6 novembre 2024
Pierre Hadot Il velo di Iside
Questa sera vi leggerò alcune cose tratte dal libro di Pierre Hadot Il velo di Iside. Ci sono alcune cose interessanti. La questione centrale è quella dell’indicibile, dell’ineffabile: il velo di Iside nasconde qualche cosa, una verità che non si conosce. Tra le varie cose, Hadot pone due posizioni: quella di Prometeo e quella di Orfeo. Prometeo è quella figura che strappa con la forza il sapere agli dèi per consegnarlo agli uomini; Orfeo è quello che, invece, vuole conservare questo mistero degli dèi, perché, dice, è meglio che voi umani non sappiate, perché, se sapeste, mal v’incoglierebbe. Iside fa parte della antica mitologia egizia - in parte anche sembra venire dalla Persia. Molto più recentemente, l’ultima proposizione del Tractatus Logico Philosoficus di Ludwig Wittgenstein: “ciò di cui non si può parlare si deve tacere”. Cos’è ciò di cui non si può parlare? Hadot fa una serie di considerazioni intorno all’angoscia: questo qualcosa di ineffabile è ciò che produce angoscia, produce ansia, produce terrore in alcuni casi, tanto che dice che è meglio non togliere il velo a Iside, perché ciò che si vedrebbe non è per gli umani, solo Dio eventualmente potrebbe. E qui si aprono un po’ di questioni. Intanto, atteniamoci a questo, e cioè: che cos’è ciò di cui non si può parlare? Poniamo le cose in termini molto semplici: ciò di cui non si può parlare è il fondamento delle mie convinzioni. Ciò di cui io sono convinto, ciò che credo fortemente, è questo ciò di cui non si deve parlare. Più che non si deve parlare, è meglio non parlarne, perché il fondamento delle mie convinzioni, cioè, ciò su cui poggiano le mie convinzioni è nulla… se non per aspetti utilitaristici, ma, diciamola così, metafisicamente è assolutamente nulla, cioè, è qualche cosa che non può essere. Quindi, ciò di cui non si può parlare è effettivamente ciò che c’è dietro il velo. Ma perché non se ne può parlare? Perché dietro il velo non c’è niente. Hadot ne accenna ma non ne trae tutte le implicazioni che è possibile trarre. Non c’è nulla, nel senso che siamo noi che abbiamo immaginato che esista un velo, dietro il quale si nasconde chissà che cosa, ma non si nasconde niente. Perché abbiamo inventato questo velo? Per continuare a credere che dietro ci sia qualcosa, un qualche cosa che produce angoscia, ecc., ma questa angoscia, di cui parlano anche molti filosofi, serve soltanto a dare importanza alla cosa. Cosa che in realtà, invece, di importanza non ne ha nessuna.
Intervento: Verrebbe da dire, quindi, che il misticismo è una tecnica retorica.
Sì. Si inventa un qualche cosa da tenere velato in modo da fare credere che dietro il velo ci sia la verità. Quindi, tutto ciò che attiene anche al misticismo è una costruzione che ha questa finalità: mantenere l’idea che ci sia qualche cosa da qualche parte, che ci sia una verità epistemica che garantisca ciò che io credo; e, quindi, posso continuare a pensarmi dalla parte giusta della storia, perché Dio è con noi. Ora, Hadot dice delle cose che a noi interessano. A pagina 249. “C’è qualcosa che si nasconde dietro”. Ecco in che cosa credono gli sperimentatori e i simbolisti, sbagliandosi. I primi praticano un’ermeneutica della natura che cerca di scoprire ciò che si nasconde dietro i fenomeni, i secondi propongono anch’essi un’ermeneutica, quella del mito, sforzandosi di svelare il senso occulto delle immagini mitiche e scoprendo dietro i miti uno sfondo storico, indù o egizio. Non c’è da stupirsi del paragone imprevisto tra sperimentatori e interpreti della mitologia. Non dimentichiamoci che per Porfirio la Natura si avviluppa sia nelle forme viventi sia nei miti. Ciò che Goethe rifiuta, in entrambi i casi, è la distinzione stessa tra un dentro e un fuori, con la pretesa di trovare ciò che si nasconde dietro il simbolo mitico o la forma naturale. Simbolisti e sperimentatori si lasciano scappare ciò che è davvero vivo: lo “spazio libero” nel caso del Genio che svela della natura di Iside, la “ricchezza del mondo” nel caso di chi cerca di spiegare storicamente i miti e i simboli. Ciò che viene sempre presupposto è una verità epistemica, perché ciò che sta dietro deve essere quello che è, non può essere qualcosa che si modifica mentre io lo cerco, deve rimanere tale e quale. Che è anche il problema, in un certo senso, per esempio dei linguisti, i quali vogliono esaminare una certa parola isolandola dal discorso in cui quella parola si dice; ma una volta tolta dal discorso in cui questa parola esiste, la parola è un’altra cosa, non è più quella. Qui riprende delle quartine di Goethe. Rileggiamo adesso le quartine dedicate all’immagine del Genio che svela il busto della Natura. È quello che poi toglie il velo a Iside. Bisogna spiegarle le une con le altre. Per esempio, la prima cartina ammonisce il giovane intento a svelare la statua di Iside che verrà spaventato dal suo aspetto mostruoso. La seconda, ribadendo la minaccia di morte che pesa sullo svelamento sacrilego, invita il giovane, se vuole vivere, a tornare indietro, e cioè, secondo il disegno che accompagna il poema, verso il paesaggio di montagne... A pag. 250. L’Iside antica aveva detto: “Nessun mortale solleverà il mio peplo”. Chi alza il velo della dea rischia quindi di morire. Ma agli occhi di Goethe si tratta, in un certo senso, di una morte spirituale. Raffigurandosi la Natura come nascosta da un velo, il rischio è quello di restare ipnotizzati da ciò che si presume nascosto sotto il velo, e il rischio è, soprattutto, di pietrificare se stessi, di non percepire più il divenire e la Natura vivente. Perché questo debba accadere, non si sa. “Rispettare il mistero” significa allora accontentarsi di vedere la Natura così com’è, senza forzarla con gli esperimenti che se la prendono col suo funzionamento normale e la costringono ad assumere configurazioni artificiali e contronatura. Per Goethe, l’unico strumento in grado di farci conoscere la natura sono i sensi dell’uomo, la percezione guidata dalla ragione e, soprattutto, la percezione estetica della natura. Per lui, come abbiamo visto, l’arte è la migliore interprete della natura. Sempre seguendo Goethe. A pagi. 253. Iside è dunque senza veli e non esiste alcun segreto della natura. Nondimeno Goethe usa a proposito della natura, la parola tedesca Geheimnis, che significa “segreto”, aggiungendo però l’aggettivo offenhares. Si potrebbe tradurre con “segreto alla luce del giorno”, o “segreto manifesto”. Ma è meglio ancora rendere Geheimnis con “mistero” anziché con “segreto”. Perché il mistero indica qualcosa che non può essere svelato, mentre il segreto indica qualche cosa che adesso è segreto ma possiamo renderlo evidente e manifesto, mentre il mistero resta mistero; e ciò che nasconde la dea è, appunto, il mistero. Ma se noi dovessimo, se volessimo soprattutto, considerare più attentamente la questione, e cioè qual è il mistero, qual è la scaturigine di tutta quella angoscia, di cui parlano i filosofi, Kierkegaard in testa, per arrivare poi fino a Lacan con la manque à être, la mancanza a essere, che costituirebbe per l’umano un disastro, in quanto non riesce mai a essere tutto. Perché dovrebbe essere tutto? Ma, dicevo, di questa angoscia. Rendiamo la cosa estremamente semplice: per dire che cos’è Gabriele devo dire ciò che Gabriele non è. Ora, questo ha degli effetti, direttamente o indirettamente, cioè, l’idea di non riuscire mai ad afferrare, a dominare la cosa. Questo sarebbe la scaturigine dell’angoscia. Ma se noi ci riflettiamo ancora un pochino, sorge la domanda: perché io dovrei volere sapere esattamente che cos’è, da dove viene? E perché, se dicendo che cos’è Gabriele dico ciò che Gabriele non è, questo dovrebbe produrmi angoscia? Se considero che questo non è altro che il funzionamento del linguaggio: per dire qualche cosa dico, sì, qualche cosa, λέγειν τί, ma κατά τίνός, proiettato su qualche cos’altro, necessariamente. A pag. 254. C’è una citazione di Goethe. Che cos’è che è più difficile? Quel che ti sembra più facile: vedere coi tuoi occhi ciò che sta davanti ai tuoi occhi. Questa sarebbe l’idea, in fondo, del mistero: tu ce l’hai davanti agli occhi ma non puoi vedere. È anche la metafora della luce: io vedo grazie alla luce, ma la luce, in quanto tale, non la vedo. La luce non si vede, si vedono solo gli effetti della luce. Citazione successiva. Il punto supremo che l’uomo può raggiungere è lo stupore. Quando un fenomeno originario suscita in lui questo stupore, deve stimarsi soddisfatto: nulla di più grande gli può essere concesso, non ha da cercare oltre qualcosa che stia dietro il fenomeno. Questo è il limite. In generale, però, la vista di un fenomeno originario non basta agli uomini, che vogliono di più. Sono come bambini che, dopo aver guardato in uno specchio, subito la voltano per vedere che cosa ci sia dietro. Nietzsche non era ancora sorto, però, la questione sembra evidente: perché vogliono sempre di più? Per il super potenziamento, perché, se si fermano, immediatamente ciò che hanno acquisito non vale più. La nozione di fenomeno originario - qui è Hadot che parla- si congiunge qui a quella di simbolo, nella misura in cui un simbolo “mostra” un indicibile. Per esempio, ma questa non è che una prima tappa, il magnetismo è un fenomeno originario, cui basta alludere per spiegare ogni sorta di fenomeno; ecco perché esso può fungere da simbolo di ogni sorta di cosa, per le quali non è necessario cercare altre parole. Si dice anche “che tra quelle persone c’è del magnetismo”: è un modo di dire abbastanza comune. A pag. 255. Altra citazione, sempre da Goethe. Questo fico, questo serpentello, questo bozzolo… tutte queste cose sono segnature dense di significato. Sì, chi potesse decifrare con precisione il loro significato, sarebbe anche in grado di disfarsi alla svelta di scrittura e di parola. Sì, più ci penso e più mi sembra che vi sia qualche cosa di inutile, di ozioso, di fatuo addirittura, nel discorso umano, tanto che si è si è spaventati dalla silenziosa gravità della natura e dal suo silenzio. La parola è inutile, perché? Perché non riesce a dire la cosa? È la stessa questione che incontra Aristotele, solo che Aristotele non era così ingenuo: non c’è la verità epistemica. La stessa cosa che Platone rimprovera ai sofisti: voi, si, con le vostre argomentazioni distruggete tutto, ma non proponete nulla. Cosa sta chiedendo Platone ai sofisti? Di esibire una verità epistemica, che loro non possono esibire perché hanno appena detto che non c’è. E Goethe qui dice la stessa cosa: il pensiero, la scrittura, tutte queste cose sono vane perché non arrivano alla verità epistemica, quindi, non servono a niente. L’idea è che dietro il velo ci sia Iside, e che questa Iside sia la verità epistemica. È per questo che tutti quanti vorrebbero togliere quel velo: il nudo della verità. Poi, c’è anche un accenno alla questione sessuale, chiaramente. A pag. 256. Il simbolo non veicola un contenuto concettuale, ma lascia trasparire qualcosa che al di là di ogni espressione e si può cogliere solo tramite l’intuizione. Se non ti apri all’Uno non puoi intuire niente e l’Uno ti sarà sempre negato. Qui c’è il neoplatonismo: l’idea di qualche cosa che è ineffabile e irraggiungibile, ecc., è neoplatonica. Prima non esisteva, ha incominciato a esistere con Platone, poi con il platonismo cosiddetto di Filone e poi con i neoplatonici, e poi da Plotino a tutti gli altri. Quindi, l’idea che questo ineffabile non sia raggiungibile ma che ci sia; nessuno sa che cos’è esattamente, non si può determinare, delimitare, non si può conoscere, non si può dire, non si può niente, però c’è. A pag. 256. Del resto, Goethe ritiene che solo il genio sia capace di scoprire e contemplare i fenomeni originari. È la stessa cosa che dire che ci vuole una purificazione per la ascesi. Bisogna dunque aspettare e venerare i fenomeni originari che fanno intravedere una trascendenza inconcepibile, inesplorabile, insondabile, che non è mai direttamente accessibile alla conoscenza umana, ma si può solo presentire nei suoi riflessi e simboli. Si intuisce, la si sente dentro. A pag. 257. Citazione di Diderot. È chiaro che la natura non ha potuto serbare tale somiglianza nelle parti e imprimere tale varietà nelle forme, senza rendere sovente sensibile in un essere organizzato ciò che ha sottratto a un altro. È come una donna che ama travestirsi e i cui diversi travestimenti, lasciando intravedere ora una parte ora l’altra, infondono qualche speranza in coloro che la seguono con assiduità, la speranza di conoscere un giorno l’intera sua persona. Su questo scostamento tra la natura e la donna dovremmo poi dire qualche cosa, magari più avanti. A pag. 258. C’è qui, mi sembra, come l’abbozzo di una trasformazione radicale dell’idea di segreto della natura. Tradizionalmente si pensava che esistessero forze occulte o meccanismi segreti che la magia, e poi la scienza, riusciva lentamente a scoprire, dissolvendone progressivamente il segreto o mistero. In questo caso, invece, non ci sono segreti da scoprire, nulla è nascosto, si vede tutto, ma quel che si vede è circondato da un’aureola di mistero e mostra indicibilmente l’indicibile e l’inesplorabile. Cioè, è come dire che nel dire c’è dell’indicibile. È falso, qualunque cosa è dicibile: dicendo, naturalmente questa cosa si altera, si modifica, è tutto lì. Ma non è che non sia dicibile, non c’è l’ineffabile, non esiste, è una nostra invenzione, sempre per immaginare di nuovo l’esistenza di una verità epistemica, che è da trovare, che non troviamo mai, è sempre da trovare, ma c’è e garantisce tutto. Siamo sempre lì, è tutto neoplatonismo, tutto ciò di cui stiamo parlando è neoplatonismo, né più né meno. Si intuisce insomma l’aurora di un nuovo rapporto con la natura. Il sentimento dominante non è più la curiosità, il desiderio di conoscere e di risolvere problemi, bensì l’ammirazione, la venerazione, forse anche l’angoscia, dinanzi al mistero insondabile dell’esistenza. A questo punto la natura diventa Dio, naturalmente. Dopo Spinoza, c’è questa sorta di equazione, Deus sive natura, che è diventata di dominio pubblico, trasformata poi dall’illuminismo nell’idea di una natura che, in fondo, garantisce tutto. Il famoso detto di Galilei, la natura è scritta in carattere matematici, per cui, se noi conosciamo la matematica, conosciamo anche la natura. La fisica e la matematica incominciavano a dare delle indicazioni per carpire alla natura, cioè a Dio, i suoi segreti. A pag. 259. Il tema Iconografico tradizionale e convenzionale dello svelamento della statua di Iside, in uso nei libri di scienza del Sei e Settecento, e conforme agli schemi mitologici d’epoca classica, non implica di per sé alcuna tesi metafisica sulla natura. C’era questa raffigurazione nei libri di fisica di allora, che oggi non c’è più: Iside che viene disvelata dalla scienza. Iside rappresenta semplicemente i fenomeni naturali, e il suo svelamento simboleggia i progressi di una scienza dominata da una concezione meccanicistica della natura. Alla fine del Settecento, invece, il tema dell’Iside-Natura invade letteralmente la letteratura e la filosofia, provocando uno scossone profondo nell’atteggiamento verso la natura, per effetto di diversi fattori, tra i quali bisogna contare la massoneria. Per prima cosa, è forse bene prendere in considerazione l’idea di Robert Lenoble, secondo cui la meccanizzazione del mondo avrebbe provocato un’”angoscia a scoppio ritardato”. Con ciò intendeva dire che la rivoluzione meccanicistica aveva provocato, nell’immaginario collettivo una sorta di separazione dell’uomo da madre Natura, una sorta di maturazione in tal senso, ma accompagnata da un senso di angoscia. Angoscia a scoppio ritardato, allora, giacché questa crisi che avrebbe dovuto affiorare nel Seicento, si era invece prodotta nel Settecento. Non è che a poco a poco che ci si è resi conto dello stravolgimento della condizione umana causato dalla rivoluzione meccanicistica, prima e industriale poi. Solo gradualmente si è sentito il bisogno di promuovere un nuovo contatto con la natura. L’idea di aver abbandonato la natura, di avere fatto della natura una sorta di macchina: secondo questi è ciò che ha provocato l’angoscia perché ci si è separati dalla natura. Che cosa comporta la separazione dalla natura? Non avere più l’idea che la natura sia protettrice, che ci aiuti, ma, anzi, diventa quella cosa cattiva che nasconde i suoi segreti e alla quale occorre estorcerli. Poi, però. dice, nel Settecento accade che c’è questo ritorno al contrario. A pag. 260. La percezione estetica comporta sempre un elemento affettivo, di piacere, ammirazione, entusiasmo o terrore. Riconoscere un valore proprio all’approccio estetico della natura significa necessariamente introdurre anche nel rapporto tra l’uomo e la natura un elemento affettivo, sentimentale o irrazionale. Questa evoluzione è abbozzata già in Rousseau, nel quale si può constatare chiaramente come il sentimento e l’emozione davanti alla presenza del Tutto si sostituiscano alla ricerca dei segreti della natura. Questo è stato il passaggio fondamentale nel Settecento. Di fronte alla natura c’è angoscia, c’è l’ammirazione, ma c’è anche il terrore di qualcosa di più grande, qualcosa di insondabile, di indelimitabile, di indeterminabile, di indicibile.
Intervento: È proprio quello che è successo nella fisica classica. Lei ha citato gli illuministi, a me viene alla mente Pierre Simon Laplace: il superuomo di Laplace, che conoscesse le condizioni iniziali, cinematiche, di tutte le particelle, allora potrebbe prevedere tutto. Sono andati avanti così tutto l’Ottocento, trovandosi di fronte a dei problemi, che hanno superato poi con la meccanica dei quanti, introducendo l’approccio statistico, anche con la meccanica statistica, però, poi, Einstein dice che Dio non gioca ai dadi. Quindi, il problema è…
Sì, non si toglie.
Intervento: Non si può accettare l’idea di una natura imprevedibile.
Ma questa idea che, come dici tu giustamente, ha a che fare con una natura imprevedibile, quindi, non si può aritmetizzare, non si può calcolare, è ancora il problema dell’uno e dei molti. Si presuppone che la natura debba essere l’uno, che quindi non ci siano i molti, che invece costituiscono l’impossibilità per la natura di essere uno, o di essere soltanto uno. A pag. 260 cita Rousseau. Credo che, se avessi svelato tutti i misteri della natura, mi sarei sentito in una situazione meno piacevole di quest’estasi stordente… Che aveva provato di fronte alla grandezza della natura. …alla quale il mio spirito si abbandonava senza ritegno e che nell’agitazione del mio trasporto mi faceva esclamare di tanto in tanto: O grande Essere! O grande Essere! Senza poter dire o pensare nulla di più. Di fronte a questa immensità si sente piccolo, si sente una nullità, di cui parla Plotino, dell’uomo di fronte all’Uno: di fronte all’Uno ciascuno è una nullità, è nulla. Appare qui con chiarezza il superamento della curiosità per i segreti della natura, a tutto beneficio di un’esperienza affettiva che invade l’essere intero e che consiste nel sentirsi una parte del Tutto. Ecco il vantaggio per la volontà di potenza: sentirsi parte del Tutto. Prima, la volontà di potenza, in questo aspetto prometeico. è puntata a estorcere alla natura i suoi segreti e, quindi, diventare Dio. In questo caso, invece, è il risvolto orfico: partecipare, sentirsi parte del Tutto. Potremmo dire, per riprendere questioni antiche, della distanza tra gli gnostici e i neoplatonici. Prometeo, in fondo, è gnostico, vuole essere Dio, togliendo, rubando agli dei il loro potere, il fuoco in quell’occasione. L’aspetto orfico, invece, è quello neoplatonico, che si rende conto che queste cose appartengono agli dèi, però io posso fare parte di questo tutto, in cui ci sono anche gli dèi; cioè, io posso avvicinarmi all’Uno; non potrò mai essere l’Uno, non potrò mai essere Dio, ma potrò avvicinarmi all’Uno, sempre dopo la purificatio, naturalmente. Questa esperienza vissuta diventerà uno degli ingredienti essenziali del fenomeno che stiamo realizzando. Stolberg, nel 1777, parlava già in proposito della necessità di una predisposizione affettiva, che chiamava “pienezza del cuore”. Notate immediatamente l’impronta neoplatonica. Ciò non esclude, del resto, la possibilità di metodi limpidi e razionali. I due atteggiamenti potranno anche coesistere, per esempio in Goethe. Lo stesso Kant non esiterà a parlare del “brivido sacro” che si prova al cospetto della Natura e dell’”ammirazione e venerazione sempre nuove” che si sentono nel contemplare in cielo stellato sopra di noi. Così, da Schelling a Heidegger, passando per Nietzsche, questa esperienza, accompagnata da angoscia, terrore, piacere o stupore, diverrà parte integrante di alcune correnti della filosofia. Potremmo dire tutte. Ma non basta ancora, perché, a pag. 263, dice …l’avvertimento lanciato da Iside a chi vuole svelarla verrà preso sul serio alla fine del Settecento, da filosofi e poeti. La figura di Iside cambierà allora di significato e, a quel punto, saranno il rapimento, lo stupore, e persino l’angoscia al cospetto di Iside-Natura a diventare i temi prediletti di numerose opere letterarie. Qui parla di Schiller. A pag. 268. L’immagine velata e terribile di Iside ricompare nel poema di Schiller intitolato L’immagine velata di Sais, scritto nel 1795. Il poema mette in scena un giovane, avido di conoscere la verità, che è entrato nel tempio di Sais e lì apprende che, per l’appunto, è la Verità a nascondersi sotto il velo della dea. Lo ierofante (sacerdote) lo avverte che nessun mortale ha il diritto di alzare il velo: “questa sottile garza per la tua mano, certo, è lieve, ma sono quintali per la tua coscienza”. L’imprudente ritorna al tempio di notte. Il terrore lo coglie, una voce interna cerca di trattenerlo. Ma alla fine alza il velo e cade a terra senza sensi. “Per sempre svanì per lui la gioia della vita, e presto una profonda angoscia lo portò nella tomba. … guai a chi alla verità si accosta nella colpa”. Il poema suscitò una certa ostilità, soprattutto in Herder, per il quale era inammissibile che il desiderio di vedere la verità fosse una colpa. Ponendo Iside come la verità, cioè come la verità epistemica, qual è l’angoscia che prova questo giovane quando toglie velo? Trova che non c’è niente. Aristotele non ne fu angosciato, proprio per niente, è rimasto tranquillamente lucido e, anzi, ha continuato ad analizzare con la sua precisione, il suo metodo, tutta la questione, dicendo che in realtà la verità epistemica non c’è perché l’universale è fatto di particolari, e questi particolari non saranno mai universali. Si può interpretare in prima battuta questa poesia nell’ottica del pessimismo, idealista potremmo aggiungere, che trova espressione anche in altre opere di Schiller. Iside rappresenta qui, Schiller lo dice apertamente, la Verità, come in certe rappresentazioni allegorica del Settecento. E questa Verità può essere tanto la Verità sulla natura, quanto la Verità sulla condizione concreta dell’uomo. In entrambi i casi, lascia intendere Schiller, la Verità è talmente orrenda che non si può vivere dopo averla conosciuta. Questa è l’idea, che è talmente orrenda che non si può vivere dopo averla conosciuta. Ma non si può vivere perché? Perché non c’è. Sta lì la questione, che Aristotele aveva inteso benissimo, senza nessuna angoscia. Qui, invece, insistono con questa angoscia, per dare importanza alla cosa, per sentirsi loro stessi importanti in quello che stanno dicendo, facendo, ecc. Nella stessa prospettiva, 1799, Le parole dell’inganno parla del Diritto, della Felicità e della Verità. Illusorio pensare che un giorno il Diritto trionferà, dovrà lottare eternamente. Illusorio pensare che un cuore nobile possa raggiungere la Felicità: è solo uno straniero su questa terra. Illusorio pensare che la Verità possa essere colta da un intelletto umano: “il suo velo non alza una mano mortale; noi non possiamo che indagare e opinare”. Queste parole avrebbero potuto essere benissimo dette da Plotino riferendosi all’Uno. Non raggiungeremo mai l’Uno, è inutile che cerchiamo di raggiungere l’Uno, che è il Bene assoluto, la verità assoluta, la giustizia assoluta, la bellezza assoluta, tutti gli assoluti che volete aggiungerci. Nella poesia Cassandra (1802), durante il festino in onore di Achille e Polisseno, figlio di Priamo, Cassandra si domanda: Vale la pena alzare il velo, Là dove il terrore incombe? Solo errore è la vita e la verità è morte. Sembra quasi di sentire Nietzsche, di cui parleremo più avanti. La Vita è qu, festa, gioia, apparenza, inganno. La Morte è invece la Verità, che consiste nel sapere. Il problema è che non consiste nel sapere, non c’è niente da sapere nel senso della verità epistemica, perché non c’è, l’abbiamo inventata noi. Quindi la verità è morte nel senso che è la morte dell’idea di una verità epistemica, questo sì, certo. Se non c’è verità epistemica, allora, ciò che io credo, le mie opinioni e tutto ciò di cui sono fatto, su che cosa si fonda? Sempre Schiller. Perciò, anima nobile, fuggi l’inganno e conserva la fede celeste! Quel che orecchio non vede e non videro gli occhi è tuttavia il bello è il vero! Non sta là fuori, lo cerca là il folle; sta dentro di te e tu lo crei in eterno. A pag. 271. Anche per Hegel lo svelamento di Iside coincide con ritorno dello spirito in se stesso. Ma il processo, per lui, si situa nel divenire storico. La formula di Sais “Nessun mortale ha mai sollevato il mio velo” significa appunto che la Natura è una realtà che differisce da sé stessa, che è altro dalla sua apparenza immediata, che ha un’interiorità nascosta. In parte c’è che anche in Hegel, perché anche lui è figlio del neoplatonismo, inesorabilmente. Egli (Hegel) critica, del resto, Goethe per il suo rifiuto di distinguere un dentro e un fuori della Natura. Solo che, per Hegel, l’occultamento della natura corrisponde unicamente al momento storico egizio, mentre la natura si svela e si sopprime nel pensiero greco, che scoglie l’“enigma”. Nel pensiero greco c’era questa cosa, che poi ha esplicitato Eraclito: ciò che sorge dilegua. Da qui lo scioglimento dell’enigma, che non è più enigma, è semplicemente il funzionamento del linguaggio, è ciò che facciamo parlando: ciascuna cosa che diciamo, dicendola, dilegua in altre parole. Senza angoscia e senza tutte quelle storie lì. Non a caso la sfinge egizia è sconfitta dal greco Edipo. La sfinge muore quando l’uomo viene definito, dal pensiero greco, e viene definito scoprendo che l’interno della natura non è altro che l’uomo stesso. Potremmo dire, creata dall’uomo stesso, è lui che ce l’ha messo dentro. È un po’ quello che diceva Hegel a proposito di Dio: tutto ciò che dico di Dio lo sto dicendo di me. Insomma… Sembra citare Hegel, indirettamente. …ciò che noi crediamo altro da noi, la Natura, non è altro che noi stessi, ossia Spirito. Qui, sempre a proposito di Iside e del romanticismo che riprende questo tema orfico della verità velata, dice a pag. 273. Ciò che la conoscenza della verità non è il risultato di un gesto di svelamento di una realtà bell’e fatta, cioè un insegnamento da apprendere passivamente. La verità è semmai qualcosa che l’uomo deve trovare in maniera attiva, da sé e in sé: “I sacerdoti d’Egitto, dunque, non insegnano nulla, giacché credono che tutto sia nell’uomo; si limitano a rimuovere gli ostacoli”. La verità è riposta nel cuore dell’uomo. La verità è riposta nel cuore dell’uomo. Non ci siamo mossi da Plotino. Qui c’è un lungo capitolo che lui intitola Il brivido sacro. il brivido sacro, naturalmente, è connesso con quel brivido che l’umano prova quando si trova di fronte all’ineffabile, a ciò che non può essere detto. Ciò che non può essere detto, ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. È meglio tacere perché, se comincio a parlarne, mi accordo che è tutt’altro da ciò che penso che sia. Ecco qui, ancora, siamo in pieno neoplatonismo. A pag. 278. Oltre a questa esperienza… Parla di Goethe. …di angoscia davanti ai fenomeni originari, si constata talvolta in Goethe un sentimento ambiguo nei confronti della Natura. È qualcosa che affiora già in I dolori del giovane Werther, quando l’eroe del romanzo narra come lo spettacolo inebriante della vita universale si sia trasformato per lui nella visione terrificante della metamorfosi universale delle cose. La metamorfosi universale delle cose non è altro che il dire: dicendo, le cose si modificano, si trasformano continuamente. A pag. 280. La mia impressione, tuttavia, è che sia solo nella seconda metà del Settecento che comincia a farsi davvero strada, e con tutta questa intensità, un’espressione congiunta d’angoscia e di stupore di fronte alla natura. Influenzato dalle rappresentazioni massoniche e romantiche di Iside… Aveva fatto questo racconto su come la massoneria abbia ripreso gli antichi miti egiziani. …e dal loro latente cosmoteismo, il rapporto tra natura diventa più affettivo, più emozionale, e soprattutto presenta un accento ambivalente, un accento misto di terrore e meraviglia, di angoscia e voluttà. Lo svelamento della statua di Iside tende via via a perdere il significato di scoperta dei segreti della natura, per tramutarsi in atteggiamento attonito dinanzi al mistero. Mercoledì prossimo avremo ancora qualche cosa da leggere e successivamente riprenderemo Filone. Questo è stato solo un intermezzo per intendere la questione dell’indicibile. Per Filone è Dio: Dio è ciò che non può essere detto. Infatti, c’è una citazione anche in questo testo: sia Yahweh sia Iside non dicono mai il proprio nome; Iside dice Io sono colei che è, ecc., e Yahweh dice lo stesso. Hadot azzarda una connessione stretta fra le due figure, che ci sia o non ci sia, in ogni caso è qualche cosa che non può essere detta, è l’indicibile, l’ineffabile, ma che comunque deve esistere.