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7 febbraio 2018

 

M. Heidegger, Essere e Tempo

 

Siamo a pag. 501, a – Il concetto del tempo in Hegel. Il “tempo” è studiato assieme al “luogo” e al “movimento”. Hegel mette insieme queste due cose, il luogo e il movimento. A pag. 502 dice L’accoppiamento di spazio e tempo in Hegel non ha il significato di un semplice accostamento estrinseco: lo spazio “e anche il tempo”. “La filosofia respinge questo ‘anche’.” Il passaggio dallo spazio al tempo non significa la semplice successione dei paragrafi che trattano di essi, ma “è lo spazio stesso che trapassa”. Lo spazio “è” tempo, cioè il tempo è la “verità” dello spazio. Se lo spazio è pensato dialetticamente in ciò che esso è, dello spazio si rivela, secondo Hegel, come tempo. Come deve essere lo spazio? Ovviamente, parlando di Hegel si parla della dialettica hegeliana. Anche Hegel ha operato una rivoluzione nell’ambito filosofico rispetto al vero e al falso. Prima di Hegel si era sempre considerato che il vero fosse in opposizione al falso, secondo la tradizione antica che risale ad Aristotele, una certa affermazione o è vera o è falsa, tertium non datur, non si dà una terza possibilità. Tra l’altro questo ha consentito, dopo Hegel, una serie di studi intorno alla logica polivalente, cioè che non si basa più soltanto sul concetto di vero o falso ma inserisce un terzo elemento, per esempio, vero e falso simultaneamente. Come fa Hegel a fare questo passaggio? Per dirla in due parole, lui pensa che tutto ciò che è considerato il negativo, rispetto a un positivo, non sia un qualcosa da eliminare ma qualcosa che è da superare, cioè è come se anche il negativo avesse una sua validità, una sua dignità, e che soltanto componendo questi due elementi, vero e falso, sia possibile giungere a una sintesi di queste cose, che costituisce un terzo elemento. Faccio un esempio. Prendiamo un boccio, questo diventa fiore e poi frutto. Il boccio sarebbe l’aspetto positivo, quello che sorge, che inizia; poi, c’è il fiore ma il fiore non è che neghi il boccio, quindi lo elimini, semplicemente lo trapassa, va oltre, ma per andare oltre necessita di questa cosa, così come il frutto, per farsi, ha bisogno tanto del boccio quanto del fiore, non può il frutto sorgere ex nihilo. Il frutto sorge da queste cose, dal boccio e dal fiore, che sono sì la negazione del frutto, perché il boccio non è il frutto, ma la sintesi mantiene entrambe le cose. Non si può togliere ciò che nega il frutto, cioè il boccio o il fiore, perché se si toglie uno si toglie tutto. Questo modo di trapassare dal positivo al negativo, e quindi alla sintesi, è ciò che è noto come dialettica hegeliana. La sintesi, l’ultimo passaggio, sarebbe la negazione della negazione: il fiore nega il boccio, lo nega in quanto altro dal boccio, e la sintesi nega la negazione, cioè si pone come altro rispetto alla negazione. Dette queste poche cose per intendere quanto diremo in seguito, Heidegger prosegue dicendo Lo spazio è “l’immediata indifferenza dell’esser-fuori-di-sé della natura”. Lo spazio è l’indifferenziato esser fuori di sé della natura, cioè c’è un qualche cosa e tutto ciò che è fuori è spazio: ciò che non è spazio è un qualche cosa, ciò che è fuori da qualche cosa è spazio. Il che vuol dire: lo spazio è la molteplicità astratta dei punti in esso differenziabili. Per Hegel questo spazio è dato da una serie di punti non differenziabili tra loro. Lui pensa lo spazio in questo modo, come una serie di punti. Lo spazio non è reso discontinuo da questi punti, ma neppure scaturisce da essi e tanto meno per riunione. Lo spazio, differenziato da punti differenziabili, punti che sono essi stessi spazio, rimane da parte sua indifferenziato. Quindi, lo spazio è fatto di punti indifferenziati ma questi punti non sono propriamente lo spazio, sono punti, ma questi punti costituiscono lo spazio. Tuttavia il punto, in quanto differenzia in generale qualcosa nello spazio, è negazione dello spazio… perché il punto non è spazio. Dice che lo spazio è fatto di punti ma ciascun punto in sé nega lo spazio, perché non è spazio ma un punto. Quindi, vedete, c’è un elemento, la tesi e l’antitesi, la tesi (letteralmente, ciò che si pone) è il punto, l’antitesi è la sua negazione, il punto non è lo spazio e lo spazio non è il punto. …ma in modo tale che il punto, in quanto è questa negazione (il punto dopo tutto è spazio), resta esso stesso nello spazio. Il punto non si toglie dallo spazio come altro rispetto allo spazio stesso. Lo spazio è esteriorità reciproca indifferenziata della molteplicità dei punti. sta continuando a dirci che il punto è lo spazio ma che anche non è spazio. È spazio perché nello spazio ma non è spazio. Vedete che c’è una cosa che è quella che è ma che non è quella che è. Qui si fonda la proposizione in cui Hegel pensa lo spazio nella sua verità, cioè come tempo. Adesso vedremo perché. Qui cita Hegel. “La negatività, che si riferisce come punto allo spazio e sviluppa in esso le sue determinazioni come linea e superficie, è però nella sfera dell’esteriorità altresì per sé, e pone dentro di essa le sue determinazioni, ma al tempo stesso come nella sfera dell’esteriorità; e vi appare come indifferente rispetto alla giustapposizione immobile. La negatività, posta così per sé, è il tempo”. Sta dicendo che la negatività, che è riferita come il punto rispetto allo spazio e allo spazio rispetto al punto, pone all’interno di essa le sue determinazioni, ma anche all’esterno. Il punto è la negazione dello spazio, così come lo spazio è la negazione del punto. Dice che il punto vi appare come indifferente rispetto alla giustapposizione immobile, quindi, il punto appare come immobile, questa è la cosa più importante, e conclude così La negatività, posta così per sé, è il tempo. La negatività, cioè ciò che si oppone a qualche cosa e, opponendosi a un qualche cosa, costituisce un che di immobile, così come il punto è immobile rispetto allo spazio e come anche lo spazio è immobile rispetto al punto. Se lo spazio è rappresentato, cioè intuito immediatamente nella sussistenza indifferente delle sue differenze, le negazioni sono in un certo modo semplicemente date. Ma questa rappresentazione non coglie ancora lo spazio nel suo essere. Ciò è possibile solo nel pensiero come sintesi… Ricordate che solo il pensiero compie la sintesi e niente altro. …che, attraverso tesi e antitesi, giunge al loro superamento. Quindi, occorre il pensiero perché qualcosa giunga al loro superamento. Lo spazio è pensato, e con ciò afferrato nel suo essere, solo quando le negazioni non sono semplicemente lasciate sussistere nella loro indifferenza, ma superate, cioè a loro volta negate. Sta dicendo che perché ci sia la negazione della negazione occorre che ci sia il pensiero, è il pensiero che compie la negazione della negazione, cioè la sintesi. Nella negazione della negazione (cioè della puntualità) il punto si pone per sé, e di conseguenza esce dall’indifferenza del suo sussistere. Finché non c’è la sintesi c’è una sorta di indifferenza della cosa, nel senso che non è ancora giunta al suo compimento. Potremmo dire che c’è dell’indifferenza nel boccio perché è ancora non si è compiuto, così come il fiore; arrivato al frutto c’è il compimento. Ecco, qui arriviamo al punto centrale della questione. Questa negazione della negazione in quanto puntualità è, secondo Hegel, il tempo. Se tutto ciò ha un senso, non può voler dire che questo: l’autoporsi per sé di ogni punto è un ora-qui, ora-qui, e così via. Cioè, l’autoporsi di un punto, che appare, come ad esempio il boccio, è un ora-qui, ora, adesso, qui. Ogni punto, posto per sé, “è” un punto-ora. “Il punto ha quindi la sua realtà nel tempo”. Perché questo punto, per essere questo punto qui, deve essere qui, adesso, qui ora. Ecco, questo è l’aggancio con il tempo: il punto qui-ora. Ciò mediante cui il punto, in quanto è questo punto qui, può porsi per sé, è sempre un “ora”. Questa condizione di possibilità costituisce l’essere del punto, essere che è egualmente il suo essere-pensato. Pertanto, poiché il pensiero puro della puntualità, cioè dello spazio, “pensa” sempre l’“ora” e l’esteriorità dell’“ora”, lo spazio “è” il tempo. Il punto lo pensa come “ora” ma anche la sua negazione, cioè lo spazio che c’è intorno al punto è pensato in un “ora”, qui, adesso. “Il tempo, in quanto unità negativa dell’esteriorità, è parimenti alcunché di semplicemente astratto, di ideale. Dice unità negativa dell’esteriorità: l’esteriorità è la negazione della tesi rispetto al punto, quindi, siamo alla negazione della negazione. Il tempo è l’essere che mentre è non è, e mentre non è è… Il punto è quello che è a condizione di essere ciò che non è, perché il punto è, come diceva prima, anche la sua esteriorità, perché senza lo spazio io non posso individuare nessun punto. Quindi, il punto comporta necessariamente lo spazio, ma il punto lo posso cogliere solo in un punto-ora. …il divenire intuito… Intuisco questo divenire continuo di ciò che è ma che allo stesso tempo non è, tesi e antitesi: il boccio non è il fiore ma è anche il fiore, perché senza il boccio non c’è nessun fiore, e viceversa. …il che vuol dire che le differenze semplicemente momentanee, che si negano immediatamente, sono determinate come estrinseche a se stesse. In questa interpretazione il tempo si rivela come “il divenire intuito”. (pagg. 503-504) In questo movimento che è nota al mondo come dialettica hegeliana. Divenire significa per Hegel trapassare dall’essere al nulla o dal nulla all’essere. Esattamente quello che nega Severino. Per Severino questo che sta dicendo Heidegger, ripetendo Hegel, è la follia: pensare che l’essere sia e anche che non sia. Divenire è tanto il sorgere che il passare. Ad esempio, il fiore sorge dal boccio e trapassa nel frutto. “Trapassano” o l’essere o il non essere. Il boccio è ma anche non è, perché quando trapassa nel fiore non è più boccio, è un fiore. Che significa ciò rispetto al tempo? L’essere del tempo è l’“ora”… La sostanza del tempo è l’“ora”, l’adesso; è con questo che ho a che fare, è questo che ho davanti a me: l’ora, l’adesso, non ho il passato davanti agli occhi e nemmeno il futuro. …ma poiché ogni “ora” è, ora, anche già non-più e rispettivamente prima d’ora non-è-ancora, esso può anche essere concepito come non-essere. Ecco l’essere che è non essere, l’ora è anche già non più. Pensate anche solo al fatto banalissimo: dico ora, questo ora comporta un lasso di tempo, al termine del mio dire “ora” non è più ora. Quindi, questo è il nocciolo della dialettica hegeliana: l’essere trapassa nel non essere continuamente, il non essere trapassa nell’essere. Il tempo è il divenire “intuito”, cioè il trapasso, non pensato, ma che semplicemente si offre nella successione degli “ora”. Che è la definizione di tempo più tradizionale che ci sia, una successione di stati, di punti. Determinare l’essenza del tempo come “divenire intuito” rivela che il tempo è primariamente compreso in base all’“ora”, e precisamente quale risulta dall’intuizione pura. Io ho soltanto l’“ora”, l’adesso, davanti a me. Un po' più avanti, cita Hegel. “L’“ora” ha uno straordinario privilegio; esso “è” null’altro che singolo “ora”, ma questo escludente, nel porsi in evidenza, è dissolto, liquefatto e polverizzato mentre lo esprimo”. Come dicevo prima, mentre dico “ora” questo ora che sto dicendo è liquefatto, è dissolto. “Del resto, nella natura, dove il tempo è l’“ora”, non si giunge a una differenziazione “stabile” di quelle dimensioni (passato e avvenire). Come dire che senza linguaggio non c’è né futuro né passato, non c’è nemmeno il presente, c’è un “ora” che è indifferenziato. È una considerazione che faceva anche Sini tempo fa: un animale non ha un presente o un futuro, per questo non muore, un animale non muore, non può morire perché non vive, non ha il concetto di vita. Non c’è un prima o un dopo, ci sono soltanto degli “ora” ma questi “ora” sono lui stesso, non c’è una distanza. Il linguaggio pone una distanza, tolto il linguaggio si toglie la distanza. È sempre Hegel che parla. “In senso positivo si può dire del tempo: solo il presente è, il prima e il poi non sono; ma il presente concreto è il risultato del passato ed è gravido di avvenire. Il vero presente è quindi l’eternità.” Nel presente è compreso tanto il passato quanto il futuro. A pag. 505. L’espressione più adeguata della concezione hegeliana del tempo consiste quindi nella determinazione del tempo come negazione della negazione (cioè della puntualità). Qui la successione degli “ora” è formalizzata all’estremo e livellata in modo insuperabile. Solo in base a un concetto dialettico-formale del tempo di questo genere Hegel può stabilire una connessione fra tempo e spirito. Solo in base alla sua dialettica può stabilire questa connessione tra tempo e spirito, il pensiero, perché il pensiero ha qui davanti un “ora”, un adesso, e cioè un punto, ma questo punto è fatto anche di alterità, cioè di spazio, quindi, di alterazione del punto. È soltanto negando questa negazione che io posso sintetizzare, e cioè costruire un pensiero intorno a questo e a qualunque altra cosa, ma soltanto se colgo entrambe le cose, cioè il punto e lo spazio, l’“ora” ma anche il passato e il futuro. Passiamo a pag. 506, al punto b – L’interpretazione hegeliana della connessione fra tempo e spirito. Lo spirito è il pensiero. Com’è concepito lo spirito perché sia possibile sostenere che gli si addice, con la sua realizzazione, di cadere nel tempo determinato come negazione della negazione? Sta dicendo: perché Hegel sta parlando dello spirito connesso al tempo e pensare quindi lo spirito, il pensiero, come negazione della negazione? Che è vero, perché senza negazione della negazione, sempre attenendoci a Hegel, non ci sarebbe pensiero, così come senza lo spazio non ci sarebbe il punto, e senza un punto che individui un qualche cosa non c’è nemmeno lo spazio. L’essenza dello spirito è il concetto. Con questa espressione Hegel non intende l’universalità intuita di un genere quale forma di un pensato; ma la forma del pensiero pensante se stesso: l’autoconcepirsi come comprensione del non-io. Incomincia a porsi un’altra questione: l’io e il non io, il punto e lo spazio, ciò che è intrinseco e ciò che è estrinseco. Poiché la comprensione del non-io costituisce un differenziare, è implicita nel concetto puro, in quanto comprensione di questo differenziare, una differenziazione della differenza. L’io è il concetto puro, puro in quanto vuoto. Dirà tra poco che è il concetto che concepisce e basta, non c’è ancora un concepito, propriamente; è soltanto il concetto che concepisce se stesso. Il concetto è quindi l’auto-concepentesi esser-concepito del se-Stesso… (pagg. 506-507) in quanto così concepito il se-Stesso è autenticamente così come può essere, cioè libero. Cioè, vuoto. Questo io è un concetto puro, cioè non è vincolato da alcunché, quindi, è libero. Cita Hegel. “L’Io è questa unità originariamente pura e rapportantesi a sé; non immediatamente però, ma nell’atto di astrarre da ogni determinazione e da ogni contenuto e ritornando alla libertà dell’uguaglianza illimitata con se stesso.” Pertanto l’Io è “universalità”, ma altrettanto immediatamente “Individualità”. Qui nessuno ha colto una questione molto interessante. Cosa c’è in questa frasetta? È ciò che diceva prima Heidegger, nelle pagine precedenti. Pensavo al fatto che dice che si rapporta a se stesso ma non immediatamente, cioè si rapporta sempre attraverso un utilizzabile. Non coglie se stesso immediatamente ma sempre attraverso un utilizzabile, è sempre mediato da un utilizzabile. Questa è anche un po' la tesi di Heidegger: io colgo me stesso, posso pensare a un Io puro, cioè mi penso pensare qualcosa. Però, dice qui Hegel che, sì, mi penso pensare qualcosa, tuttavia non immediatamente ma sempre in riferimento a un qualche cosa. E, infatti, dice non immediatamente però, ma nell’atto di astrarre da ogni determinazione, quindi, io astraggo da un utilizzabile il fatto che, sì, mi sto occupando di un utilizzabile e che, quindi, sto pensando a qualcosa. Il mio pensiero pensante, che cioè pensa se stesso, è tale ma a partire da un utilizzabile. Heidegger lo diceva nelle pagine precedenti, che sì, certo, ciascuno può pensare se stesso ma non pensa se stesso…

Intervento: Pensare implica necessariamente pensare qualcosa. È quel qualcosa che rende non immediato

Esattamente.

Questo negare la negazione (la sintesi) è nel contempo l’“assoluta inquietudine” dello spirito e l’autorivelazione costitutiva della sua essenza. È sempre preso in un divenire, di tesi e antitesi, sempre in questo movimento, sempre in questo divenire. Cita ancora Hegel. “Il fine dello sviluppo dello spirito e “raggiungere il proprio concetto”. Lo sviluppo stesso è “una dura e infinita lotta contro se stesso”. Per Hegel la conclusione di tutto quanto è lo Spirito Assoluto, cioè il pensiero assoluto, pensiero che oramai ha concepito ogni cosa. Poiché l’inquietudine (data dal divenire continuo) dello sviluppo dello spirito che procede verso il proprio concetto (questo cammino di tesi e antitesi) è la negazione della negazione, allo spirito che si realizza in questo modo non resta che cadere “nel tempo” in quanto immediata negazione della negazione. Questo spirito cade nel tempo, cioè cade nell’“ora”. È l’“ora” che mi consente di fare avviare questo processo dialettico, è l’“ora”, ciò che ho qui. Infatti “il tempo è il concetto stesso nel suo esserci… Ecco, qui c’è il legame stretto fra il tempo e lo spirito, il pensiero. Dice il tempo è il concetto stesso nel suo esserci, il concetto mentre lo concepisco. Direbbe Gentile, il pensiero pensante rispetto al pensiero pensato, il pensiero pensante è qui, adesso; il pensiero pensato è un altro pensiero pensante, inevitabilmente, perché se penso il passato lo penso adesso. …e nel suo rappresentarsi alla coscienza come intuizione vuota.  Vuota perché non c’è un qualche cosa. Il che contraddice, almeno in parte, ciò che diceva prima, perché se è un’intuizione vuota è come se procedesse quasi da sé, mentre non è proprio vuota, a meno che non si voglia intendere con “vuota” il fatto che non necessita di una determinazione particolare, cioè di un utilizzabile particolare. …perciò lo spirito appare necessariamente nel tempo, e vi appare finché non comprende il suo puro concetto, cioè finché non estingue il tempo. Sarebbe lo Spirito Assoluto. Quindi, il tempo ci viene incontro nel momento in cui pensiamo qualcosa e la pensiamo qui, adesso. Ecco come ci appare il tempo, perché ciò che penso lo sto pensando adesso, e quindi il pensiero cade nel tempo. “Il tempo è il puro se-Stesso, intuito esteriormente e non compreso dal se-Stesso, è il concetto soltanto intuito.” (pagg. 507-508) Ovviamente, ad Heidegger non interessava fare un riassunto della dialettica hegeliana ma gli interessava soltanto porre la differenza fra il pensiero di Hegel e il suo. Dice a pag. 509, L’analitica esistenziale dell’esserci da noi proposta prende invece le mosse dall’interno della “concretezza” dell’esistenza stessa effettivamente gettata, per svelare la temporalità come scaturigine prima della sua possibilità. Lo “spirito” non giunge a cadere nel tempo, ma esiste come temporalizzazione originaria della temporalità. Qui Heidegger sta dicendo qual è la differenza tra il modo di pensare il tempo fra Hegel e lui. Per Hegel, come abbiamo visto, non è niente altro che il punto in cui io penso qualche cosa: so di pensare qualche cosa, questo è il punto, il presente, diciamola così, ciò che pongo nell’immediato, e da questo, secondo lui, nasce l’idea del tempo, dal fatto che sto pensando adesso. Per Heidegger no, è perché c’è il tempo che io posso pensare. Il tempo è la condizione per potere pensare. Sappiamo che la temporalità è data dal progetto, dalla gettatezza, e quindi dal fatto che nel progetto, nell’occuparmi di qualche cosa, questo qualche cosa mi si presentifica, diventa presente. Quindi, vedete che è il contrario di ciò che pensa Hegel. Il tempo per Hegel è il presente che dà modo di costruire il pensiero, sarebbe il boccio che dà modo di giungere al frutto. Per Heidegger è esattamente il contrario, e cioè che è perché c’è una temporalità, che è data non dal presente ma dal fatto che io mi occupo necessariamente di qualcosa; essendo io progetto gettato, io sono ciò di cui mi occupo; occupandomi di qualche cosa, questo qualche cosa diventa presente. E, quindi, il presente procede dal progetto. Non è il presente a determinare il progetto ma è il progetto che determina il presente. Possiamo chiudere leggendo le domande che si fa Heidegger a pag. 510. La distinzione così evidente dell’essere dell’Esserci esistente rispetto all’essere dell’ente non conforme all’Esserci (ad esempio la realtà) è solo il punto di partenza della problematica ontologica e non qualcosa in cui la filosofia possa acquietarsi. La filosofia si acquieterebbe su che cosa? Sulla distinzione tra Io e non Io, tra me e il mondo esterno, soggetto e oggetto. Si acquieta qui e da qui fa tutte le sue elucubrazioni. Invece, per Heidegger questo è proprio il punto da cui partire, il punto da problematizzare e la domanda da porsi. Si sa da tempo che l’ontologia antica opera con “concetti di cosa” e che esiste il pericolo di “reificare la coscienza”. Ma che significa reificazione? Da che cosa scaturisce? Perché l’essere è “innanzi tutto” “concepito” in base alla semplice-presenza e non in base all’utilizzabile che pure ci è più vicino? Questa è l’obiezione di Heidegger: perché partiamo dall’essere come cosa, dalla semplice presenza, anziché da ciò che ci consente di vedere una semplice presenza, cioè un utilizzabile? Perché la reificazione finisce per avere il sopravvento? Com’è strutturato positivamente l’essere della coscienza perché la reificazione risulti inadeguata a esso? Come accade una cosa del genere? Perché nella filosofia, potremmo dire, nella chiacchiera, si considera l’essere come ciò che è semplicemente presente? Semplicemente presente può essere anche non un qualcosa, letteralmente, però l’essere è sempre presente. Il fatto che questo sia un posacenere, e tutti gli altri lo siano, comporta che questo essere (l’essere posacenere) sia presente. Per uno svolgimento originario della problematica ontologica è sufficiente la “distinzione” di “coscienza” e “cosa”? Le risposte a queste domande si trovano forse per strada? Ed è possibile anche solo cercare la risposta finché il problema del senso dell’essere in generale continua a non essere chiarito? Heidegger sta dicendo che è inutile che parliamo dell’essere finché non ci poniamo radicalmente il problema dell’essere, e per porsi il problema dell’essere occorre intanto sganciarlo dall’ente, ché l’ente non l’essere. E così conclude. Conclude, però, con una questione che rimane aperta e che lui stesso cerca di risolvere, cioè l’essere non è un ente, non è qualcosa, ma per 510 pagine non ha fatto altro che parlare dell’essere. Se parlo dell’essere pongo l‘essere come qualcosa, cioè come un ente. In questo caso andrebbe a cadere la differenza ontologica, tutto ciò che Heidegger ha concepito come differenza ontologica, la differenza tra essere ed ente, mentre per lui la filosofia ha sempre confuso l’essere con l’ente, ha fatto dell’essere un ente fra gli altri. No, dice, l’essere è un’altra cosa, ma nel momento in cui si chiede che cos’è, inesorabilmente lo pone come un ente tra altri. Questo è il problema su cui termina Essere e tempo. Questa avventura, compiuta con voi, in effetti, ha dato molto, ha dato la possibilità di approcciare le questioni, di leggere le cose, in un altro modo, e cioè mostrare un approccio che non si accontenta di ciò che è dato per acquisito, per scontato, così come era stata, per Heidegger, la nozione di essere. Che cos’è l’essere? Ciò che è. Parmenide: l’essere è, il non essere non è. Che è poi il modo di pensare comune: l’essere è, quindi, il vero; il non essere è il falso; 1,0, per i computer. Tutto funziona così, ciò che ha detto Parmenide è ancora vivo e presente oggi che ne parliamo. Dopo 2500 anni potremmo dire, e questo è merito di Heidegger, perché per primo si è posto la domanda, quando parliamo di essere, di che cosa parliamo esattamente? Sì, certo, Parmenide ha detto “l’essere è” e sembrava chiusa la questione perché era chiara a tutti, ma che cosa vuole dire? Ammesso che voglia dire qualcosa, perché anche questo è da considerare. Ed è questo modo di pensare che ci ha trasmesso Heidegger, ci ha “contagiati” con questo suo modo di approcciare le questioni. Le questioni più banali lui le fa diventare dei problemi, ma non perché è un tipo che ama complicarsi la vita, ma perché “sono” dei problemi, sono ciò che è da pensare, ciò che rimane da pensare. Ciò che resta da pensare è la parola, nella sua infinita complessità, con tutto ciò che si porta appresso. Ogni volta che si parla di essere si pronuncia una parola, molto complessa, e dopo cinquecento pagine siamo tornati al punto di partenza, con qualche idea in più, certo, ma non siamo andati molto lontano. Ciò nondimeno, il problema andava posto. Ma la stessa cosa può dirsi di qualunque parola, in effetti. Se io mi confronto con una qualunque parola mi trovo di fronte a un baratro infinito, un abisso senza fine, a un problema che non ha soluzione, così come non ha soluzione un problema fondamentale del linguaggio, e cioè del fatto che ciascun elemento che viene utilizzato nel linguaggio è quello che è a condizione di non essere quello che è, come già aveva intuito Hegel: l’essere trapassa continuamente nel non essere, e viceversa. Tuttavia, per poterlo usare, devo considerarlo per quello che è, come se fosse quello che è, ma è quello che è a condizione di non essere quello che è. Quali sono le implicazioni di tutto ciò mentre si parla? Questa è una questione ancora da affrontare. La affronteremo rispetto ad alcune questioni connesse con la semiotica, in particolare con Peirce, e che riguarda, in modo più particolare ancora, il suo concetto di semiosi infinita: la parola è un segno che rinvia a un altro segno, ma questo segno è un segno in quanto rinvia a un altro segno, il quale segno è un segno che rinvia a un altro segno. È così che si parla, anche se non ce se ne accorge. Quali sono le implicazioni di tutto ciò, mentre parliamo, mentre pensiamo?