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7 gennaio 2021

 

L’attualismo di G. Gentile – Introduzione alla filosofia. Pensare e poetare di M. Heidegger

 

Leggeremo alcune cose che sono a fianco di quello che dice Gentile, anzi, alcune cose paiono le stesse. Sono tratte dal testo di Heidegger, Introduzione alla filosofia, che scrisse poco dopo avere fatto quel lavoro straordinario su Nietzsche. A pag. 65 c’è una citazione di Nietzsche, il quale dice Tutta la bellezza e la sublimità che abbiamo prestato alle cose reali e immaginarie, io voglio rivendicarla come proprietà e prodotto dell’uomo: come la sua più bella apologia. L’uomo come poeta, come pensatore, come amore, come potenza: oh, la sua regale generosità, con cui ha coperto di doni le cose per impoverire se stesso e sentirsi miserabile! Finora il suo maggiore disinteresse fu questo: ammirò e adorò e seppe nascondersi che lui stesso aveva creato ciò che ammirava. Non è molto lontano da ciò che ci diceva Gentile. Anche Nietzsche si era accorto che è l’uomo che ha creato ogni cosa. Uno dei motivi importanti per cui leggeremo questi passi è che qui Heidegger e Nietzsche insieme è come se stessero raccomandando di tenere conto della volontà di potenza, e cioè del fatto che qualunque cosa si dica o si pensi è volontà di potenza, e non è altro che questo. A pag. 67. Il pensiero dell’uomo creativo – detto più precisamente: il pensiero secondo cui l’uomo raggiungerebbe la sua suprema perfezione nella creatività e come genio – e, insieme, il pensiero parallelo della “cultura” (Kultur sarebbe da intendersi più come civiltà che come cultura) come forma suprema dell’esserci dell’uomo storico si fondano sulla determinazione moderna dell’essenza dell’uomo come soggetto ponentesi-su-se-stesso, solo mediante il quale sono determinati nella loro oggettività tutti gli “oggetti” in quanto tali. Incomincia a porre una questione che sarà importante per noi da affrontare, da articolare e sviluppare, e cioè della questione della volontà di potenza come autoctisi, come autoproduzione del linguaggio. A pag. 73. Ogni comportamento che noi oggi concepiamo come “creare artistico” è per i greci un ποιείν. Il poetare è il ποιείν, la ποίησις, in un senso eminente. Nel ποιείν vige il farsi carico di ciò che succede all’uomo riferendosi a lui, vige l’ulteriore recare del ri-ferito, il portare ed esporre in offerta. Qui non c’è nulla dell’“azione” dello spirito creativo, ma neppure nulla della “passione” di un ebbro invasamento che viene a esprimersi e intende ciò che ha espresso come attestazione della propria “anima culturale”. Il ποιείν è il portare-addurre ciò che “è” già e che, nel portato-addotto, appare come l’essente che esso è. Quindi, ciò che produco è ciò che c’è già, è ciò che è già qui. Ciò che viene pro-dotto nell’ex-produrre non è qualcosa di nuovo, bensì il sempre più antico dell’antico. Tra poco vedremo la questione dell’eterno ritorno. Il pensiero di Nietzsche per cui gli dèi e tutte le cose sarebbero “prodotti” dell’uomo creante, esprime perciò un destino della storia dell’essenza dell’uomo occidentale. Il pensiero di Nietzsche non è affatto una trovata esagerata dell’egoismo smisurato di un solitario smarritosi nel regno del pensare. Il detto nietzschiano che due millenni di storia occidentale non sarebbero stati in grado di “creare” alcun nuovo dio, ci dà piuttosto un accenno verso l’esperienza fondamentale e l’accordo fondamentale in cui il suo pensare è collocato storicamente. Poco dopo c’è una citazione di Nietzsche. Intorno all’eroe tutto diventa tragedia, intorno al semidio diventa dramma satiresco; e intorno a dio tutto diventa – che cosa? “mondo”, forse? È interessante, come dire che per creare un mondo occorre dio. Ma questo ci dice anche che è grazie al discorso religioso che è stato possibile creare un mondo. E qui possiamo rifarci sempre a Heidegger quando disse nel saggio La fine della filosofia e il compito del pensiero, che gli antichi greci hanno fatto delle cose notevoli ma non hanno considerato l’unica cosa veramente notevole che andava considerata: l’alètheia. Non considerandola come sarebbe dovuta essere pensata, lì è incominciato il discorso religioso, quello che ha creato il mondo. Sono tutte questioni che riprenderemo perché sono importanti. A pag. 109. Nel pensiero fondamentale di un pensatore è pensato ciò che dà il “fondamento” per quello che ogni pensatore pensa. Il pensatore pensa ciò che è. Pensa l’essente. Il pensatore pensa l’essente in quest’unica prospettiva: che l’essente è e che cosa l’essente è. Che cosa e come e che l’essente “è” noi lo chiamiamo l’essere dell’essente. Ogni pensare di un pensatore dice che cosa l’essente è, quale tratto attraversa l’essente. Nel suo pensiero capitale, il pensare dice il tratto capitale dell’essente. Il pensiero capitale di Nietzsche è il pensiero della “volontà di potenza”. Nello scritto apparso nel 1886, Al di là del bene e del male, Nietzsche parla di “…un mondo la cui essenza è volontà di potenza, …”. Essenz è l’abbreviazione tedesca del nome per un concetto capitale della metafisica occidentale: essentia. Quando si chiede, e i pensatori della metafisica lo chiedono sempre, quid est ens? “che cosa è l’essente?”, allora l’essentia dà la risposta al quid-esse dell’essente. Ciò che il “mondo”, ossia l’essente in totale, è in generale nel suo tratto capitale, viene detto quando viene nominata l’“essenza”. L’“essenza” del mondo, secondo Nietzsche, è “volontà di potenza”. Dire che la volontà di potenza è l’essenza non è poco perché dice che il significato, in definitiva, di qualunque cosa che si faccia, si pensi, o si dica, è volontà di potenza. La volontà di potenza è quella cosa che rende quello che si dice, quello che si fa o che si pensa, quello che è. Questo per Nietzsche. Se pensate a Hegel, quando distingue fra l’esistenza e l’essenza: l’esistenza è l’essere, l’essere parmenideo per intenderci, che se non ha un’essenza, cioè un significato, è niente; è l’essenza, cioè il suo significato, che fa essere l’essere quello che è – nel caso dell’essere ciò che l’essere non è, cioè, occorre che ci sia l’essere e ciò che l’essere non è, in modo che, tolto ciò che l’essere non è, rimane ciò che l‘essere è. Ma perché ci sia essenza occorre il pensiero, occorre quanto meno un sillogismo, sempre formale; ma occorre il pensiero, cioè, il linguaggio, per potere stabilire alcunché. A pag. 115. L’essenza del mondo è volontà di potenza; cioè, l’essenza dell’essente è volontà di potenza; o anche, il tratto capitale dell’essente, dunque l’essere dell’essente, è volontà di potenza. Ora, una nota del 1888 comincia così (Volontà di potenza, § 693): “Se l’essenza intima dell’essere è volontà di potenza…”. Secondo il passo interpretato in precedenza, l’essere stesso è volontà di potenza. In una proposizione ipotetica viene detto ora: L’essenza intima – dunque, secondo quanto precede, l’“essenza” – dell’essere, della volontà di potenza, sarebbe volontà di potenza. Questa proposizione sembra non dire nulla. La proposizione dice però qualcosa, ossia ciò che Nietzsche pensa e ciò che egli ha detto nella proposizione precedente, solo quando nella proposizione ora citata sostituiamo l’espressione “essere”, usata negligentemente, con il nome di ciò che unicamente vi è inteso: cioè l’“essente”. Tutto ciò che è, e quindi gentilianamente è pensabile, è volontà di potenza. Detta con accuratezza, la proposizione deve suonare: “Se l’essenza intima dell’essente è volontà di potenza” – ed essa è effettivamente, secondo la proposizione capitale della filosofia nietzschiana, volontà di potenza. A pag. 119. La volontà di potenza è ciò che l’essente veramente è, ossia l’essente secondo la sua essenza; l’essenza – l’essenza – essentia. È questa che Nietzsche, nell’ultimo passo citato, designa come “fatto ultimo”. Il fondamento. Quando si va a fondo, dice Nietzsche, alla fine di tutto, che cosa c’è? C’è la volontà di potenza. Questo, come dicevo, ci costringe a riflettere bene sulla questione, perché potremmo dire, certo, che quando si va a “fondo” – in realtà non c’è nessun fondo – ciò che si trova è il linguaggio, oltre il quale non è possibile andare. Quindi, la volontà di potenza è il linguaggio. A questo punto, in effetti, non c’è più differenza tra volontà di potenza e linguaggio. Il linguaggio è volontà di potenza, il modo i cui è fatto è volontà di potenza. Così come non c’è modo di uscire dal linguaggio, non c’è modo di uscire dalla volontà di potenza. A pag. 181. Il nichilista radicale: “L’assenza di meta in sé” è la meta cercata, cioè pensare la volontà di potenza, nella sua essenza, come essere. L’estremo – volere il nulla per volere. Potremmo dire: un volere fine a se stesso. Questo risponde in qualche modo alla domanda: che cosa vuole la volontà di potenza? Niente, soltanto volere, nient’altro che questo. Il nichilismo estremo e il nichilismo più radicale sono la stessa cosa, non capovolgimento, bensì?? – la suprema sovrastazione dell’animal rationale nella vetta suprema dell’essenza della volontà come volontà di volontà. Questo sarebbe l’oltreuomo. Questa sovrastazione è un “andare oltre sé” dell’uomo durato finora, non nella direzione della trascendenza finora moralista, bensì al di là di sé, al di là dell’essenza durata finora, non ancora pensata nel suo estremo. Il sì all’eterno ritorno dell’uguale, alla verità incondizionata, come stabilità dell’essere ancora non fondato nella sua verità, nel senso della presenzialità costante, questa nell’estrema figura della volontà di volontà. L’eterno ritorno dell’uguale non accertato e computato nell’essere mediante “descrizione”, e neppure mediante “spiegazione”, bensì come ogni verità dell’essente: ϋπόθεσις dice Platone. Ma questo che cosa significa? Nel libro il “poetato” è la volontà di potenza; questa come ούσία, actualitas, oggettualità. La forma estrema del nichilismo! – in che misura qui è voluto il nulla? Il nulla incondizionato (di che? – di quale essente?) esperito, voluto, e in questo volere ancora il volere-se-stesso. “Il ritorno” – rivenuta – senzastoria; la vuota “iterazione” del vuoto movimento circolare. Contro l’unicità di senso del tempo metafisico – e comunque “tempo”, ma inesperito nella sua essenza come verità. La volontà di potenza come la volontà di volontà – in ciò la circolarità, circulus. Ecco, dunque, la questione che dobbiamo affrontare: la volontà di potenza come autoctisi, cioè come produzione del linguaggio. Il linguaggio si produce come volontà di potenza, cioè, come volontà. Qui il termine volontà è ancora un po’ problematico, perché allude, quasi inesorabilmente, al fatto che ci sia qualcuno che detiene questa volontà. Stiamo parlando del linguaggio e il linguaggio non ha propriamente una volontà, il linguaggio è la condizione per potere pensare la volontà. Però la cosa importante è che in tutto ciò sta dicendo che nulla è pensabile, nulla è intelligibile se non si tiene conto della volontà di potenza. È la volontà di potenza che fa sì che qualche cosa sia intelligibile, pensabile. Volontà di potenza nel senso di – come Nietzsche stesso ha detto – eterno ritorno. Avevo accennato qualche tempo all’eterno ritorno, che non è propriamente un ritornare di qualche cosa che è scomparso, ma è il ritorno di qualcosa che è sempre stato qui. Ciò che è sempre stato qui, potremmo dire, è l’atto, è il concreto. Si potrebbe addirittura azzardare – ma per il momento è solo un azzardo – che la volontà di potenza sia il concreto, rispetto al quale ogni pensare determinato, quindi ogni pensato, è l’astrazione dal concreto. Dire che la volontà di potenza è il concreto è come dire che la volontà di potenza è la sola cosa per cui ciascun’altra acquisisce un senso, un significato. Ciascun pensiero, ciascun pensato, è determinato, è un qualche cosa – se io penso, penso qualcosa, e questo qualche cosa è il determinato – ma perché questo qualche cosa sia un qualche cosa occorre il concreto, cioè il linguaggio, cioè la volontà di potenza. Il concreto, per usare le parole di Nietzsche, è il fondamento ultimo, la vera essenza della cosa. Questo, chiaramente, porta a pensare la volontà di potenza in modo più radicale di quanto mai abbiamo fatto prima. Porre la volontà di potenza come il concreto significa anche questo, per dirla con Heidegger, che è il mondo che ciascuno è. Di fatto, in questo momento io sono questa cosa qui, siete voi e tutto quanto mi circonda: io sono questo in questo momento, non posso isolarmi da questo mondo di cui sono fatto, cesserei di esistere se per assurdo potessi isolarmi dal tutto. Così come accade per l’esistenza rispetto all’essenza: il mondo sarebbe l’essenza, ciò che fa essere l’essere quello che è – in questo caso io: se tolgo il mondo di cui sono fatto scompaio anch’io. Dicevo, dunque, porre la volontà di potenza come l’essenza comporta il porla in questo modo, cioè come il mondo per cui le cose sono quelle che sono. Vi ricordate della “lampada che è sul tavolo”? Dunque, la volontà di potenza come il concreto, cioè il mondo di cui è fatta la “lampada che è sul tavolo”, che non è pensabile se non nell’astratto, per pensarla devo astrarla dal concreto, che comporterebbe astrarla dalla volontà di potenza, che la fa essere quella che è. Non la volontà di potenza della lampada, ovviamente, ma volontà di potenza intesa come il concreto, come il tutto. Mi rendo conto che non è una questione semplice, però ciò che dice qui Nietzsche, e anche le parole di Heidegger che lo legge, sembrano quantomeno mostrare questa direzione. Se la volontà di potenza è posta da Nietzsche come il fondamento, come l’essenza di tutto, allora non è casuale, non è un’essenza fra le altre, ma è l’essenza, l’essentia, ciò che è a fondamento di tutto e senza la quale non c’è niente.

Intervento: C’è una qualche analogia con il motore immoto di Aristotele?

Il problema è che questo “motore immoto” è posto fuori e dall’esterno muove. Qui no, qui, se leggiamo Nietzsche insieme con Gentile, non è all’esterno, questa essenza non è altro che il concreto, è l’atto, l’autoctisi. Per questo dicevo dell’autoctisi come volontà di potenza, come potenza creatrice, esattamente come la ποίησις, di cui parlava Heidegger, la produzione, ciò che si fa; ma si fa nell’atto, è l’atto che fa. È per questo che non c’è bisogno di cercare l’incominciamento chissà dove, perché è qui ogni volta. C’è l’incominciamento perché c’è tutto, perché l’atto è il concreto. Si inizia ponendo un qualche cosa che immediatamente crea, produce per autoctisi, il suo opposto. Creando questo suo opposto, ecco che mette in atto la volontà di potenza: io ho creato dal nulla.

Intervento: Il termine volontà è un po’ fuorviante…

Non mi piace. È un omaggio a Nietzsche, der Wille. Sembra la volontà di qualcuno, anche se poi si configura come la volontà di qualcuno, nel momento in cui non ci si accorge di essere nell’atto e questa produzione, questa autoctisi, viene separata religiosamente, e quindi ci sono qui io e lì ciò che ho creato. Poi, naturalmente, essendo io umano, fallibile, ho bisogno di mettere il trascendente dall’altra parte, che domina e garantisce su tutto, per cui, ecco Dio.

Intervento: È in quel momento che subentra la volontà di potenza…

Esattamente. È a questo punto che posso rappresentarmi la volontà di potenza attraverso un “io” che ho separato da ciò che ho prodotto e quindi dico “ecco ciò che io ho prodotto”, cancellando la simultaneità tra io e io che creo quella cosa. L’autoctisi è la simultaneità del fare mentre dico.

Intervento: Linguaggio come creazione della volontà di potenza… Partendo da un principio biologico.

Qui si la biologia si porrebbe come il motore immoto di Aristotele, come un qualche cosa che è fuori dal linguaggio. Gentile ci ha messi sull’avviso rispetto a una cosa del genere. Se la pongo fuori del pensiero, diceva lui, come la penso, con che cosa? Non è pensabile, se la sto pensando è perché è nel pensiero; ma se è nel pensiero, allora posso dire che è nel pensiero ma anche fuori del pensiero, oppure che è solo nel pensiero. Se è nel pensiero ma anche fuori del pensiero, lui ci diceva che in questo caso, se è fuori del pensiero, non è pensabile, non posso saperne niente, è nulla. E, quindi, non posso che, sempre attraverso il sillogismo formale, concludere che è nel pensiero, e che c’è solo lì, non può essere fuori, perché in questo caso non sarebbe pensabile. Dopo questa introduzione ritorniamo a Gentile. Capitolo Terzo, Superamento del logo astratto, Paragrafo 1. Il logo astratto come processo esaurito. Il logo astratto ha, come s’è veduto, natura circolare. La sua logicità è riflessione. Il concetto, in cui la sua logicità si spiega, non è concetto senza essere giudizio, né giudizio senz’essere sillogismo, e in generale sistema. Ma giudizio è ritorno dal concetto a se stesso attraverso la sua interna mediazione; e così il sillogismo è mediazione del giudizio dentro di se medesimo, per cui il giudizio non si possiede come verità, nel suo valore logico, se non si riflette su se stesso, e non si allontana da sé se non per ritornare a sé e chiudersi in se stesso. È la questione della verità che poneva rispetto al sillogismo. Così, parimenti, il sistema è enciclopedia, pensiero identico a sé in quanto, riflettendosi e mediandosi internamente, circola attraverso tutte le parti in cui si articola. Sicché infine il concetto, nucleo del logo astratto, è sistema, il quale non si può non concepire come processo, ma si concepisce, e non si può non concepire, come processo esaurito. Sta dicendo che il concetto non può comprendersi se non in un sistema, termine che introduce adesso, che sarebbe il logo concreto. Assolutamente esaurito, non semplicemente arrestato. Un movimento rettilineo che si allontani da un punto determinato per una certa direzione si può rappresentare come di fatto arrestato a un punto determinato della retta che segni quella direzione; ma poiché la retta è indefinita, lo stesso punto, a cui tale movimento cessa, non si può rappresentare se non come seguito da un numero indefinito di altri punti, che il movimento stesso potrebbe raggiungere. E questa possibilità è potenziale continuazione del movimento. Ma un movimento circolare che si consideri cominciato da un punto determinato non può pensarsi che continui o possa continuare oltre lo stesso punto iniziale, che, percorrendo la circonferenza, esso necessariamente raggiunge. E se continua, esso non potrà essere che una semplice ripetizione di se stesso. Potremmo dire che qui, a modo suo, Gentile pone una questione che può evocare la questione dell’eterno ritorno. Potrebbe evocarla, però, in effetti, qui sta parlando del sillogismo, cioè del ritorno del sillogismo su se stesso, ma sta parlando del sillogismo formale, non del sillogismo compiuto. Paragrafo 4. Il logo astratto nelle scienze. E le matematiche? e le scienze naturali? Esse costruiscono il loro oggetto: ma un oggetto, in cui il soggetto non si riconosce; e che perciò oppongono alla propria attività costruttiva, e quindi lo presuppongono: e parlano perciò sempre di «scoperte». Ossia, si rappresentano il sistema di verità, che esse costruiscono, come quel sistema di cui la parte già conosciuta è così intrinsecamente connessa col resto, che anche questo, ancorché ignoto, ci sia già, quasi testa di antica statua che si vien rimettendo alla luce, ma se ne sono scoperti soltanto gli arti ed il tronco: ci sia come già predeterminato nella totalità del sistema. La differenza tra il pensiero della scienza e quello di Gentile è che, sì, anche la scienza immagina che ci sia già tutto, ma non nell’atto: questo tutto è da un’altra parte, e deve essere scoperto, reperito; infatti, si parla di scoperta, di togliere il velo. Capitolo IV Concretezza del logo astratto, Paragrafo 1. La doppia, dissoluzione del logo astratto. Il concetto concreto del logo astratto è il logo concreto in cui si dissolve quello astratto. Non possono esistere entrambi, quando c’è l’uno non c’è l’altro, quando c’è il pensiero pensante non c’è il pensiero pensato, quando c’è il pensiero pensato non c’è il pensiero pensante, anche se si presuppongono a vicenda – sta qui la questione fine di Gentile. Il concreto, tornando all’esempio della lampada, cioè “questa lampada che è sul tavolo, esclude l’astratto, cioè questa lampada qui, perché nel momento in cui la si considera non è più pensiero concreto ma astratto. E così quando penso a questa lampada, la modifico, la manipolo, in qualche modo escludo il pensiero concreto; il pensiero concreto non mi consente di manipolare la lampada perché la lampada è tutto ciò che la circonda, è il mondo di cui è fatta. Paragrafo 2. Astrattezza della logica dell’astratto. La nostra Logica del logo astratto, in sé considerata e astratta a sua volta dalla logica del concreto a cui è grado, in ciò si distingue dalla logica aristotelica: che questa fantasticamente, e in contraddizione col suo principio, ammetteva una molteplicità attraverso la quale s’illudeva che potesse spaziare il pensiero logico, laddove la nostra logica assorbe ogni molteplicità nella più rigida unità. Aristotele ancora disperde i vari elementi, che invece per Gentile costituiscono un’unità. Il mondo in cui consisto non è la somma di tanti elementi astratti, ma è un concreto. Qual è la differenza? Nel concreto tutti questi elementi sono simultanei, mentre nell’astratto devo fare un’enumerazione. Ma la nostra Logica toglie questa illusione, e non riconosce altri concetti sistemabili oltre quelli i quali sono realmente un concetto unico. Sicché il concetto non è per noi l’elemento, ma il tutto; in guisa che determinare un concetto è determinare tutto il determinabile. Questo tutto è il tutto, è il linguaggio in toto, mentre ciascuno dei vari elementi, come fa Aristotele, non è il tutto, è una parte del tutto. La confusione, Gentile lo dice varie volte, consiste nell’immaginare che l’astratto sia il tutto, cioè, fare appunto l’astratto dell’astratto. Paragrafo 4. Unità del logo astratto e del concreto. ancora: …il pensiero non può aver coscienza del pensato se non in quanto ha coscienza del pensare in cui esso attualmente pensa quello che pensa. Il pensiero non può avere coscienza del pensato se non in quanto ha coscienza del pensiero, cioè, so che sto pensando, ma se penso penso qualcosa e questo qualcosa è un determinato, e quindi sono nell’astratto. Verrebbe da dire che sono uscito dal concreto, ma non è corretto perché non si esce dal concreto; semplicemente, ci si muove in questi due momenti, che sono simultanei e inseparabili ma non sovrapponibili. Il che è la stessa cosa che poneva de Saussure rispetto al significante e al significato, né più né meno: sono inseparabili, non c’è un significante senza un significato, e viceversa, e se tolgo uno tolgo l’altro; se astraggo il significante dal significato, il significante non significa più niente. E anche in queste operazioni che faccio quando parlo del significante, in realtà, do un significato al significante. Paragrafo 5. Identità attraverso la differenza. Il pensiero è pensiero di sé: perciò autocreazione, che è libertà; e quindi valore, verità. È ciò che diceva nelle pagine precedenti: quando penso qualcosa non faccio niente altro che pensare il pensiero. Ma, per essere pensiero di sé, deve pensare; e per pensare deve porsi come oggetto di sé, e però come oggetto. Deve pensare qualcosa in cui riconoscerà se stesso, ma intanto non si riconosce. Deve rappresentarsi l’oggetto nell’alterità onde questo si pone di fronte al soggetto, ed è suo opposto. Se l’oggetto restasse opposto, quale da prima si presenta al soggetto, esso, nella negazione assoluta d’ogni soggettività, nella sua pura irrelatività o solitudine, resterebbe irraggiungibile all’attività del soggetto. Resterebbe, cioè, impensabile. D’altra parte, questa stessa opposizione sarebbe impensabile se non fosse l’opposizione di due termini opposti in quanto correlativi, ciascuno dei quali non può essere tanto opposto all’altro ed esclusivo, da non includere perciò una relazione essenziale all’altro, e da non contenere per tal modo l’altro dentro di sé. Per quanto li pensi separati questi due elementi, li penso in quanto relazione. Così l’uomo si vede nello specchio, che vede in sé; e pure vede nella propria immagine quegli occhi con cui guarda la propria immagine. Paragrafo 6. Il circolo del logo concreto. Perché il circolo si chiude e il sistema si ribadisce come processo conchiuso nel logo astratto. Dove non si ha il pensiero come autocoscienza, ma il pensiero come l’altro dall’autocoscienza: non l’autodeterminazione, ma il determinato. L’autocoscienza è il determinare qualcosa, ma c’è anche il determinato, perché se determino qualcosa, questo qualcosa è il determinato. Altro è il determinato, altro l’autodeterminantesi, che si determina attraverso il determinato. È come il pensiero pensante e il pensiero pensato. Il determinato, risultato della determinazione, è la negazione dell’atto determinante,… Come dire che il pensiero pensato è la negazione del pensiero pensante. …in cui consiste il soggetto come autodeterminazione. Di guisa che il soggetto che apparisca a sé come già determinato, è superato dall’autocoscienza di cui è determinazione (autodeterminazione): diventa un oggetto che, come termine correlativo del soggetto, rimanda a qualche cosa di diverso da sé, che sarà il vero soggetto. La determinatezza circoscritta e finita del logo astratto, importa l’autodeterminazione infinità del logo concreto, e in essa ha la sua verità. Sta dicendo semplicemente che se qualcosa è determinato è perché c’è qualcosa che lo determina. Ciò che determina è il pensiero pensante, il determinato è il pensiero pensato, ma il pensiero pensante è l’autodeterminantesi che si determina attraverso il determinato, che lui stesso ha determinato. Non è lontano dal discorso che faceva Hegel rispetto all’in sé e al per sé: l’in sé che trova nel per sé ciò che lo determina in quanto tale; quindi, l’in sé come l’autodeterminantesi, perché si determina attraverso il per sé. Paragrafo 9. Soggettivismo del pensiero. Il pensabile, se è veramente pensato come pensabile, è reale. Per Gentile il reale è il pensabile, è tutto ciò che può essere pensato. Né invero c’è altra via per accorgersi dell’irrealtà dei nostri pensieri, che quella per la quale pensiamo, e pensando ci avvediamo e accertiamo che quei tali pensieri non sono effettivamente pensabili, poiché contraddicono ad altri nostri pensieri. Orbene, l’oggetto del pensiero, o della conoscenza che si dica, ha cominciato nella storia della filosofia a provare la propria pensabilità, come pensabilità di ciò che è reale, quando con Cartesio si vide che esso non poteva intendersi altrimenti che identico al soggetto che lo pensa. Lì è la radice d’ogni certezza: cogito, ergo sum; Deus cogitatur, ergo est. Dio è pensabile, e se è pensabile allora esiste. E insomma esse = cogitatio. Appena infatti si postuli l’essere fuori del pensiero, esso diventa naturale, quindi irriflesso, immediato, e cessa di essere pensabile; cioè, rende assurdo il postulato stesso; e il pensiero piomba nello scetticismo. Diventa essere naturale e immediato, ancorché in se medesimo supposto mediato. È chiara ormai l’obiezione di Gentile allo scetticismo. Lo scetticismo non fa altro che dire che ciò che si pensa, ciò che si dice, non può mai essere quello che è perché rinvia sempre a qualche cos’altro; ma la rincorsa a questo qualche cos’altro è infinita e, quindi, non c’è mai la verità. Gentile sta dicendo che tutto questo percorso non è lineare ma simultaneo: questa cosa che si sta cercando chissà dove è già qui in ciò che la sta cercando. Paragrafo 10. Idealismo trascendentale. Il mondo infatti, quale noi lo vediamo e conosciamo nell’esperienza, il mondo reale a cui si lega la nostra vita e l’animo nostro, questo saldo mondo in cui siamo nati noi e con noi convivono le persone a noi care, in cui abbiamo continuamente una missione da compiere, una fatica da sostenere, un nemico da vincere, una gioia da conquistare, questo stesso mondo si svelò come piantato in «noi» che lo pensiamo. Non nella nostra piccola persona empirica, e tanto meno nel nostro miserabile cervello; l’una e l’altro non raffigurabili fuori di questo stesso mondo che è il prodotto dell’attività costruttiva della nostra esperienza, laddove il «noi», anzi che il prodotto, è il germe o principio di cotesta attività. Siamo noi a creare. Tutto ciò che noi vediamo e che pensiamo di avere, dice, non dipende dalla nostra esperienza in quanto persona empirica che fa delle cose, ecc., ma è il prodotto dell’attività costruttiva della nostra esperienza. Qui l’esperienza non è qualcosa che riceve dal mondo esterno, ma è qualcosa che costruisce, è autoctisi. Paragrafo 12. L’aut-aut della materia e della forma. Ecco Platone, che inventa le idee innate e l’anamnèsi per garentire le idee da ogni ombra di soggettività;… Questo è stato sempre il criterio fondante di tutto il pensiero, dalla filosofia alla scienza, e cioè l’idea che debba togliersi ogni ombra di soggettività dall’ente: l’ente deve essere ente per conto suo. …e l’innatismo è negazione dell’autonomia del soggetto nel possesso del vero, e però posizione immediata di questo vero, come immagine che si riflette nello specchio. Ecco Aristotele, che nega l’innatismo e deduce dal processo dell’esperienza la conoscenza dell’universale: ma attraverso le specie sensibili e le intelligibili riduce anch’esso la parte del soggetto a un semplice rispecchiamento della materia della cognizione preesistente alla cognizione. In verità, ammessa una materia, come tale, antecedente alla cognizione, questa non può concepirsi quale cognizione vera se non in quanto si spogli di ogni forma sua per adeguarsi precisamente e immedesimarsi con quella preesistente materia. Era la fantasia iniziale di Husserl: giungere alle cose stesse. Ma se la cosa stessa si spoglia di tutto, scompare anche la cosa stessa. Viceversa, quando con l’idealismo trascendentale sorge il vero concetto della forma, la materia è destinata a dissolversi nella forma. La quale è forma in quanto è, non coefficiente o completamento meccanico della materia, bensì principio attivo e produttivo della esperienza,… Questa è la forma: principio attivo e produttivo dell’esperienza. …in cui la cognizione ritrova la propria materia. La quale c’è bensì di fronte alla forma, ma come contenuto dell’esperienza;… Quindi, la materia è il contenuto dell’esperienza. …e questa non c’è se non come effetto della forma. Ecco la questione dell’esperienza che costruisce, che crea e che non riceve passivamente qualcosa.