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7 febbraio 2024

 

Aristotele Topici                                   

 

L’ultimo libro dei Topici non ha un grandissimo interesse teoretico. È una serie di suggerimenti che Aristotele dà per cavarsela in un agone dialettico, ma al di là di questo non ci sono considerazioni di grande interesse. C’è una cosa che mi è apparsa leggendo questo testo, L’aristotelismo presso i greci di Paul Moraux, che merita di essere ascoltata. Parla dell’insegnamento di Aristotele dopo la morte di Aristotele. L’insegnamento di Aristotele non appare come una dottrina di cui appropriarsi per progredire ulteriormente. Non si presenta come il punto di partenza per un proprio filosofare, è considerato piuttosto come fonte della verità in generale. Ciò che conta, dunque, è interpretarlo correttamente, delimitarlo con più esattezza rispetto ad altre scuole e difenderlo da eventuali critiche ed attacchi sistematici. Questa tendenza all’ortodossia, che in Alessandro di Afrodisia ebbe il suo più celebre rappresentante, si affermò per un arco temporale di tre secoli. Dopo tale periodo, obiettivi e tendenze dei commentatori degli scritti aristotelici si modificano. Il neoplatonico Porfirio, come già alcuni medioplatonici prima di lui, tenta di rendere alcune parti della filosofia aristotelica utilizzabili per i platonici. Tra i platonici, ad esempio, poteva essere di grande giovamento la logica aristotelica. Porfirio commentava, dunque, gli scritti logici di Aristotele ad usum platonicorum. Da allora in poi l’aristotelismo conquistò sempre più l’interesse dei neoplatonici. Invece di combatterlo, come aveva fatto spesso Plotino, essi ora lo accettano quasi senza contestazioni. Dopo Porfirio la maggior parte degli interpreti di Aristotele non sono più aristotelici di stretta osservanza, bensì, sorprendentemente, neoplatonici. L’interpretazione neoplatonica di Aristotele raggiunge il suo apice con Ammonio di Ermia e la sua scuola nel V-VI sec. d.C. Nei suoi commentari, estremamente eruditi, per esempio, Simplicio sostiene la tesi secondo cui tra l’aristotelismo e il platonismo non sussisterebbe alcuna differenza sostanziale. Neppure all’attacco frontale di Aristotele contro la dottrina delle idee o contro la cosmogonia del Timeo, Simplicio intende ammettere grande valore. Questa critica, ritiene il commentatore, non sarebbe indirizzata contro lo stesso Platone, bensì riguarderebbe soltanto una interpretazione inadeguata, senz’altro da respingere, del platonismo. Anche la fede cristiana influenzò già presso i Greci l’interpretazione di Aristotele e l’atteggiamento dei commentatori nei confronti dello Stagirita. Giovanni Filopono, per esempio, è consapevole che la fede nei confronti dell’immortalità dell’anima o il racconto di Mosè sulla creazione del mondo sono in contradizione con le tesi aristoteliche. Non vogliamo però addentraci nella problematica, ecc. ecc. Paul Moraux sta dicendo che la lettura di Aristotele è stata fatta sulla base del neoplatonismo. La questione interessante è che Moraux è giunto alle nostre stesse considerazioni facendo un percorso totalmente differente. Noi non abbiamo avuto accesso alla biblioteca dell’Università di Berlino né a quella dell’Università di Ankara, non abbiamo avuto accesso a una infinità di testi scritti in un periodo che va dal I sec a.C. fino al III sec. d.C. e che Moraux invece ha consultati. La sua indagine è in un certo senso più storico-filologica; noi, invece, siamo arrivati attraverso il pensiero teoretico alla stessa considerazione, e cioè il fatto che le cose che Aristotele afferma non hanno nulla a che fare con ciò che di Aristotele è stato tramandato, anzi, spesso vanno in una direzione contraria. Dunque, se Aristotele è stato accolto così bene nel Medio Evo, vuol dire che qualcosa è accaduto ed è accaduto esattamente questo: la lettura, soprattutto delle Categorie, fatta dai neoplatonici, pone la questione della sostanza come l’idea platonica; fatto questo accostamento tutto il resto è poi venuto da sé. A questo punto Aristotele confermerebbe la posizione di Platone. Dicevamo oggi, citando non ricordo bene chi: è come se Aristotele non avesse compreso bene Platone. Invece, lo aveva inteso molto bene, straordinariamente bene. C’è un’altra cosa interessante a conforto di questo e che riguarda Teofrasto. Teofrasto è stato uno scolarca del Peripato, era allievo diretto di Aristotele e ha scritto un breve saggio, Metafisica. Teofrasto compie un’operazione notevole perché era ancora presente il pensiero di Aristotele ovviamente e, quindi, Teofrasto ha ancora nelle orecchie ciò che Aristotele diceva, al punto che nel suo scritto Metafisica giunge a considerare l’impossibilità della conoscenza. Dice che non è possibile e incontra una serie di aporie. Vi faccio un esempio banale, che però non è di Teofrasto: la vita degli animali non va distrutta. Va bene, ma cosa intendiamo con vita? Il fatto che qualcosa nasca, si riproduca e muoia? Anche le piante lo fanno ma non diciamo che vivono nel senso degli animali, quindi, ci vuole qualcosa in più. Che sono senzienti, diceva Aristotele. Ma cosa intendiamo con senzienti? In che modo sono senzienti? E così si va avanti. In questo modo non c’è più la possibilità di conoscere perché ciascuna cosa, ciascun uno si frammenta in una infinità di molti, al punto che alla fine la causa, che si suppone che ci sia e dalla quale si parte, non si trova. Perché esiste la Via Lattea? Dove va e a che scopo? Queste domande, che non hanno nessuna risposta, dice Teofrasto con ancora nelle orecchie le parole di Aristotele, sono alla base di ogni cosa, quindi, non c’è nessun principio di causalità. E, infatti, a un certo punto sembra quasi evocare Democrito e, infatti, lo cita alla fine. Lo cita senza dargli propriamente ragione – non poteva farlo per una serie di motivi – ma non gli dà nemmeno torto. Questo è ciò che accadeva subito dopo la morte di Aristotele prima che succedesse quello che ci ha raccontato Moraux, e cioè che il neoplatonismo si è impossessato di Aristotele. Ma prima ancora Filone di Alessandria: è lui che ha voluto connettere, o trovare una possibile eventuale connessione, tra la Bibbia e il pensiero greco. Ecco, quindi, che cosa è accaduto all’origine. Giungere a questa consapevolezza, e cioè che Aristotele è stato letto attraverso il neoplatonismo, è importante, anche se Moraux non ne coglie tutti gli aspetti e tutte le implicazioni, perché è come se si avesse voluto eliminare Aristotele. Come? Era troppo importante per fare come si è fatto con i sofisti o con Eraclito, bisognava trovare un altro modo, bisognava semplicemente dire che Aristotele va letto in questo modo, va letto correttamente, come se Platone integrasse Aristotele.

Intervento: Anche le varie traduzioni di Aristotele debbono avere risentito dell’influsso del neoplatonismo.

Proprio per questo motivo ho voluto il testo greco. Anche queste piccole cose come il tradurre le “realtà”, come fanno qui i traduttori dell’Organon e di cui Aristotele non parla minimamente, parla di πράγματα, ma πράγματα sono le cose. Oggi il termine realtà, il modo in cui pensiamo il concetto di realtà, ha un’accezione che non esisteva ai tempi di Aristotele.

Intervento: La stessa traduzione di ἒν πάντα εἰναι.

Certo, il famoso lapsus di Diels. Non è un errore grammaticale, lui conosceva bene il greco antico, è un errore ideologico. Lui stesso si era formato pensando questo, pensando in modo platonico.

Intervento: Lo stesso testo greco non sappiamo se sia l’originale di Aristotele o se nel tempo è stato emendato.

È possibile anche questo, certo. Come dicevo, lo stesso Diels pensava in questo modo. I testi di Aristotele hanno subito delle traversie inenarrabili, contrariamente a quelli di Platone, che ci sono giunti integri; quelli di Aristotele, ancora oggi che parliamo, di alcune parti dei suoi testi si discute se siano autentici oppure no, se siano frutto di manipolazioni, di interpolazioni, di aggiunte, ecc.

Intervento: Il fatto che Diels abbia tradotto πάντα con “tutto” anziché come “tutte le cose” fa pensare che per lui, che sapeva bene il greco, una cosa valesse l’altra, che “tutto” corrisponda a “tutte le cose”, che una traduzione valesse l’altra.

È questo il pensiero che ha prevalso, quello di Platone attraverso i neoplatonici. Ma ancora oggi, pensate a Severino, morto pochi anni fa, e alla sua idea per cui tutti gli astratti debbano diventare il concreto, debbano diventare l’uno; ma tutti gli astratti a questo punto scompaiono, non ci sono più, perché sono tutti integrati nell’uno, nel concreto. in Severino è ancora presente questa impostazione neoplatonica.

Intervento: “Tutte le cose” non sono il “tutto”.

Ancora in Platone la cosa era presente perché lui teneva separato l’uno, che è il Bene, dai molti, che sono il male. In Platone c’è comunque questa divisione, mentre in Plotino no; Plotino integra i molti in quanto li fa procedere dall’Uno, da Dio, che genera tutto quanto a cascata, genera i molti, che a questo punto diventano controllati, gestiti, dominati, ecc. I molti per Plotino non costituiscono più un problema, come invece costituivano ancora per Platone: non sono più il male, vengono dall’Uno, sono dominati dall’Uno e, quindi, non sono più necessariamente il male. Ecco il pensiero che a tutt’oggi persiste. Il cristianesimo è sorto sul neoplatonismo e il pensiero che oggi chiunque pratica è il pensiero cristiano, indipendentemente dal fatto che ci si proclami o no cristiani, che è la struttura stessa del nostro modo di pensare. Dopo Plotino si è stati “costretti” a pensare in quel modo: eliminato Aristotele, eliminati i presocratici, il campo era sgombro, si poteva procedere tranquillamente. Era sgombro da ogni pensiero teoretico che avrebbe potuto con forza minare questa idea dell’Uno-Tutto, che, come sappiamo, Plotino pone come ipostasi, cioè, è così perché è così… Potremmo dire che senza Plotino neanche il cristianesimo… Certo, Paolo ha dato l’impronta e la direzione, però, senza una base teorica, fornita dal neoplatonismo, difficilmente si sarebbe potuto creare un sistema così completo.

Intervento: Si potrebbe anche pensare al contrario, che sia stato il neoplatonismo a trovare nel cristianesimo una qualche opportunità…

Difficile a dirsi. È possibile. Questo si riuscirà a vederlo un po’ leggendo Plotino e i suoi riferimenti.

Intervento: Bisognerebbe leggere il Contro i cristiani di Porfirio…

Se Porfirio avesse preso veramente qualcosa dal cristianesimo, forse avrebbe avuto un occhio di riguardo nei confronti di queste sette. Verrebbe da pensare che il cristianesimo abbia preso piede dopo Plotino.

Intervento: Però in ambito filosofico che era tutto sommato predisposto…

Questo è possibile, certo. C’è poi Agostino, che aveva conosciuto gli scritti di Plotino, il suo pensiero ha dominato grosso modo sino all’anno mille, sino a quando sono arrivati emendati testi di Aristotele. Poi, tutto il Basso Medioevo è stato “aristotelico”; dico tra virgolette perché, di fatto, non Aristotele non è stato letto da nessuno. Ha avuto la benedizione di Tommaso: la logica ce l’ha data Dio per conoscerlo meglio e venerarlo con maggiore consapevolezza; quindi, la logica come Dio, mentre per Agostino la logica poteva essere sì utile ma era la fede ciò che consentiva l’accesso a Dio, sicuramente non la logica. Per Tommaso, invece, sì. Ma quale logica? Non certo quella di Aristotele. Lo stesso Anselmo d’Aosta ha letto Aristotele attraverso i neoplatonici, al di là del fatto che Aristotele è passato dal greco all’arabo, dall’arabo al latino. Anche questo è un dettaglio di cui tenere conto: il copista è lì che scrive e magari scrive una parola al posto di un’altra. Questo per dire che può essere capitato di tutto ai testi di Aristotele. Come dicevo prima, ancora oggi non siamo certi di alcune parti – una di queste sono le Categorie –, non c’è la certezza; molti obiettano, rispetto alle Categorie, che non è lo stile di Aristotele, in quanto troppo freddo, preciso, quasi asettico e che non si combina bene con gli altri scritti di Aristotele. Poi, ciascuno ci mette le proprie fantasie, è chiaro, ma sia come sia… Per Platone, invece, no, ciò che ha scritto ci è giunto integro. Ora, qui ci sono alcuni suggerimenti che Aristotele fornisce per chi vuole combattere dialetticamente. A pag. 1577. Dopo di ciò si deve parlare dell’ordine degli argomenti e del modo in cui si deve interrogare. Ora, chi si propone di dare una forma alle domande, dovrà innanzitutto individuare lo schema da cui è necessario che prenda le mosse il suo attacco e, in secondo luogo, dovrà formulare mentalmente le domande e, sempre mentalmente, dovrà mettere in ordine gli argomenti uno ad uno e infine, in terzo luogo, dovrà dire queste cose ad un’altra persona. Pertanto, fino al punto in cui viene individuato lo schema, la ricerca è la stessa sia per il filosofo sia per il dialettico. Invece quello che viene dopo, cioè, ordinare gli argomenti e formulare le domande, costituisce il compito specifico del dialettico: infatti, tutto questo implica il rapporto con un altro individuo. Al filosofo, al contrario, e in generale a che ricerca da solo, quando le premesse da cui deriva il sillogismo siano vere e note, è del tutto indifferente che chi risponde non le conceda, per il fatto che esse sono troppo vicine all’affermazione iniziale ed egli prevede facilmente che cosa ne deriverà. In questo caso, anzi, il filosofo si darà da fare, probabilmente, perché gli assiomi siano il più possibile noti e vicini all’affermazione iniziale. Infatti, da queste premesse derivano i sillogismi scientifici. Più vicini e più noti, dice. Ma questo “noti” sappiamo di che cosa è fatto: noti a chi e perché? È la δόξα, ovviamente. Poi, suggerisce di usare proposizioni che tendono a nascondere la conclusione in modo che l’altro, mentre ascolta, non prepari già tutte le sue controargomentazioni. A pag. 1583. Inoltre, è utile non assumere in ordine e di seguito le proposizioni da cui si sviluppano i sillogismi; piuttosto, sarà bene accostare di volta in volta una premessa che si riferisce ad una certa conclusione ad una premessa che si riferisce ad un’altra conclusione. Si tratta di confondere l’avversario, di fare in modo che non percepisca dove vogliamo andare a parare; sempre per il motivo che, se lui capisce dove vogliamo andare a parare, preparerà tutte le contro obiezioni. Inoltre, quando ciò sia possibile, occorre anche stabilire la premessa universale mediante una definizione, non usando però i termini stressi di questa, ma i termini linguisticamente collegati. Sempre per lo stesso motivo. Infatti, se la definizione è stata formulata in questo modo, colui che risponde cade naturalmente in errore, quasi che con ciò non ammettesse la premessa universale. Ciò avviene, ad esempio, se bisogna stabilire che “chi si arrabbia tende a vendicarsi per una manifestazione di disprezzo” e invece si sostenga che “l’ira è la tendenza a vendicarsi per una manifestazione di disprezzo”. Mostrare una proposizione particolare come universale. “L’ira è la tendenza a vendicarsi…” è una proposizione universale, non è riferita a qualcuno, ma se l’altro accoglie questo universale dovrà per forza accogliere anche la particolare. In fondo, si tratta sempre di questo, di introdurre un particolare sotto forma di universale; se è universale l’altro lo accoglie, perché l’universale è ciò che i più pensano, quindi, anche lui, per forza, altrimenti, se non lo accoglie, si mette contro il pensare comune, dovendo poi dimostrare che il suo pensiero è migliore del pensare comune, trovandosi in questo caso in difficoltà. A pag. 1585. Inoltre, bisogna condurre la ricerca facendo attenzione alla somiglianza; infatti, ciò risulta essere persuasivo e, d’altro canto, in questo modo viene a essere dissimulata meglio la premessa universale. La premessa universale viene fatta passare attraverso la somiglianza: questo assomiglia a quest’altro, quindi, sarà come quest’altro. Ad esempio, si dirà che, siccome i contrari sono oggetto della stessa scienza e della stessa ignoranza, così, allo stesso modo, essi saranno pure oggetto della stessa sensazione; oppure, viceversa, si dirà che siccome i contrari sono oggetto della stessa sensazione, saranno anche oggetto della stessa scienza. La somiglianza, la similitudine: qui l’analogia domina su tutto. D’altro canto, chi interroga deve, qualche volta, anche rivolgere un’obiezione a se stesso; infatti, coloro che devono rispondere perdona la loro diffidenza se si trovano di fronte a individui che danno l’impressione di disputare in modo corretto. A pag. 1587. È anche bene presentare con un paragone quanto si vuole stabilire… Vedete quanto è presente l’analogia, i paragoni, ecc., si gioca tutto su questo. …in realtà l’avversario concede più facilmente ciò che viene prospettato a causa di qualcos’altro e che, di per sé, non è direttamente utile a contestare la tesi. /…/ Occorre anche domandare come ultima cosa quella che si vuole stabilire al di sopra di ogni altra; infatti, l’avversario si oppone soprattutto alle prime domande, visto che quasi tutti coloro che interrogano propongono innanzitutto ciò che sta loro più a cuore. La cosa più importante occorre farla arrivare poco per volta, piano piano, alla fine. Questo sempre per lo stesso motivo: non fornire all’avversario la possibilità di trovare argomenti contro di me. Per questa ragione, coloro che interrogano, talvolta non si accorgono neppure di insinuare nel discorso, a latere, alcune proposizioni che, se presentate in quanto tali, non sarebbero mai accettate dall’avversario. È tutto su questo tono, sono consigli pratici per dibattere, non c’è nessun pensiero teoretico. A pag. 1589. …il distinguere le realtà che rientrano nel medesimo genere consiste, ad esempio, nel dire che una scienza è migliore di un’altra scienza o perché è più rigorosa o perché si rivolge a realtà migliori, come accade quando si afferma che le scienze si dividono in teoretiche, pratiche e produttive. Ogni distinzione di questo tipo, infatti, contribuisce ad abbellire il discorso, anche se non è necessario formularla allo scopo di raggiungere la conclusione. Abbellisce il discorso, quindi, distrae l’avversario. Un discorso bello, ben costruito, piacevole da ascoltare, diventa molto più facilmente vero rispetto a un altro. La scuola di Chartres, nel XIII-XIV secolo, ci aveva costruito sopra una teoria che si trova in uno scritto che si chiama, se non ricordo male, Il bello come vero. …in alcuni casi, è possibile giungere attraverso l’induzione a porre la domanda da cui, se viene dato l’assenso, viene tratta la premessa universale. Altre volte, invece, la cosa non è facile, non essendoci un unico nome per tutte le realtà simili, e quando occorre stabilire la premessa universale, che interroga deve dire: “così avviene in tutti i casi simili”. In modo da prevenire il fatto che qualcuno possa dire “sì, in questo caso, certo, ma in altri casi no”; “no, avviene così in tutti i casi simili”. A pag. 1591. Quando, poi, si proceda in modo induttivo passando attraverso molti casi e l’avversario non conceda la premessa universale, allora sarà giusto esigere che venga fatta un’obiezione. Se l’altro mi obietta qualche cosa rispetto alla premessa universale, che è quella accolta da tutti, a questo punto non è più come se dovese rispondere a me ma al pensiero di tutti, a ciò che pensano tutti. Se invece l’avversario, senza ricorrere ad un’omonimia, muove l’obiezione direttamente contro la premessa e in questo modo viene a bloccare l’interrogazione, si dovrà lasciar cadere l’elemento colpito dall’obiezione e ripresentare quanto rimane della proposizione rendendolo universale, fino a che venga stabilito ciò che serve per arrivare alla conclusione. Come dire “sì, ti concedo questo, però, il resto rimane”, e se rimane il resto allora… Sono tutti trucchetti retorici. A pag. 1593. In effetti, una volta tolto l’elemento che sarebbe eventualmente colpito dall’obiezione, l’avversario sarà costretto a concedere la proposizione, dato che nella parte che rimane non avrà previsto quali siano i casi in cui si possa dire in modo diverso. Cioè: io ti concedo questo perché penso di potere gestire il resto. A pag. 1595. …non c’è contestazione possibile contro chi ha dedotto la conclusione a prescindere dall’argomentazione per assurdo: quando, invece, uno abbia usato questa giungendo a una conclusione assurda, l’avversario, a meno che la falsità della stessa non sia evidente, affermerà che essa non è assurda, e quindi chi interroga non riuscirà a realizzare ciò che si propone. Io faccio un esempio che pare assurdo per avvalorare la mia tesi; come dire “se non accogli ciò che io dico, le conclusioni sono assurde”; l’altro dice “no, non sono assurde perché…” e farà un controesempio per cui in un certo caso è avvenuto ecc. ecc. e, quindi, lo ostacolerà. A pag. 1597. Inoltre, sono le stesse le formulazioni “facilmente attaccabili” e quelle “facilmente difendibili”. Si tratta, infatti, di quelle che sono “prime” e di quelle che sono “ultime” per natura. Infatti, le proposizioni prime esigono una definizione, mentre le ultime sono dedotte come conclusioni attraverso molti termini medi da parte di chi voglia stabilire una continuità che si riferisca alle proposizioni prime. A pag. 1599. Questa è un’altra questione che può essere usata sia a favore sia contro. …tra tutte le definizioni quelle più difficilmente attaccabili sono quelle formulate in termini tali che risulta anzitutto oscuro se debbano intendersi in un solo significato o in più significati, e, oltre a ciò, non si comprende neppure se chi definisce abbia parlato “in senso proprio” o “in senso metaforico”. Infatti, da un lato, tali definizioni, a causa della loro oscurità, non sono soggette ad attacchi precisi, e d’altro canto possono essere criticate perché non si è sicuri del fatto che l’oscurità derivi da una espressione metaforica. Questa tecnica viene talvolta utilizzata in ambito teorico, quando si costruisce una teoria: si utilizzano parole che possono avere molti significati, possono cioè essere utilizzate in molti modi, e allora uno attacca dicendo che l’altro ha usato una parola in quel modo e l’altro si difende dicendo che no, non l’ha utilizzata in quel modo ma in un altro; in questo modo l’attacco è inefficace. A pag. 1605. …è necessario che chi risponde sostenga il discorso, difendendolo, dopo aver stabilito una tesi che risulterà (1) o “fondata” sull’opinione condivisa, (2) o “non fondata” sull’opinione condivisa, (3) o né l’una né l’altra cosa e, inoltre, (4) o non fondata sull’opinione in assoluto, (5) o non fondata sull’opinione condivisa rispetto ad un elemento specifico, come ad esempio, fondata o non fondata sull’opinione di una persona specifica, o di chi risponde o di qualcun altro. In che modo, poi, la tesi risulti fondata o non fondata sull’opinione, non ha alcuna importanza perché il rispondere correttamente e il dare o non dare l’assenso a ciò che viene domandato dovranno, in ogni caso, seguire la stessa regola. Ora, quando la tesi non sia fondata sull’opinione, sarà necessario che lo sia la conclusione del sillogismo di chi interroga; quando invece la tesi sia fondata sull’opinione, non lo sarà la conclusione. O muovo dall’assenso generale, e allora da lì deduco la conclusione, oppure non muovo da una premessa condivisa, per esempio per mostrare qualcosa di nuovo, una tesi che va contro il pensare comune ma che va comunque presa in considerazione, e allora anche la conclusione sarà qualcosa che non è nel pensare comune. A pag. 1607. Nel caso, poi, che chi risponde difenda l’opinione di un altro, evidentemente egli dovrà concedere o negare ogni proposizione, tenendo presente il modo di pensare di quest’altro. Per questo motivo, anche coloro che riportano le opinioni altrui, dicendo, per esempio, che bene e male sono la stessa cosa, come ad esempio fa Eraclito, si rifiutano di ammettere l’impossibilità, per i contrari, di appartenere, nello stesso tempo, allo stesso soggetto, non perché questo sembri loro inaccettabile, ma perché, seguendo il ragionamento di Eraclito, si deve rispondere così. Non sono io che sto dicendo questo, ma queste conclusioni sono quelle stesse che avrebbe poste Eraclito. Come avrete inteso è un po’ tutto sullo stesso tono. A pag. 1613. …il bloccare l’argomentazione senza il sostegno di un’obiezione, reale o apparente che sia, significa comportarsi in modo irritante. E, allora, se attraverso molte domande particolari si manifesta la premessa universale e chi risponde non la concede, pur senza disporre di un’obiezione, sarà evidente che costui non rispetta le regole di una corretta discussione. Se, poi, chi risponde non sa nemmeno contrattaccare, dimostrando che la premessa in questione non è vera, il suo comportamento risulterà ancora più irritante. (D’altronde neppure questo contrattacco sarebbe sufficiente: infatti, noi possiamo avere a disposizione molte argomentazioni che si contrappongono alle opinioni e che sono difficilmente risolvibili, come ad esempio nell’argomentazione di Zenone, secondo cui nulla può muoversi nel percorrere lo stadio, ma non per questo si dovrà rifiutare l’assenso alle premesse che si contrappongono a questi discorsi). In conclusione: se chi risponde non concede la premessa, senza disporre di un’obiezione né di un argomento per contrattaccare, è chiaro che non rispetta le regole di una discussione corretta: questa mancanza di attenzione consiste, infatti, nel rispondere in modo diverso da quelli che abbiamo detto e tale da provocare il fallimento del sillogismo. Questa è una questione sulla quale si potrebbe discutere perché, in effetti, è lui che stabilisce le regole della conversazione. I sofisti, per esempio, non sempre accettavano le regole, anzi, mettevano discussione le regole stesse, imposte al dibattito. È chiaro, quindi, che a questo punto succede il marasma perché, se per Aristotele non si rispettano le regole della conversazione, allora c’è il fallimento del sillogismo. Inoltre, chi risponde deve difendere sia la tesi sia la definizione, formulando mentalmente gli attacchi che possono essere mossi contro di esse. Infatti, è chiaro che egli deve trovare il modo di opporsi a quegli argomenti da cui, coloro che devono interrogare, partono per demolire la tesi stabilita. È come se nelle dispute – in questo gli antichi erano abbastanza abili – prima uno dovesse pensare a tutto il dibattito, riflettere sulle tesi e su tutte le obiezioni e alle possibili contro obiezioni, cioè, il discorso doveva essere costruito in toto: più riesce a costruirlo bene e più è probabile la vittoria. A pag. 1625. Quando si dimostra qualcosa attraverso l’argomento di cui si tratta mediante un’altra proposizione che non sta in alcun modo in rapporto con la conclusione, lo stesso sillogismo non potrà dedurre quest’altra proposizione. Quando, però, la cosa sembri avvenire, si tratta di un sofisma e non di una dimostrazione. Quindi, l’argomentazione filosofica costituisce un sillogismo dimostrativo, l’attacco è un sillogismo dialettico, il sofisma è un sillogismo eristico, e la difficoltà è un sillogismo dialettico che deduce due proposizioni contraddittorie. Del sofisma, del sillogismo eristico, Aristotele si occuperà nelle Confutazioni sofistiche. Vedremo che, sì, le confuta ma fino a un certo punto. Anche qui sembra che Aristotele segua un po’ la vicenda di Platone: si scagliava contro i sofisti, voleva distruggerli, ma non gli riesce.