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6 dicembre 2023

 

Aristotele Analitici Secondi

 

Siamo arrivati a un punto cruciale. C’è una domanda che si pone Aristotele: una dimostrazione può essere finita? Si intende generalmente con dimostrazione, proprio per definizione, una sequenza finita di proposizioni, di formule ben formate perché, se non è finita, non dimostra nulla. Ma Aristotele si chiede: è possibile che sia finita? Se sì, a quali condizioni? Vediamo cosa ci dice lui. A pag. 927. È manifesto anche che, se una qualche percezione viene a mancare, è necessario che venga a mancare anche una qualche conoscenza scientifica, la quale è impossibile da acquisire, se davvero apprendiamo o per induzione o per dimostrazione. La dimostrazione è a partire dagli universali, l’induzione dai particolari, ma è impossibile pensare le realtà universali se non per induzione (dal momento che anche le cose che sono dette per astrazione saranno rese note in forza dell’induzione, ossia che alcune cose, anche se non separabili, ineriscono a ciascun genere, in quanto ciascuno di essi è tale) ed è impossibile che abbia induzione chi non ha percezione. Se l’induzione parla dei particolari, occorrerà pur percepirli… Infatti, la percezione è di particolari: in effetti non è possibile acquisire conoscenza scientifica di queste cose, giacché non la si può acquisire a partire dagli universali senza induzione, e neppure si trae per induzione senza percezione. Ogni sillogismo è in forza di tre termini… Premessa maggiore, minore e conclusione. … quello che è capace di provare che A inerisce a C in forza dell’inerire a B e di questo a C…. Tutte le A sono B, tutte le B sono C, tutte le A sono C. …poi c’è quello privativo, che ha una premessa secondo cui qualcosa inerisce a qualcos’altro e l’altra secondo cui qualcosa non inerisce a qualcos’altro. Ora, è manifesto che queste premesse sono i principi e le cosiddette ipotesi: infatti, qualora queste si assumano in questo modo è necessario provare che, per esempio, A inerisce a C in forza di B, e, ancora, che A inerisce a C in forza di un altro medio e che, allo stesso modo, B inerisce a C. Allora è chiaro che per coloro che traggono i sillogismi secondo l’opinione e soltanto dialetticamente andrà esaminato questo soltanto: se il sillogismo si produce a partire dalle premesse di più alta autorevolezza che è possibile avere… Questo è il sillogismo dialettico, retorico. …così che, se pure non vi fosse secondo verità qualcosa di medio tra A e B, sembri che vi sia. Perché l’ha detto lui, oppure perché l’ho detto io… Chi produca sillogismi in forza di questo ha compiuto il sillogismo dialetticamente; invece, chi lo faccia mirando alla verità deve condurre l’indagine a partire da cose che ineriscono realmente. Le cose stanno così, perché c’è ciò che si predica d’altro non per accidente… Cioè, necessariamente. …e ci sono poi alcune cose tali che si predicano per sé. Intendo con “per accidente” il caso in cui talvolta diciamo che quel bianco, per esempio, è uomo, il che non è lo stesso che dire che anche l’uomo è bianco: infatti l’uomo è bianco non essendo qualcos’altro, ma il bianco è uomo, perché è capitato all’uomo di essere bianco. /…/ È possibile inoltre che i termini intermedi siano infiniti, sebbene gli estremi siano definiti. Sappiamo che gli estremi sono A e C, ma in mezzo ci sono i medi, in questo caso B. È possibile che ci siano infiniti medi tra due estremi finiti, delimitati, determinati? Sta accennando all’infinito attuale, ovviamente. Dico, se, per esempio, A inerisce a C e il medio tra questi sia B e tra B e A ve ne siano altri, e altri ancora tra questi ultimi, è possibile anche che questi procedano all’infinito, o è impossibile? Qui ne va della logica perché, se non è possibile, solo allora possiamo costruire i sillogismi; se, invece, è possibile che siano infiniti, allora siamo messi malissimo perché non possiamo concludere niente. Esaminare questo è lo stesso che indagare se le dimostrazioni proseguono all’infinito, se c’è dimostrazione di ogni cosa, o se i termini si limitano reciprocamente. Allo stesso modo mi riferisco anche ai sillogismi e alle premesse negativi, per esempio se A non inerisce a nessun B, o non lo fa primariamente, oppure vi sarà qualcosa di intermedio antecedente a cui A non inerisce… /…/ …vi sono infiniti termini che non ineriscono agli antecedenti, oppure ci si ferma. È questa la domanda: ci fermiamo? A pag. 933. Ora è chiaro che non è possibile che i termini intermedi siano infiniti, se le predicazioni si arrestano in basso e in alto. In basso deduzioni, in alto induzioni. Intendo con “in alto” quella predicazione che procede verso ciò che è più universale, con “in basso” quella che procede verso il particolare.

Intervento: Lui sostiene che l’induzione non può essere sostenuta da un’infinità di affermazioni. È una contraddizione in termini.

Sì e no, perché l’induzione punta all’uno, ex pluribus unum. È un inganno perché questo uno, che sorge dall’induzione, è un uno finto, stabilito – lo stabilisco io – perché sennò andrebbe avanti all’infinito.

Intervento: Newton aveva stabilito l’induzione come principio…

Sì, se lo poni come principio ti sbarazzi della necessità di doverlo dimostrare. Se, infatti, posto che A si predica di F, sono infiniti i termini intermedi (che indichiamo con B), è chiaro che sarebbe possibile sia predicare all’infinito un termine medio dopo l’altro verso il basso a partire da A, sia che i termini verso l’alto a partire da F siano infiniti, prima di arrivare ad A. Di conseguenza, se queste cose sono impossibili, è impossibile pure che i termini intermedi tra A e F siano infiniti. In che modo Aristotele dice che non è possibile siano infiniti? Dicendo che è impossibile che siano infiniti. A pag. 935. È manifesto poi anche nel caso della dimostrazione privativa che ci si arresterà, se ci si ferma in entrambe le direzioni in quello della dimostrazione affermativa. Infatti, si ponga che non sia ammissibile procedere all’infinito… Si ponga che non sia ammissibile: ecco, questa è la dimostrazione! Non si può andare avanti all’infinito: se ti piace è così, se non ti piace fa lo stesso. Se le cose stanno proprio così… Come? Non lo sappiamo, è lui che ha detto che stanno proprio così. Dice poi una cosa in due parole che, però, poi non porta avanti. A pag. 937. È manifesto che anche qualora si provi non per una sola via, ma per tutte, quando a partire dalla prima figura, quando dalla seconda o dalla terza, ci si arresterà anche così. Infatti, le vie sono limitate, ed è necessario che tutte le cose limitate prese un numero limitato di volte siano limitate. Anche questo non fa una grinza. Vedete come si costruiscono i principi generali. A pag. 939. È chiaro che le cose stiano così nel caso dei predicati nel che cos’è. Infatti, se è possibile definire ovvero se è conoscibile l’essere del che cos’è e, inoltre, non è possibile percorrere infiniti termini, è necessario che i predicati nel che cos’è siano limitati. Ora, qui c’è una questione interessante: non è possibile conoscere l’infinito, lo dice qui a pag. 941. Ora, se si deve stabilire una regola, il predicare sia l’esprimersi così, mentre l’esprimersi nell’altro modo sia o non predicare affatto, oppure predicare non in assoluto, ma per accidente. Predicare qualcosa di determinato, di definito. Di conseguenza, quando una cosa si predica di una cosa, o si predica nel che cos’è, o che è una realtà qualificata o quantificata, o che è in una certa relazione, o che agisce, o subisce, o dov’è e quand’è. Qui le categorie diventano otto, ma va bene lo stesso. Inoltre, i termini che significano l’essenza significano di ciò di cui si predicano proprio ciò che quella cosa o quel tipo di cosa sono… Anche questo sarebbe da dimostrare; verrebbe da chiedersi: perché? Lui direbbe perché sono i termini più propri, ma come lo so, chi lo ha detto? …mentre quei termini che non significano l’essenza, ma si dicono di un altro soggetto che non è né quella cosa, né quel tipo di cosa, sono accidenti, come il bianco si dice di uomo. /…/ Le cose che non significano la sostanza devono essere predicate di un soggetto… Qui soggetto è ύποκείμενον. Colli traduce ύποκείμενον con sostrato mentre qui viene tradotto con soggetto. In questo caso si addice meglio il termine sostrato. … e non esiste qualcosa di bianco che non sia una qualche altra cosa che è bianca. Infatti, diciamo addio alle Forme: in effetti, esse sono chiacchiere e, se pure esistono, non hanno niente a che fare con questo discorso, poiché le dimostrazioni vertono intorno a cose del genere descritto. Cioè, le categorie. Non ci sono Forme, cioè ogni cosa non ha un riferimento a una forma, ma si riferisce a una categoria, cioè, è qualcosa che si predica. A pag. 943. Infatti, è possibile definire ogni sostanza di tal genere, mentre non è possibile percorrere col pensiero infinite cose. Di conseguenza, i termini non sono infiniti né verso l’alto, né verso il basso: infatti non è possibile definire quella sostanza di cui si predicano infinite cose. Qui c’è tutta la dimostrazione che Aristotele non fa, naturalmente; lui la butta lì: non possiamo pensare l’infinito. Dunque, che cosa dice? Lui propriamente non lo dice, lo diciamo noi: qualunque cosa io pensi è necessariamente finita perché l’infinito non lo posso dire, neanche pensare; come faccio a pensare l’infinito, l’πειρον, l’indefinito, l’indelimitato? Qui ci dice che una dimostrazione è necessariamente finita perché, se penso qualcosa, questo qualcosa necessariamente non è infinito, e se non è infinito allora è finito. Apparentemente risolve brillantemente il problema, ma non è proprio così, perché qui opera una separazione netta tra l’uno e i molti, tra il finito e l’infinito. Separa l’uno dai molti: non posso pensare i molti. È come se stesse dicendo – non lo dice, non va oltre questa affermazione – che se penso qualcosa lo penso come finito, quindi, la dimostrazione la penso come finita e, dunque, non c’è l’infinito, non lo posso pensare. E questo è il limite che ogni dimostrazione ha e, pertanto, può essere finita perché è già finita, una dimostrazione è finita. I termini che io pongo nel sillogismo anche loro sono finiti, devo pensarli come finiti; non posso, per esempio, pensare alla A come infinito, non posso gestire una cosa del genere; come sanno bene anche i matematici, l’infinito è difficile da maneggiare. Questa è per Aristotele la garanzia che la dimostrazione è finita, non ce ne sono altre. Su questa questione non si sofferma, quasi come se si fosse accorto che, come dimostrazione, non è un granché. Non posso pensare l’infinito, supponiamo che sia così, ma la questione dell’infinito qui è più sottile: come so che l’infinito non è pensabile, come ci sono arrivato a questa affermazione? Lui dice non posso percorrere l’infinito, certo; non potendolo percorrere devo compiere quella operazione che generalmente si chiama postulato: si postula che sia così. Secondo Aristotele il postulato sarebbe dimostrabile, generalmente non lo si fa, ma lo sarebbe potenzialmente. Che, per esempio, due rette parallele non si incontrino mai è un postulato: posso dimostrarlo? C’è qualcuno che è andato fino in fondo e che ha visto che non si incontrano mai? A pag. 945. E intorno alle cose di cui c’è dimostrazione non si può stare in una condizione migliore che conoscerle, né si può conoscerle senza dimostrazione. Se ciò è reso noto in forza di queste cose, le altre non le conosciamo, né ci troviamo in una condizione migliore rispetto a quella in cui ci troveremmo se le conoscessimo e non conosceremo scientificamente neppure ciò che è reso noto in forza di queste. Lui continua tranquillamente a parlare di conoscenza scientifica, di sapere scientifico, dove scientifico è έπιστήμη, naturalmente, ma quello che emerge da queste pagine, e anche da quelle precedenti, è che non esiste un sapere epistemico. L’unico sapere che abbiamo, con il quale possiamo avere a che fare, è la δόξα, più propriamente ancora, il δοξάζειν, il credere di sapere. Quindi, non è che non c’è sapere, c’è, ma è il sapere della δόξα, non quello epistemico. Quello epistemico sarebbe quello che procede dal sillogismo scientifico, cioè quel sillogismo che esclude la possibilità che ciascuna affermazione sia infinita, ma lo esclude per autorità, perché non può verificarlo. Come faccio a sapere che tra A e C le B non siano infinite? Lo so perché l’ho deciso io: ύπάρχειν, ho comandato che sia così. Ci sta in fondo dicendo che tutta la logica è costruita su un inganno: fare credere che sia possibile un sapere epistemico. Chiaramente, la volontà di potenza ci va a nozze con una cosa del genere: un sapere epistemico, certificato, certo, assolut

o. Però, come abbiamo visto tantissime volte, ciò è possibile soltanto separando l’uno dai molti, il finito dall’infinito, facendo finta che il finito possa esistere senza l’infinito, cioè, senza i molti, che l’uno possa darsi senza i molti. La A è la A, è uno; che cosa significhi la A sono i molti; ma dicendo A è come se io tagliassi fuori i molti privilegiando l’uno, perché non li possiamo conoscere. È quello che diceva prima rispetto all’infinito: non possiamo percorrere l’infinito; non lo possiamo conoscere e, quindi, c’è solo l’uno. E questo è il motivo per cui è possibile costruire un sillogismo: eliminando i molti. Ora, come dicevo, la volontà di potenza ha bisogno di una cosa del genere, ha bisogno di togliere di mezzo i molti perché i molti sono un ostacolo, sono i cattivi per Platone, vanno da tutte le parti, non si controllano; invece, l’uno sì, è questo qua. Non esiste un sapere epistemico, non c’è nessuna certezza. Ora, se è possibile… Sempre mette questa condizione, se è possibile. …conoscere qualcosa in senso assoluto per dimostrazione e non a partire da alcune cose e per ipotesi, è necessario che i predicati intermedi si arrestino. Infatti, se non si arrestassero, ma se vi fosse sempre qualcosa superiore rispetto a ciò che viene assunto, vi sarebbe dimostrazione di tutte le cose. Dice qualcosa superiore rispetto a ciò che viene assunto: è ciò che viene assunto che costituisce il limite, nient’altro: assumo che sia così. Di conseguenza, se non fosse possibile attraversare cose infinite, non conosceremmo per dimostrazione le cose di cui vi è dimostrazione. Allora, se rispetto a queste cose non ci troviamo in una condizione migliore che conoscerle, non sarà possibile conoscere scientificamente nulla per dimostrazione in senso assoluto, ma solo per ipotesi. Cioè, o conosciamo necessariamente o conosciamo per ipotesi. Per conoscere necessariamente dobbiamo stabilire un limite; se non stabiliamo questo limite allora dobbiamo ammettere – cosa che a lui secca – che conosciamo solo per ipotesi. Ma questo limite lo pone lui, non c’è in natura, non è un ente di natura. Infatti, dice qualcosa superiore rispetto a ciò che viene assunto: io l’ho assunto. … non sarà possibile conoscere scientificamente nulla per dimostrazione in senso assoluto, cioè, non c’è sapere epistemico ma solo ipotetico: il sapere della δόξα, forse è così, forse no, chi lo sa! Infatti, la dimostrazione si occupa dei predicati che ineriscono per sé agli oggetti. I predicati ineriscono per sé in due modi: infatti lo sono sia quelli che sono presenti nelle cose cui ineriscono nel loro che cos’è, sia quelli nel cui che cos’è sono presenti quelle cose cui ineriscono: per esempio, al numero inerisce il dispari, il quale inerisce a numero, ma il numero stesso è presente nella definizione di dispari e, viceversa, pluralità o divisibilità sono presenti nella definizione di numero. Nessuna di queste due cose è possibile che sia infinita, neppure come il dispari si dice del numero. Una domanda: la serie dei numeri naturali è pari o dispari? A pag. 949. Ciò che dimostrato è infatti dimostrato grazie all’inserimento di un termine all’interno dell’intervallo, ma non grazie a un’assunzione aggiuntiva. Di conseguenza, se questo inserimento potesse proseguire all’infinito, sarebbe possibile che fossero infiniti medi tra due termini, ma questo è impossibile, se le predicazioni si arrestano verso l’alto e verso il basso. Che si arrestino è stato provato prima da un punto di vista generale, ora analiticamente. Una volta che siano state provate queste cose, è manifesto quanto segue: qualora la stessa cosa inerisca ad altre due, per esempio A sia a C sia a D, e che non si predichino l’una dell’altra, o in nessun modo o non di ogni oggetto relativo all’altro termine, questa non inerirà sempre in base a qualcosa di comune. Per esempio, l’avere gli angoli interni uguali a due retti inerisce all’isoscele e allo scaleno sulla base di qualcosa di comune… Ora, qui pone la questione dell’infinito attuale. A pag. 953. Qualora si debba provare, bisogna assumere ciò che si predica primariamente di B. Poniamo che questo sia C e D si predichi di questo nella maniera detta. Col procedere sempre così, non si assume mai nella prova una premessa, né qualcosa che inerisca esternamente ad A, ma il medio si infittisce sempre più, finché diventano termini indivisibili e il nesso uno solo. /…/ E come negli altri campi il principio è una cosa semplice, non è però la stessa cosa ovunque, ma nel peso è la mina, nel canto il diesis, in altro qualche altra cosa, così nel sillogismo l’uno è la premessa immediata, mentre nella dimostrazione e nella conoscenza scientifica è l’intellezione. Nel sillogismo è l’uno la premessa immediata. Il che è interessante perché è un altro modo per porre una separazione: la premessa immediata, quella da cui si parte, è l’uno, quindi, non può essere molti, deve essere uno; soltanto se è uno c’è la possibilità di costruire tutti i sillogismi, di ogni sorta. A pag. 955. Dice della superiorità della dimostrazione universale su quella particolare perché quella universale consente di conoscere anche il perché dei particolari, in quanto raggruppa tutti i particolari e si ha pertanto una conoscenza più ampia. A pag. 961. Inoltre, quanto più la dimostrazione è particolare, tanto più conduce verso gli infiniti, mentre quella universale verso ciò che è semplice e verso il limite. Ma le cose, in quanto infinite, non sono conoscibili scientificamente, in quanto finite, invece, sono conoscibili scientificamente. Dunque, sono più conoscibili scientificamente in quanto universali che in quanto particolari. È possibile conoscere soltanto attraverso l’universale, cioè, attraverso l’inganno: è l’unico modo per conoscere qualcosa, perché i particolari sono infiniti. È il problema di Severino degli astratti rispetto al concreto: quanti sono gli astratti che devono partecipare al concreto perché il concreto sia effettivamente tutto? Dunque, con i particolari non va bene perché i particolari conducono all’infinito. Da qui, naturalmente, la necessità dell’universale: l’universale unifica, rende ex pluribus unum. A pag. 971. È più esatta e anteriore rispetto a un’altra scienza quella che si occupa sia del che sia del perché, ma non del che separatamente dalla scienza del perché. Bisogna sapere del che delle cose, ma anche di quella scienza che si occupa del perché. La scienza che si occupa del perché è quella scienza che, potremmo dire, sta più in alto, che domina tutto. Ma sono banalità! A pag. 975. Di ciò che accade per caso non c’è conoscenza scientifica mediante dimostrazione. /…/ Neppure mediante la percezione è possibile conoscere scientificamente. Infatti, anche se la percezione è relativa a una qualità e non a questo qualcosa, tuttavia è necessario percepire questa cosa qui in un dato luogo e in questo momento. D’altra parte, è impossibile percepire ciò che è universale e vale in tutti i casi, perché non è un questo né è ora. L’universale è appunto un universale, cioè, eterno. Non sarebbe infatti un universale, dal momento che diciamo che è universale ciò che è sempre e ovunque. È per l’appunto eterno. C’è una possibile obiezione perché l’universale qui sembra scivolare verso l’infinito. È l’infinito che è eterno; se è finito, vuol dire che non è eterno. Qui Aristotele non si è accorto del problema: parlando di universale come qualcosa di eterno, lo si pone come infinito, perché solo l’infinito è indeterminato, inconoscibile. Ora, poiché le dimostrazioni sono universali, ma non è possibile percepire gli universali, è manifesto che non è neppure possibile conoscerli scientificamente mediante la percezione; tuttavia, è chiaro che, anche se si potesse percepire che il triangolo ha gli angoli uguali a due retti, si dovrebbe ricercare una dimostrazione e non conosceremmo già, come affermano invece alcuni. In effetti, è necessario percepire il particolare, mentre la conoscenza scientifica consiste nel conoscere l’universale. Perciò, anche se, fossimo pure sulla luna, vedessimo la terra che si frappone, non conosceremmo la causa dell’eclissi. Infatti, percepiremmo che ora avviene l’eclissi, e non in assoluto perché avviene, dal momento che non c’è, come si è detto, percezione dell’universale. In effetti, l’universale è una costruzione, ciò che si dà sono i particolari. Quindi, questa costruzione che si fa e che consente la conoscenza epistemica è una costruzione che avviene attraverso l’inganno, facendo di molti particolari un universale. Questo è palesemente un inganno, perché quanti particolari?

Intervento: …

Però, i molti qui cadrebbero sotto la categoria della quantità. Ma in questo caso è un po’ diverso perché i molti sono le cose che si dicono, che sono molte, della sostanza noi diciamo tante cose. Qui l’universale appare come una costruzione, cioè, come una categoria, come qualcosa che si dice, perché sorge dai particolari e noi diciamo che questi particolari convergono verso l’universale. Il fatto è che lo diciamo noi. Poi, distingue tra opinione e conoscenza scientifica. Naturalmente, la conoscenza scientifica è quella che procede dal sillogismo scientifico, mente l’opinione è quella che giunge a una conclusione senza che il medio del sillogismo sia necessario. Dice che sia la conoscenza scientifica che l’opinione viaggiano fino a un certo punto insieme, ma poi si separano e si separano quando la conoscenza scientifica si appoggia su qualcosa di necessario, mentre l’opinione non si appoggia su nulla di necessario.