, ma è qualcosa di più, è qualcosa da raggiungere, è qualcosa di irrinunciabile. L’estetica perciò, sebbene io l’abbia terribilmente trascurata, sembra essere la prima indispensabile propedeutica della logica, e la logica dell’estetica una parte distinta della scienza della logica che non dovrebbe essere omessa. Dunque, l’estetica. Che cosa è bello? Io inseguo il bello: questa sarebbe l’etica, inseguire il bello, il piacevole, la felicità, direbbe Aristotele. Che cos’è il bello? Che cos’è la felicità? Questo viene dal modo in cui io percepisco qualche cosa, dal ground, direbbe lui, dal modo in cui qualche cosa mi si presenta nel mondo in cui mi si presenta, e si presenta in un certo modo per via di un abito che io ho acquisito. Quindi, lui considera l’estetica come prioritaria, perché è soltanto dal modo in cui io percepisco qualche cosa che segue poi il volere raggiungere il bene, questa è l’etica, e trovare i modi per farlo, e questa è la logica che mi dice quale via è vera e quale no.

Intervento: …

In ogni caso tutto ciò che interviene e mi fa vedere le cose in un certo modo è il prodotto di mie fantasie, per cui qualcosa mi appare bello in base alle mie fantasie; mi appare bello, quindi, lo inseguo e rovo i modi giusti per raggiungerlo, e questo sarebbe la logica.

Intervento: …

La volontà di potenza non si cura di mirare a qualcosa che sia giusto o ingiusto, ecc. Mira soltanto a ciò che è utilizzabile per raggiungere il superpotenziamento. L’unica cosa che, secondo Nietzsche, muove gli umani è la volontà di potenza, e cioè trovare un qualche cosa che sia utilizzabile per il proprio superpotenziamento. Ora, tenendo conto di Nietzsche e Peirce, ciò che appare bello, il καλός, termine che non è traducibile solo con “bello”, è di più, è per questo che lo lascia in greco, è ciò che mi dà la possibilità, ciò che penso in base ad altre fantasie, mi dia la possibilità di un superpotenziamento, ed è per questo che mi rivolgo a questa cosa. Il volere raggiungere questa cosa, che sarebbe l’etica in Peirce ma, volendo, anche in Nietzsche, un’etica che è al di là del bene e del male; non considera più il bene e il male ma semplicemente ciò che mi consente di utilizzare meglio un qualche cosa per il mio superpotenziamento. Per Peirce, poi, il terzo elemento, la logica, è quella cosa che dovrebbe consentire di stabilire quali sono i modi per raggiungerlo senza sbagliare. Bisogna sempre tenere conto che, sia per quanto riguarda l’estetica sia per quanto riguarda l’etica e, quindi, la logica, ciascuno di questi tre momenti e sempre e comunque sorretto da fantasie, sorretto da quella che Husserl chiamava Lebenswelt, sorretto, quindi, da qualcosa che non ha fondamento e che non è fondabile, e che, dunque, non offre né garantisce alcuna certezza. Se pensiamo il segno, e quindi la parola, così come lo pone Peirce, allora qualunque cosa intervenga in ciò che dico è un qualche cosa che ha valore, direbbe Nietzsche, o è bello, direbbe Peirce, in quanto mi serve per raggiungere il superpotenziamento. L’eventualità che non ci sia alcun altro motivo per parlare è una questione di notevole interesse. È come se in qualche modo il segno, così come lo pone Peirce, fosse come uno specchietto, nel senso di una sinossi, di un riassunto, della volontà di potenza: qualcosa accade nella parola ma questo qualcosa per me è bello se è utile, ma posso pensare che sia utile, o al modo in cui è utile, soltanto attraverso il mio abito, il mio modo di pensare. Ma il mio modo di pensare è fatto in modo tale da costringermi sempre e comunque a perseguire la volontà di potenza. Quindi, qualcosa è quello che è, qualcosa mi appare così come mi appare, per via della volontà di potenza. È questa che poi mi fa dire, che quella certa cosa è una certa cosa, cioè, quella certa cosa mi appare così come mi sta apparendo in questo momento. È la volontà di potenza che mi muove a fare tutte queste cose, perché l’interpretante, l’abito, è il modo in cui io sono avvezzo a pensare, quindi, il modo in cui io sono avvezzo a utilizzare le cose per aumentare la mia potenza. È questo il modo in cui, a mio parere, è possibile intendere la questione del segno in Peirce, e cioè del segno che mostra in atto la volontà di potenza, attraverso l’apparire di ciò che appare, che è tale solo in virtù dell’interpretante, e cioè del mio abito e, quindi, della mia volontà di potenza. Potremmo addirittura considerare l’abito come la volontà di potenza stessa in atto: il mio modo di pensare è ciò che mi induce a cercare un qualche cosa da utilizzare per il superpotenziamento. A pag. 73. Ma che è ciò che “scegliamo di fare”. Che cosa “siamo pronti ad ammirare”? Ecco il problema dell’etica. Peirce si riferisce a due massime di etica tratte da due opere del suo tempo. La prima dice: “Ogni nostra azione dovrebbe essere diretta verso la perpetuazione della specie biologica alla quale apparteniamo”. Peirce chiede sulla base di quale principio possa essere giudicata come una bella cosa la sopravvivenza di una specie: “non vi è dunque nulla nel mondo o in posse che sarebbe ammirevole per sé eccetto la copulazione e lo sciame delle api?”. La seconda massima afferma: “Agisci in modo da trattenere gli impulsi che richiedono una reazione immediata, affinché l’impulso che comanda essendo determinato dall’esistenza di impulsi di minor forza, ma di più vasta portata, possa avere un ampio peso nella guida della tua vita”. Come dire: fai le cose con sentimento in modo da evitare di andare a sbattere il naso da qualche parte. In tal modo, osserva Peirce, viene posta una differenza tra gli impulsi, differenza che dipende dalla loro maggiore o minore importanza. Si suppone, cioè, che vi sia “un qualche ideale stato di cose che, indipendentemente dal come sarebbe conseguito e da ogni e qualsiasi ragione ulteriore, è stato ritenuto buono e bello. Sarebbe il naturalismo. In breve, l’etica deve poggiare su una dottrina che, senza considerare affatto la nostra condotta, divide idealmente i possibili stati di cose in due classi: quelli che sarebbero ammirevoli e quelli che non lo sarebbero, e intraprende a definire con precisione ciò che costituisce come ammirevole un ideale”. Si chiede in base a che cosa, e la sua risposta è: in base all’estetica, in base a ciò che, sì, mi appare, non in base a ciò che è bello per sé ma a ciò che mi appare bello, e mi appare bello per tutte quelle cose che abbiamo dette prima, mi appare bello ciò che mi consente di ottenere un superpotenziamento. È questo che mi appare bello, καλός, che mi appare desiderabile; non è il bello in sé, che non significa niente, che cosa è bello, chi lo stabilisce, per quale motivo? È questa una domanda alla quale non si è mai riusciti a dare una risposta soddisfacente, con tutte le teorie del bello, che poi, di fatto, vanno a finire nella questione dell’arte, arte come fondamento dell’estetica: è lì che si trova il bello, nel progetto artistico. Infatti, Hegel distingueva fra l’estetica e la calistica: l’estetica come scienza delle percezioni, di ciò che viene percepito; la callistica come la percezione del bello. A pag. 75. Poiché la fenomenologia “tratta le Qualità universali dei fenomeni nel loro immediato carattere fenomenale, e cioè tratta le qualità in se stesse in quanto fenomeni”, allora essa tratta i fenomeni “nella loro generalità (Firstness)”. In senso più generale: la fenomenologia è la primalità della filosofia. Così la scienza normativa tratta i fenomeni nella loro secondalità (Secondness), ovvero, come sappiamo, le leggi della relazione dei fenomeni ai fini. Sarebbe l’etica. La scienza normativa è pertanto la secondalità della filosofia. La metafisica tratta infine i fenomeni nella loro terzialità (Thirdness), ovvero nella loro realtà; essa è la terzialità della filosofia. Nella loro realtà, cioè, nella loro verità, il che sarebbe il momento del pensiero, del ragionamento, che mi fa pensare che ciò che appare, nel modo in cui abbiamo detto, sia la realtà.