6 dicembre 2017
M. Heidegger, Essere e Tempo
A pag. 412. L’esser-gettato, innanzi al quale l’Esserci può certamente esser portato in modo autentico perché si comprenda autenticamente in esso, rimane nondimeno nascosto all’Esserci quanto al suo “donde” e al suo “come” ontici. L’esser gettato sappiamo che può essere autentico o inautentico, rimane comunque sempre gettato. Infatti, dice, questo esser gettato può rimanere nascosto all’Esserci quanto al suo “donde” e al suo “come” ontici, cioè, quanto al suo “da dove vengono” e al suo “dove vanno” ontici, cioè, rispetto all’ente. Questa chiusura non è affatto soltanto un sussistete non-sapere come fatto, ma costituisce l’effettività dell’Esserci. È interessante il fatto che questa chiusura costituisca l’effettività dell’Esserci. Ha già detto in diverse altre occasioni che la deiezione non è eliminabile, la deiezione c’è sempre, anzi, dice che la presentificazione delle cose è deiettiva. Essa determina anche il carattere estatico dell’abbandono dell’esistenza al nullo fondamento di se stessa. La chiusura determina anche il carattere estatico dell’abbandono dell’esistenza, nel senso che l’Esserci non si prende cura di sé. L’Esserci è travolto nell’essere-gettato, cioè, in quanto gettato nel mondo, si perde presso il “mondo” per la sua remissione effettiva a ciò di cui ha da prendersi cura. Il presente, che costituisce il senso esistenziale del coinvolgimento travolgente, non raggiunge mai da parte sua alcun altro orizzonte estatico, a meno che, nel decidersi, si riprenda dalla perdizione e possa, mantenendosi nell’attimo, aprire la rispettiva situazione e con essa la “situazione-limite” originaria dell’essere-per-la-morte. (pagg. 412-413) Sta dicendo che l’Esserci comunque non evita la deiezione. Sappiamo che nasce nella chiacchiera e che non l’abbandona mai, in nessun modo. Qui usa un termine interessante, si riprenda dalla perdizione, nel senso che si ripiglia, e solo a questa condizione, mantenendosi nell’attimo, cioè in quel momento in cui non accade nulla ma tutto è possibile. Occorre passare di lì, dice Heidegger, attraverso questo attimo in cui non accade nulla, non c’è niente, è pura possibilità. Cosa che nella deiezione non c’è, non c’è l’attimo, non c’è questo fermarsi, in una totale assenza di cose, per potere accogliere la possibilità che c’è innanzi.
A pag. 413. Punto d – La temporalità del discorso. Poiché il discorso è sempre un discorrere intorno all’ente… Quando si parla si parla sempre di qualcosa. … benché non primariamente e prevalentemente nel senso dell’asserire teoretico… Si parla di qualche cosa ma non necessariamente di questioni teoretiche. …l’analisi della costituzione temporale del discorso e l’esplicazione del carattere temporale delle forme linguistiche possono essere intraprese solo se è stato risolto il problema della connessione fondamentale di essere e verità sulla scorta della problematica della temporalità. (pagg. 413-414) L’analisi della costituzione temporale del discorso, cioè, come la questione della temporalità, ovviamente come la intende lui, e cioè come gettatezza, essere stato e presentificazione, come la questione della temporalità, dunque, interviene nel discorso. Questa riflessione, dice, può essere intrapresa solo se si risolve il problema della connessione di essere verità. Eh sì, perché la verità che cosa comporta? Una forma linguistica particolare, per esempio: questo è quest’altro. Quando si afferma la verità, come sappiamo, si afferma qualche cosa. E dice In tal caso sarà possibile fissare anche il senso ontologico dell’“è”, che una teoria del tutto estrinseca della proposizione e del giudizio ha deformato a “copula”. Non si tratta soltanto della copula ma in quell’“è” c’è ben altro, c’è la verità, per esempio. Solo partendo dalla temporalità del discorso, cioè dell’Esserci in generale, può esser chiarito il “costituirsi” del “significato” e può esser resa comprensibile ontologicamente la possibilità della formazione di concetti. Perché dice una cosa del genere? Perché solo partendo dalla temporalità è possibile la possibilità della formazione di concetti? Perché? Lo dice subito dopo ma forse avete già inteso che è per via della comprensione, quella comprensione che è l’apertura del Ci, che interviene nel momento in cui c’è gettatezza. L’Esserci è sempre gettatezza, è gettato innanzi e, nel momento in cui è gettato innanzi, nel prendersi cura di qualche cosa, lì, in questa apertura del Ci verso il qualche cosa di cui si prende cura, c’è la comprensione. È un concetto, come vi dicevo, abbastanza complesso ma può essere forse meglio inteso così. Io sono in quanto sono sempre rivolto verso qualche cosa, verso un prendermi cura di qualche utilizzabile. Ora, essendo gettato verso qualche cosa di cui mi prendo cura e non essendo niente altro che questo, la comprensione a questo punto non è altro che l’aprirsi verso ciò di cui mi prendo cura, l’aprirsi verso qualche cosa, che sarebbe poi ciò che lui chiama Lichtung, l’illuminazione, l’essere che illumina l’ente per cui appare, ma appare perché io me ne sto prendendo cura. Quindi, rivolgendomi a qualche cosa questo qualche cosa mi appare, intanto, come qualcosa. È questa propriamente la comprensione, una sorta di anticipazione che accade nel momento in cui io anticipo che, nel prendermi cura di qualche cosa, questo qualche cosa è un qualche cosa. Questo devo averlo già anticipato. Ora, non si intende tanto, questo è uno dei problemi nella teoria di Heidegger, ma si intende meglio se, anziché parlare di comprensione, di mondo, ecc., parliamo di linguaggio. In questo caso è più semplice intendere che io, rivolgendomi a un qualche cosa, questo qualche cosa, cui mi rivolgo e di cui prendo cura, è già necessariamente un significato, un qualche cosa che significa per me, altrimenti non esisterebbe. In questo modo risulta più semplice intendere quello che dice subito dopo. La comprensione si fonda primariamente nell’avvenire (anticipare o aspettarsi). Cioè, nell’anticipazione. Che cos’è l’avvenire per Heidegger? L’avvenire è la gettatezza e in questa gettatezza, in cui io mi trovo sempre necessariamente, che mi fa incontrare qualche cosa ma qualche cosa in quanto significato, cioè, deve essere già significato questa cosa perché io la incontri. Il problema è: com’è che è già significato? Riferendosi al linguaggio, certo, è più semplice, perché ho già appreso come funziona il significato, ho già appreso che ciascun elemento è sempre in relazione con altri, ecc. Rispetto alla posizione di Heidegger deve fare un giro in più, perché nell’approcciarsi a un qualche cosa questo qualche cosa, come dicevo prima, deve esser già un qualche cosa, ma da dove arriva questo? Dal fatto che io sono sempre preso in un prendermi cura e se mi prendo cura mi prendo cura di qualche cosa. Quindi, dovete pensare a tutte queste operazioni in una sorta di simultaneità, è fondamentale intendere che l’Esserci, cioè io, intanto è un significante, e il significante è tale in quanto preso in una gettatezza, in quanto è gettato verso un altro significante. C’è un’anticipazione in questo, come se questo significante, che sono io, già sapesse che quell’altra cosa, verso cui è gettato, è già un significante. Ora, per quanto riguarda il linguaggio, è più semplice, nel senso che questa è la struttura del linguaggio, il suo funzionamento, però, è importante intendere questo, che io, in quanto significante, in quanto ente, l’Esserci è un ente, anche se l’unico in grado di fare tutte queste cose, sono sempre gettato verso un altro significante e, quindi, è come se anticipassi già, in questa gettatezza, che ciò che incontrerò, cioè ciò di cui mi occuperò, sarà un altro significante. Qui c’è l’aspetto del passato: incontrerò ciò che sono sempre stato, e cioè un significante, non posso incontrare altro se non un significante, che sono già sempre stato. Questo è per Heidegger il funzionamento dell’anticipazione, nel senso che anticipa ciò che già sa, il significante già sa che incontrerà un altro significante. È questo il suo movimento: andare sempre verso un altro significante, che ovviamente ha un suo significato altrimenti non sarebbe un significante. Quindi, in questa gettatezza c’è già tutto e ciascuno non è altro che questo essere gettato verso un altro significante. È per questo che non può esserci in Heidegger l’idea dell’essere come sostanza fissa e immobile, così come è sempre stato pensato l’essere nella filosofia da Platone in poi. L’essere non è un qualche cosa che è fermo lì ma l’essere è in quanto si sta prendendo cura di qualche cosa, quindi, è già gettato, perché si sta prendendo cura. L’essere è prendersi cura di qualche cosa, questo è per Heidegger l’Esserci. E l’essere dell’Esserci, ciò che è proprio dell’Esserci, è per l’appunto la Cura, il fatto che è prendentesi cura di qualche cosa. Dal momento in cui si prende cura di qualche cosa è Esserci, ma non può non prendersi cura di qualche cosa l’Esserci, perché l’Esserci è questo prendersi cura di qualche cosa, niente altro che questo. La situazione emotiva si temporalizza primariamente nell’esser-tato (ripetizione o oblio). Ripetizione se è autentico, oblio se è deiezione, cioè, la ripetizione di ciò che io sempre sono, che sono stato e che continuo a essere, cioè, un significante; oppure oblio, cioè non tengo conto dell’essere dell’Esserci, non tengo conto che sono questo, un qualche cosa che si sta prendendo cura di qualche cosa, cioè ancora, che sono quello che sono perché sono sempre in vista di qualche cosa. Io sono sempre in vista di: è questo che sono, io non sono altro che questo, un essere in vista di. È questa la gettatezza. …la temporalità si temporalizza tutta in ogni estasi… L’estasi è la gettatezza, l’esser fuori, ex stare. …cioè nell’unità estatica della rispettiva totale temporalizzazione della temporalità si fonda la totalità dell’insieme strutturale di esistenza, effettività e deiezione, cioè l’unità della struttura della Cura. Unità estatica si può intendere così: l’essere gettato, l’essere sempre fuori, costituisce una sorta di unità, un qualche cosa che non può essere scomposto. È qualcosa che è sempre presente ed è questo che fonda la totalità dell’insieme strutturale di esistenza, effettività e deiezione, cioè l’unità della struttura della Cura, cioè, la Cura è fatta di questo: esistenza, cioè l’Esserci; effettività, cioè l’essere effettivamente esistente, il poter dire che c’è; la deiezione, cioè il prendermi cura del mondo, l’essere nel mondo. La temporalizzazione non significa una “successione” delle estasi. Cioè, una gettatezza, poi un’altra gettatezza, ecc. L’avvenire non è posteriore all’esser-stato, e questo non è anteriore al presente. È per questo che vi parlavo di simultaneità. La gettatezza, l’esser gettato innanzi, l’avvenire, come lo chiama lui, è simultaneo all’esser stato: io posso avvenire, usando le sue parole, perché sono sempre stato, quindi, avvengo a ciò che sono e sempre stato. Rispetto al significante: il significante va incontro a un altro significante ma può farlo perché questo significante ha alle spalle altri significanti, cioè, è sempre stato un significante e ciò che incontra è, sì, qualcosa che gli viene incontro ma gli può venire incontro perché è già sempre stato un significante. A pag. 415. § 69 La temporalità dell’essere-nel-mondo e il problema della trascendenza nel mondo. L’unità estatica della temporalità, cioè l’unità del “fuori di sé” delle estasi dell’avvenire… questa è l’unità estatica, nel senso che questi tre momenti costituiscono una unità, non si possono separare. …dell’esser-stato e del presente, è la condizione della possibilità di un ente che esiste essendo il suo Ci. L’ente esiste in quanto “qui”, il suo esser-ci, il suo esser qui, ogni ente esiste in quanto è qui, adesso. L’ente che porta il nome di Esser-ci è “aperto nella radura”. La luce di questo essere-aperto-nella-radura dell’Esserci non è una forza onticamente presente in esso, né una sorgente di luminosità che emana e che a volte si trova in questo ente. Questa luce non è una cosa che adesso c’è e adesso non c’è. Ciò che essenzialmente apre nella radura questo ente, ciò che lo rende per se stesso “aperto” e “chiaro” è stato determinato, prima ancora di ogni interpretazione “temporale, come Cura. Questo è importante. Ciò che essenzialmente apre a questo è il fatto che io me ne prenda cura. Nel momento in cui mi prendo cura dell’ente allora l’ente si apre, si mostra, appare. Non appare di per sé, perché se apparisse di per sé sarebbe indipendente dall’Esserci, sarebbe una roba messa lì che l’Esserci incontra. No, la incontra nel momento in cui si prende cura, è lì, nel prendersi cura, che l’ente si illumina, appare. Occorre che io mi prenda cura perché questo ente sia, sia nel senso che mi appare nel modo in cui mi appare, ma devo prendermene cura, altrimenti non succede nulla. Infatti, dice che questo ente è stato determinato come Cura, nel mio prendentemi cura di qualche cosa. È nel momento in cui mi prendo cura di qualche cosa che questo qualche cosa può apparire. Ricordiamoci sempre che la Cura è l’essere dell’Esserci, è ciò che caratterizza l’Esserci nel modo più proprio, più radicale. È questo essere-nella-radura che rende possibile ogni illuminazione e ogni rischiaramento, ogni percezione, ogni “visione” e ogni disponibilità di qualcosa. Aperto nella radura è la Cura. Quindi, è questo essere aperto nella radura che rende possibile ogni illuminazione, ogni percezione e ogni visione. Il mio prendermi cura: è questo che rende possibile ogni visione. Non è che io vedo qualche cosa prima, è perché io mi prendo cura che sono un prendentesi cura, e in questo prendermi cura qualche cosa appare, non prima. La temporalità estatica apre originariamente il Ci nella radura. La temporalità estatica, quindi, la simultaneità dell’avvenire, dell’esser stato e del presentificare, è questo che apra il Ci dell’Esserci nella radura. È questa gettatezza, in cui accadono il presente, il passato e il futuro, che apre il Ci, che rende l’essere un Esserci, qui, nel momento in cui mi prendo cura di qualche cosa, soltanto allora io sono qui, in quanto prendentemi cura. Questo è fondamentale in Heidegger, prendersi cura, la Cura, sono termini essenziali, cioè, tutto ruota intorno a questo, tant’è che lo definisce l’essere dell’Esserci. L’Esserci è un qualche cosa che si prende cura. Quando dice che la Cura è l’essere dell’Esserci dice che l’Esserci è prendersi cura, nient’altro che questo. Solo muovendo dal radicarsi dell’Esser-ci nella temporalità si può comprendere la possibilità esistenziale del fenomeno che, all’inizio dell’analitica dell’Esserci, abbiamo presentato come costituzione fondamentale dell’Esserci: l’essere-nel-mondo. L’essere nel mondo è possibile grazie alla temporalità, che è l’Esserci. Anche qui ci ricorda che l’essere nel mondo non è un essere che a un certo punto incontra il mondo, ma la condizione perché io possa essere nel mondo è che io sia un Esserci, cioè, che io sia un prendentemi cura di qualche cosa, che è sempre, come dicevo prima, il significante che va verso un altro significante. Ora che la Cura stessa è stata ontologicamente definita e ricondotta al suo fondamento esistenziale, la temporalità, è possibile chiarire concettualmente in modo esplicito il prendersi cura stesso, muovendo dalla Cura, cioè dalla temporalità. (pagg. 415-416) Quando dice la Cura, cioè la temporalità, ci sta dicendo che la Cura, che è il prendersi cura, è la temporalità, cioè è attraverso l’esser gettato, l’essere gettato di qualche cosa che è quello che è in quanto essente stato sempre quello che è, che può pensare il presente, può pensare a qualcosa che esiste, o meglio, è il modo in cui pensa a qualcosa che esiste. Può essere gettato solo perché è sempre stato questa gettatezza, e solo a questo punto qualche cosa può apparire, soltanto nella gettatezza. Come diceva prima, è soltanto nel momento in cui mi prendo cura di qualche cosa questo qualche cosa è qualche cosa. Se non mi prendessi cura, se non ci fosse la Cura, non ci sarebbe l’Esserci. Non dimenticate che la Cura è l’essere dell’Esserci, cioè è ciò che l’Esserci è propriamente. Quindi, se non c’è Cura non c’è l’Esserci, se non c’è l’Esserci non c’è niente. Ecco perché non c’è neanche il presente, non c’è neanche il qualche cosa: perché non c’è nessuno per cui quel qualcosa sia qualcosa. L’interpretazione della temporalità dell’“esser-presso” (l’utilizzabile e la semplice presenza intramondana) preveggendo ambientalmente e prendendosi cura teoricamente mostra inoltre come questa stessa temporalità sia, fin dall’inizio, la condizione della possibilità dell’essere-nel-mondo in cui si fonda l’esser-presso l’ente intramondano in generale. Quindi, la temporalità è la condizione per essere nel mondo, quindi, essere gettatezza. La temporalità è gettatezza ma è anche prendersi cura, perché la gettatezza è soprattutto prendersi cura. Non è che sia gettato così per niente ma è gettato verso qualcosa di cui si sta prendendo cura: mentre io mi sto prendendo cura di qualunque cosa sono gettato verso questa qualunque cosa. Si chiede a questo punto L’analisi tematica della costituzione temporale dell’essere-nel-mondo… Dell’essere nel mondo come qualcosa che segue non temporalmente ma logicamente la temporalità. …conduce a questi problemi: In quale modo, in generale, è possibile qualcosa come il mondo? In quale senso il mondo è? Che cosa trascende il mondo e come? quale “dipendenza” sussiste fra l’ente intramondano “indipendente” e il mondo trascendente? Cioè, che relazione c’è tra l’ente intramondano “indipendente”, cioè che non dipende dal mondo, e il mondo trascendente, non quello immanente ma l’idea, il concetto di mondo. L’esposizione ontologica di questi problemi non costituisce di per sé la loro soluzione. Non basta enunciare il problema perché questa sia la soluzione, non è così automatico. Al contrario, essa non ha altro scopo che la chiarificazione preliminare necessaria delle strutture in base alle quali soltanto è possibile impostare il problema della trascendenza. L’interpretazione esistenziale-temporale dell’essere-nel-mondo ha tre momenti: a) la temporalità del prendersi cura preveggente ambientalmente… Cioè, come interviene nel prendersi cura la temporalità, che è sempre determinata da questi tre momenti, presente, passato e futuro, cioè l’avvenire, l’esser stato e la presentificazione. …b) il senso temporale della modificazione del prendersi cura preveggente ambientalmente in conoscenza teoretica della semplice-presenza intramondana… Preveggente ambientalmente non è niente altro che la gettatezza. Essendo gettato prevede ciò che è già sempre stato. È sempre lo stesso concetto ma posto in modo differente. c) il problema temporale della trascendenza del mondo. Comincia dal primo, a – La temporalità del prendersi cura preveggente ambientalmente. Abbiamo definito l’esser-presso il “mondo” prendendosene cura come commercio nel e col mondo-ambiente. Uno è presso il mondo in quanto ha a che fare con le cose del mondo. Quali fenomeni esemplari dell’esser-presso… abbiamo scelto l’usare, il manipolare, il produrre l’utilizzabile e i loro modi difettivi e neutri: cioè l’esser-presso ciò che appartiene al bisogno quotidiano. (pagg. 416-417) Modo difettivo, cioè mi manca qualche cosa; modo neutro, non serve a niente. La stessa esistenza autentica dell’Esserci si mantiene in questo prendersi cura, anche quando sia per essa “indifferente”. Qui Heidegger dice che mi prendo cura di qualche cosa anche se questo qualche cosa manca. Per esempio, voglio prendere l’accendino per accendermi la sigaretta, dov’è? Mi sto prendendo cura anche in questo caso dell’accendino anche se non c’è. Oppure, se a fianco dell’accendino ne avessi altri tre, questi altri tre sono inutili, non mi servono a niente. Ma il fatto di considerarli inutili e di non prenderli in considerazione, che sarebbe l’aspetto neutro, comunque anche questo è per Heidegger un prendersi cura. In qualunque modo io mi rapporti al mondo, è sempre comunque un prendersi cura. L’esser-presso l’utilizzabile non può essere chiarito ontologicamente in base all’utilizzabile… Non c’è l’utilizzabile prima dell’Esserci. …né, d’altra parte, questo può essere dedotto da quello. Né posso dedurre l’Esserci dall’utilizzabile, né utilizzabile dall’Esserci. Il prendersi cura in quanto modo di essere dell’Esserci e ciò di cui si prende cura in quanto ente intramondano non sono tuttavia nemmeno semplicemente-presenti assieme. Qui sta cercando di vedere qual è la relazione tra il prendersi cura e ciò di cui mi prendo cura, l’utilizzabile, qualunque cosa sia. Fra essi esiste sussiste nondimeno una “connessione”. La comprensione adeguata del con-che il commercio ha a che fare getta luce sul commercio stesso. Bisogna comprendere adeguatamente con che cosa questo commercio, nel senso dell’avere a che fare con qualche cosa per qualche motivo. Bisogna riflettere sul con che si ha a che fare, dice Heidegger, la comprensione adeguata di questo getta luce sul commercio stesso. Nell’analisi dell’ente che si incontra per primo, si è già fatto un guadagno essenziale, sempre che non si sia saltato di pari passo il carattere di mezzo specificatamente proprio di questo ente. È però necessario comprendere inoltre che il commercio prendentesi cura non ha mai a che fare con un singolo mezzo. Questo mezzo, questo utilizzabile, non è mai nudo, puro. L’impiego e la manipolazione di un determinato mezzo sono, come tali, orientati nell’insieme articolato dei mezzi. Quando mi occupo di qualche cosa questo qualche cosa è quello che è in relazione a tutti gli altri mezzi, a tutti gli altri strumenti, è in relazione continua con queste cose. Quando, ad esempio, cerchiamo un mezzo “fuori posto”, non si tratta di un “atto” isolato con cui intendiamo semplicemente o in modo primario soltanto il mezzo cercato, ma in esso è già pre-scoperto l’intero dominio dei mezzi. Quando io cerco questo accendino, ecco, questo è già all’interno di un sistema di relazioni tale per cui so che quest’altra cosa non è un accendino, e nemmeno quest’altra, ma questo sì. Quindi, la cosa che mi serve è già pre-scoperta all’interno dell’intero dominio dei mezzi, io so cosa sto cercando. Sembra una banalità, però… Ogni “mettersi all’opera” e ogni dar di piglio non vanno dal nulla a un mezzo già dato in modo isolato, ma provengono da un mondo di opere che è già sempre aperto prima del maneggio di qualsiasi mezzo. Se volete dirla in modo più semplice, occorre essere nel linguaggio per potere utilizzare delle cose. Un animale fuori dal linguaggio non utilizza niente. Per poter utilizzare occorre che ci sia già un sistema di relazioni che rende un qualche cosa intanto un qualche cosa, poi questo qualche cosa come un utilizzabile, poi un utilizzabile per quello che mi serve. C’è già una rete di riferimenti, riferimenti che sono ovviamente relazioni. L’analisi del commercio che mira al relativo con-che non deve perciò orientare l’esistente esser-presso l’ente di cui ci si prende cura su un singolo mezzo utilizzabile isolato, bensì sulla totalità dei mezzi. Quando mi oriento lo faccio sulla base di una rete di connessioni. Quindi, non il singolo elemento, perché se il singolo elemento non fosse inserito in una rete di relazioni con tutti gli altri non esisterebbe. L’esempio del significante qui è più evidente: non posso utilizzare un significante se questo significante non è già preso in una rete di relazioni con tutti gli altri significanti; un significante isolato, senza nessuna relazione, non è un significante. Ci spinge a questa concezione del con-che del commercio anche la considerazione del carattere specifico dell’essere del mezzo utilizzabile, l’appagatività. Il carattere specifico dell’essere del mezzo utilizzabile è la sua appagatività, cioè il suo essere utilizzato di fatto per qualcosa. È questa l’appagatività: l’essere utilizzato; prima era un utilizzabile, poi un utilizzato. A pag. 418. Dire: con qualcosa presso qualcosa c’è uno stato di appagamento, non vuol essere la constatazione di un dato di fatto ontico, bensì indicare il modo di essere dell’utilizzabile. Non è un dato di fatto che qualcosa sia un utilizzabile, cioè Heidegger non è interessato a questo, a lui interessa il fatto che in questo modo l’appagatività indica il modo di essere dell’utilizzabile. L’utilizzabile è tale in quanto è all’interno di una appagatività, non esiste di per sé ma è sempre in relazione a ciò che ne voglio fare. Il che è un altro modo per dire che ciascuna cosa è sempre qualche cosa in vista di qualche cos’altro. Il commercio manipolante non si rapporta esclusivamente né solo al presso-che né solo al con-che del lasciar appagare. Quest’ultimo si costituisce invece nell’unità del ritenimento aspettantesi, in modo tale che la presentazione che ne scaturisce rende possibile la caratteristica immedesimazione del prendersi cura col suo mondo di mezzi. (pagg. 418-419) Per dirla in un altro modo, il lasciar appagare non è soltanto un dato di fatto, cioè che un utilizzabile a un certo punto sia un utilizzato, non è solo questo, c’è qualcosa di più. Questa presentazione che scaturisce nel prendermi cura di qualche utilizzabile rende conto di qualcosa di più ampio, e cioè rende conto della possibilità del prendersi cura, dice Heidegger, col suo mondo di mezzi. Facendo questo metto in movimento tutto il mondo di mezzi che è già presente e del quale io posso prendermi cura. Che è un po' quello che diceva prima: un utilizzabile qualunque non esiste di per sé, esiste in quanto preso in una rete di utilizzabili, e cioè esiste preso nel mondo. Chi si impegna “autenticamente” in qualcosa non si dedica né esclusivamente all’opera né esclusivamente allo strumento né esclusivamente all’uno e all’altro “insieme”. Qui ci dice che quando qualcuno fa qualcosa, che si impegna autenticamente, non è preoccupato né dall’opera che sta facendo né dallo strumento ma, dice, Il lasciar appagare, che si fonda nella temporalità, ha già istituito l’unità dei riferimenti in cui il prendersi cura “si muove” secondo la visione ambientale preveggente. E qui c’è la risposta a tutta la questione. Un lasciar appagare che si fonda nella temporalità. Sappiamo che la temporalità è fatta di questi tre momenti: la gettatezza, l’esser gettati avanti, l’avvenire, l’esser già sempre stato e il presente. Quindi, il lasciar appagare, il lasciare che uno strumento giunga alla sua appagatività, “si realizzi” … Questa penna è un utilizzabile, se io voglio scrivere qualche cosa e scrivo qualcosa, ecco, in questo momento c’è della appagatività, cioè questo strumento ha raggiunto la sua appagatività, è stato utilizzato per quello che serve. Ma questo appagare, dice Heidegger, ha già istituito l’unità dei riferimenti in cui il prendersi cura “si muove”. Per fare questa operazione io mi sono mosso già all’interno di un mondo, che io già conosco, che è già presente perché io possa fare tutte queste cose. So già che la penna è un utilizzabile, che scriverà e che se scrivo “penna” troverò scritto “penna”, so già che questo è un foglio su cui scrivere, so che questo è un piano che mi sosterrà mentre scrivo. L’unità dei riferimenti in cui il prendersi cura “si muove” secondo la visione ambientale preveggente, cioè secondo il mondo con cui vedo il mondo, secondo il modo in cui io sono nel mio mondo. Quindi, l’utilizzo di qualche cosa, la sua appagatività, tutto questo per dire che non è qualcosa di isolato o di isolabile ma avviene, sempre nel mondo. Infatti il titolo di questo capitolo è La temporalità del prendersi cura preveggente ambientalmente. Il prendersi cura è sempre situato in una preveggenza ambientale, cioè all’interno del mondo in cui io sono e che mi permette di “sapere già” un qualche cosa, e questo “sapere già” non è dato da niente altro che dalle relazioni, che sono comunque presenti nel momento in cui io faccio una qualunque cosa. Il se-Stesso, per intraprendere “realmente” delle opere e volgersi alla manipolazione perso nel mondo dei mezzi, deve obliare se stesso. Questo è fondamentale. Il se-Stesso deve obliare se stesso. È esattamente la stessa cosa, anche se detta in tutt’altro modo, di ciò che dicevamo quando si affermava che, per potere dire una qualunque cosa, io devo fermare qualcosa che non è fermabile, devo obiettivare qualcosa che di per sé non è obiettivabile, non è obiettivabile perché non è un oggetto, cioè non è delimitabile, non è determinabile in modo assoluto. Quando io parlo uso delle parole e ciascuna di queste parole ha un suo significato, io le uso per quel significato che grosso modo tutti conosciamo, ma faccio come se quella cosa fosse quella cosa lì e fosse fissa. Devo farlo, devo obiettivare qualcosa per poterlo utilizzare. Ci sta dicendo che, per potere utilizzare un utilizzabile, devo obiettivarlo, sennò cosa utilizzo? La stessa cosa accade in ambito più astratto, rispetto a una teoria. Qualunque teoria è sempre necessariamente un progetto metafisico, un progetto obiettivante, devo obiettivare ciò di cui la teoria si occupa, sennò di che cosa si occupa? Deve obliare che questa obiettivazione di per sé non sarebbe possibile, perché non posso obiettivare. Eppure, se non lo faccio, non faccio nessuna teoria, perché costruendo una teoria mi occupo di qualche cosa di cui parla la teoria, quindi, devo obiettivarlo, devo fermarlo. Ciò che ci sta dicendo Heidegger è la stessa cosa, quando dice che deve obliarsi: Alla temporalità costitutiva del lasciar appagare è essenziale un oblio particolare. È il se-Stesso che oblia se stesso per poter utilizzare l’utilizzabile. È quello che vi dicevo prima: parlando obiettivo continuamente cose. Non potrei affermare nulla se non le fermassi, se non pensassi di fermarle in qualche modo. Perché l’oblio di se stesso? Perché per fare questo devo dimenticarmi che quella cosa non è quella che è, ma è quella che è, adesso usiamo la figura di Hjelmslev, in quanto intersezione di un fascio di relazioni. Quindi, non c’è propriamente ma, per poterla utilizzare, devo fare come se… Io utilizzo questa penna, ma so che cos’è esattamente questa penna? No, ma questo mi impedisce di usarla? No, continuo a usarla, senza sapere che cosa sia.