INDIETRO

 

 

6 novembre 2019

 

La fenomenologia dello spirito di Hegel di M. Heidegger

 

Siamo al Capitolo Secondo, La percezione. A pag. 127. Paragrafo 8, La coscienza della percezione e il suo oggetto. Ho pensato di porre una sorta di esergo alla lettura di queste pagine, delle parole di Werner Heisenberg che mi sono tornate alla mente. Heisenberg era uno dei più noti fisici del secolo scorso. In un suo scritto che si chiama Fisica e filosofia, dove fa delle considerazioni che vanno al di là della fisica e, quindi, potremmo dire, metafisiche, tra queste considerazioni c’è questa che dice: “Per noi “c’è” soltanto quel mondo in cui l’espressione “c’è” ha un senso”. È una considerazione interessante, come dire che c’è unicamente linguaggio, nel senso che dire che un qualche cosa, un oggetto c’è, è un’espressione linguistica; non si riferisce propriamente a qualcosa se non appunto a quel mondo in cui quell’espressione “c’è” ha un senso, cioè il linguaggio. Naturalmente, Heisenberg si poneva la questione dell’oggetto, come accade preso i fisici, per motivi totalmente differenti e avviando un approccio totalmente diverso da quello di Hegel. Tuttavia, anche lui si è posta la questione e l’ha posta i questi termini, che appaiono interessanti. Dunque, torniamo a Heidegger. Ci è dato ora un nuovo oggetto e invero come un oggetto che necessariamente risulta dal primo. Il nuovo oggetto, per noi che sappiamo in modo assolvente… Sappiamo che muoviamo da un sapere assoluto. …è, quanto al suo carattere fondamentale, di nuovo, e solo ora veramente, un sapere: la percezione. Quindi, la percezione come un sapere. Qui è tolta la immediatezza della percezione, ma la percezione come un sapere, qualcosa quindi di mediato da altro. A pag. 128. Nella percezione non c’è quiete. Non è un ricevere passivamente un qualche cosa. Perciò in essa stessa deve già venire alla luce l’altro in cui essa trapassa. In essa stessa – non soltanto in quanto necessario risultato, che essa stessa costituiva rispetto alla certezza sensibile. Le appartiene egualmente ciò che essa stessa sarà. Essa è ciò che è soltanto nel suo esser-stato e nel suo advenire. Quindi, la percezione non è altro che questo movimento continuo, è la dialettica; non c’è percezione se non nel movimento. Quindi, di nuovo, nulla di immediato, di stabile, di fermo, qualcosa che passivamente riceve qualcosa. A pag. 129. …la percezione è in sé un’illusione, e cioè un continuo illudere-se-stessa e convincersi-di-qualcosa – “è” nella misura in cui l’essere della percezione venga, come avviene solo in Hegel, compreso in modo assolvente. … nel percepire sta già un intendimento e cioè un intelletto, ma l’intelletto ci è come mera “sofisticheria”. Non è l’intendimento dell’intelletto puro, ma quello dell’intelletto percettivo. Nell’esposizione assolvente della percezione si tratta perciò essenzialmente di mostrare come nella percezione stessa e per questa si diffonda un intendere ed un riflettere, che si rivela così come gioco delle potenze delle “vuote astrazioni”. Questo intelletto percipiente è “non di rado chiamato il sano intelletto umano”. Questa potenza, come dice Heidegger, delle vuote astrazioni. Qui ci viene in mente Severino, e cioè da una parte l’intendimento del concreto, l’accogliere il concreto, e dall’altra, invece, il porre le varie astrazioni, che sono astratti e che, quindi, non consentono l’intendimento del concreto; è ciò che poi, per Hegel, sarà il sapere assoluto, lo spirito. Però, è già un’annotazione interessante, è il senso comune che invece vuole sapere delle singole cose, perdendo di vista il modo in cui queste cose si stanno mostrando, cioè le condizioni di esistenza di quelle cose, che sono, come diceva Heidegger, il mondo che io stesso sono. Bisogna mostrare che la percezione, perché in essa ha dimora l’intelletto percettivo, proprio per questo va a fondo, in se stessa, cioè è veramente medio e passaggio, tale che non le compete alcun sostare. La percezione è sempre movimento. Questo andare a fondo però non significa affatto disperdersi e polverizzarsi nel nulla – il medio non sarebbe così concepito nella sua funzione di mediazione, non dunque in quanto vero passaggio che conduce ad altro. La percezione è questo: un passaggio che conduce ad altro. Perciò, si deve riuscire ad avvertire nel negativo, quando Hegel parla di “andare a fondo”, allo stesso tempo il positivo: l’andare a fondo è un tornare-al-fondamento. Soltanto attraverso la mediazione della percezione la certezza sensibile si fa intelletto, e, nell’intelletto, giunge al suo fondamento in quanto modalità vera della coscienza. Così, però, viene a se stesso l’intero in cui stanno questi tre – la coscienza (A); essa diviene cioè autocoscienza (B). Il fondamento, dunque, lo pone come l’intero. Di nuovo ci torna alla mente Severino: è quello il fondamento, l’intero, il concreto. Non sono gli astratti il fondamento del concreto, ma il contrario. A pag. 131. Nella misura in cui la percezione qua coscienza (qua = in quanto) – a differenza della autocoscienza – appartiene ancora al sapere immediato, essa non ha più l’immediato nel singolo, ma nell’universale. Essa è nella sua totalità “immediatezza universale”. Che è una contraddizione in termini. Infatti, dice Ma una cosa come una “immediatezza universale”, immediatezza dell’universale, è già in se stessa rosa dalla contraddizione, nella misura in cui, come già abbiamo visto, l’universale è per essenza soltanto nella e in quanto negazione del singolo, dunque come mediazione. Quest’essenza contraddittoria della percezione non può perciò tenersi in se stessa, essa si distrugge da sé. A pag. 132. L’oggetto della percezione è la cosa… Per questo avevo posto come esergo le parole di Heisenberg. …questa cosa, “questo sale”, in quanto questo semplice uno che è del tutto per sé, quest’uno nell’immediata unità ed esser raccolto insieme del sale bianco, sapido, cubico di forma, di un peso determinato, ecc. I momenti raccolti insieme in quest’unica cosa e che appunto non divergono nella cosa percepita, vengono ora distinti l’uno dall’altro e dispiegati nella percezione e nel movimento del percepire. Ciascun oggetto è fatto di tante cose: ha un peso, una consistenza, una serie di determinazioni. In che modo ciò avvenga lo mostra di nuovo l’asserzione in cui la percezione si pronuncia. Essa non dice soltanto, come la certezza sensibile: questo sale – nel che, come si è mostrato, persino ciò che viene detto non dice già più che cosa sia opinato, poiché il sale è qualcosa di universale -, ma la percezione dice: questo sale è bianco e sapido e cubico di forma e di un peso determinato, ecc. Ciò che la certezza sensibile dice in certa misura contro la propria intenzione – sale, qualcosa di universale – la percezione lo asserisce nel dire che cosa sia qui il sale. Questo movimento dispiegante del percepire è però quell’instabile rispetto al quale lo stesso uno e semplice oggetto, la cosa, è indifferente. Bisogna dunque sviluppare nella sua essenza ciò che nella percezione è il vero, l’oggetto,… Tutto il capitolo si svolge intorno alla questione dell’oggetto, che cos’è l’oggetto, come lo percepiamo, da dove arriva. …e ciò naturalmente al livello e nella luce in cui esso sta ora in quanto scaturito dalla certezza sensibile. … Ma la sua verità è l’universale. Noi concepiamo però l’universalità come semplicità mediata. Il che lo porta ad espressione la percezione stessa: l’oggetto è “la cosa dalle molte proprietà”. Sorge chiaramente il paradosso, la contraddizione: è uno, in quanto è l’oggetto fatto in un certo modo, ma è anche molti, perché è fatto di molte cose. Esattamente come una parola: è una, è quella, ma è fatta di tutto ciò che quella parola non è. Nel far ciò Hegel comincia col dare risalto all’oggetto della percezione rispetto a quello della certezza sensibile. La differenza tra l’oggetto della certezza sensibile, ciò che mi appare nell’immediato, e la percezione, cioè il percepirlo, accorgersi di percepire qualcosa. Non si tratta di un qualsivoglia procedere comparativo, ma sta nella natura della cosa, poiché l’oggetto della percezione si è sviluppato dall’oggetto sensibile e dunque ha con esso un rapporto storico nel senso dell’accadere della fenomenologia stessa. C’è un rapporto storico, cioè la percezione incomincia a tenere conto della storicità dell’oggetto, della cosa; la storicità, cioè, il da dove viene. L’oggetto della percezione non è più quell’oggetto che era l’oggetto della certezza sensibile… È già diventato un’altra cosa. … il Questo, per rimanere all’esempio di percezione di Hegel: questo sale che sta sul tavolo da pranzo. La percezione non opina semplicemente e soltanto “questo sale” e poi null’altro, ma essa percepisce, assume realmente che essa coglie questo come ciò che il Questo è, e che questo “che”, l’universale, è il suo oggetto. Mentre nella percezione immediata non c’è apparentemente nessuna riflessione ma soltanto il ricevere di qualche cosa, nella percezione c’è una riflessione sul “che”, cioè il fatto che questo qualche cosa sia qualcosa, sia un “che”. Quindi, c’è questa contraddizione tra questa serie di “e” – è questo e questo e questo, ecc. – questa serie di elementi, che al tempo stesso sono equivalenti, nel senso che ciascuno contribuisce a determinare il sale. Prosegue più avanti Heidegger. Questi equivalenti non sono però allineati semplicemente tramite un mero “e”, ma, in quanto questi molti, sono ciascuno in modo egualmente valido quanto l’altro, ciò che questo sale è. Se io dico che il sale è bianco, questo vale quanto il fatto che il sale sia sapido. Il Questo nel suo “che” è bianco, il Questo è anche sapido – non è soltanto bianco e sapido, ma “e anche”. In questo “anche” si esprime il “tanto bianco quanto anche…”. Su questo “tanto quanto” tutti questi equivalenti convengono e si incontrano allo stesso tempo. Lo “e” è il mero giustapporsi dell’equivalente. È la questione antichissima dell’uno e di molti. Sempre a pag. 134. Nella misura in cui la cosa è qualcosa come un uno che è per sé, con l’unità degli equivalenti abbiamo evidentemente conseguito un carattere di questo uno, un carattere in cui s’esprime il fatto che quest’uno, il semplice Anche, è riferito in sé al molteplice. … Solo quando la cosalità è così determinata che noi comprendiamo a partire da essa in che modo si faccia cosa, e cioè in che modo ad essa appartenga l’esser-dotato-di-proprietà e che cosa questo stesso sia, solo allora si consegue la piena essenza della cosa, del vero oggetto della percezione. Cioè, il fatto di essere uno e molti, singolo e universale, allo stesso tempo. A pag. 135. L’unità dell’Anche, degli equivalenti, non esaurisce la cosalità, ma, in quanto unità degli stessi molteplici contrapponentisi, è l’uno, che si determina in modo tale da contrapporsi a se stesso ed escludere altro. Attraverso quest’unità dell’esclusione, l’unità si chiude in se stessa, diviene tale per sé; solo così la cosalità (Anche) diviene cosa, ciò-che-sta-per-sé l’indipendente. Questa molteplicità, che si mostra in quanto uno, chiaramente, essendo questo uno, si contrappone a tutto ciò che questo uno non è. Solo così abbiamo la possibilità che questa divenga qualche cosa, ciò che sta per sé, l’indipendente, ciò che percepiamo propriamente. A pag. 137. Possiamo dire già ora preliminarmente dove si trovi la contraddizione della percezione. Essa deve trovarsi in lei stessa. La contraddizione è sempre tra il singolo e l’universale. Il suo sapere e il suo cogliere non sono l’opinare semplicemente liberatosi e messosi in cammino, che si risolve nel suo Questo, resta catturato in esso; ma nella percezione deve rivelarsi una contraddizione, nello stesso prendere deve mostrarsi un contro-questo. Il prendere prende l’oggetto per il vero. Ma in quanto possiede la coscienza dell’illusione, sa in certo modo che esso, il prendere, è il vero – esso, e non l‘oggetto. Il vero sta nella percezione, in questo prendere. La percezione è ciò che è proprio per il fatto che vive di questa contraddizione senza prenderla sul serio, senza saperla in quanto tale e toglierla. Ma noi, che dobbiamo sapere in modo assolvente la percezione come una modalità della coscienza, dobbiamo cercare proprio in questa contraddizione la verità della percezione. Che a questo punto non si pone più come un’illusione, ma è effettivamente la verità della percezione. La verità della percezione è che ciò che percepisco, è se stesso in quanto altro da sé, ed è altro da sé in quanto è se stesso. A pag. 138. … il trasporsi nello “effettivo percepire”, in cui la coscienza deve fare la sua esperienza, accade soltanto ora, cioè dopo che l’oggetto della percezione è stato costruito da noi. Cioè: l’effettivo percepire, del quale la coscienza fa esperienza, accade soltanto adesso, cioè dopo che l’oggetto della percezione è stato costruito da noi. È abbastanza esplicito. Un effettivo percepire questo sale bianco, sapido, ecc. – che cosa prendo quando prendo, in tale effettivo prendere il suo vero, e come è il prendere stesso? Io prendo questo sale bianco. Dapprima l’oggetto si offre come “puramente uno”. Ma non posso prenderlo così, lo vieta la proprietà, che è un universale. Io l’ho dunque preso in un modo non vero, la non-verità cade nel prendere, dato che l’oggetto è ben il vero. Ma se non lo prendo come il puramente uno, ma come l’Anche, il che richiede ogni volta l’universalità delle proprietà, si mostra allora subito che anche così io non lo prendo nel modo corretto, perché le proprietà sono determinate, tali da escludersi l’un l’altra. Lo prendo dunque come un uno che esclude. Ma se lo prendo così nell’universalità dell’Anche e dell’Uno, allora non prendo l’oggetto, ma il suo medio, nel quale molte singole proprietà determinate sono per sé. Prendo con ciò le singole proprietà per sé. Se ciò accade, allora io non le prendo né nell’uno né nella relazione ad altre, dunque in generale non le prendo come proprietà, prendo bensì immediatamente soltanto il singolo Questo – bianco. Questa presa immediata del Questo è però l’opinare. Il sapere dell’oggetto, il mio percepire, è divenuto un opinare. Penso che quello sia l’oggetto, perché in qualunque modo io lo ponga, come singolare o come universale, in ogni caso non colgo l’oggetto. Ci dirà tra poco che per cogliere l’oggetto, per “prenderlo”, queste due cose devono trovare una sintesi; finché rimangono astratte, io non prendo affatto l’oggetto. Se mi rivolgo a un oggetto in quanto universale, chiaramente non potrò mai cogliere tutti gli Anche; se lo prendo come uno, non tengo conto che questo uno è fatto di tante cose. A pag. 139. In tal modo – così come avviene per la certezza sensibile – la verità che sta originariamente depositata nell’oggetto viene ripresa nel sapere. La verità non è più, come si pensa, nell’oggetto – che è quello che è, quindi, è vero – ma è nel sapere dell’oggetto. Lo stesso prendere necessita di una guida corretta. Nella misura in cui la non verità del prendere viene ora “corretta” e solo così, anche la correzione, la verità del percepire, cade nel percepire. … Bisogna concretamente snidare la contraddittorietà nell’essenza della percezione e in ciò che costituisce il suo vero, nel suo oggetto, nella cosa, e dispiegarla in tutto il suo esser-sospinta-contro e fuori-di-sé. La percezione è autocontraddittoria, come abbiamo visto. Si fa così l’esperienza che per il modo stesso in cui il percepire cerca di aver ragione del suo vero, d conservarlo, l’oggetto in generale viene infine fatto esplodere. Ma questa esplosione non è un semplice fare in pezzi, bensì un annientamento all’interno della già reale – seppure disconosciuta – vincolatezza, in una più altra verità, dell’essenza della percezione. Il fatto che la percezione sia autocontraddittoria non significa che questo oggetto scompare, ci sta dicendo Heidegger, ma che mostra invece la sua vera essenza. Nell’esperienza che induciamo la percezione a fare nel suo ragionare su se stessa, la avviciniamo alla sua verità assolvente. Il dispiegamento della contraddittorietà è insieme il togliere la verità della percezione nel senso della sua eliminazione, ma contemporaneamente il togliere come innalzamento alla vera e propria essenza. A pag. 141. Questa è l’unica via per la quale la percezione viene a capo di quest’essere abbinato, che la cosa è l’Uno e l’Anche, cancellando l’Anche e trasponendolo nel prendere. È il movimento dialettico. Ma le proprietà sono ciò che sono in quanto determinate, dunque opposte ad altre, il bianco al nero e così via. La cosa stessa è proprio quell’uno che essa è, e non un altro, in virtù di queste determinatezze. Ma queste molte determinatezze e di conseguenza le contrapposizioni, non le ha in sé, in quanto è un uno. L’unità è il mero essere-eguale-a-se-stesso, sulla base del quale l’uno in quanto tale è eguale a ogni altro uno. La cosa, per non essere – contrapposta in quanto uno – l’altro, deve già avere in sé le determinatezze stesse. La cosa stessa deve dunque essere l’Anche, i molti, il medio universale in cui le molte proprietà sussistono nella loro equivalenza l’una fuori dell’altra. Qui spiega ciò che diceva prima, e cioè il fatto che la percezione è autocontraddittoria. Questo va preso seriamente, in quanto la percezione a questo punto si rivela come un qualche cosa che mostra la via per la ragione, per accogliere il fatto che l’uno e i molti, a questo punto potremmo dire, sono lo stesso. A pag. 142. La verità è dunque questo avvicendamento che si alterna dell’intero movimento del ripartirsi ogni volta unilaterale del singolo momento – dell’Anche e dell’Uno – al prendere o alla cosa. La verità è questo movimento dialettico. A pag. 144. Il puro essere-per-sé è negazione assoluta,… Se qualcosa è puro essere-per-sé deve negare tutto ciò che non è, ovviamente. …in cui la cosa si differenzia da tutte le altre, ed in questo differenziarsi è per un altro, cioè riferita ad un altro. La cosa pura in sé, per essere tale deve essere riferita a qualcos’altro, a ciò che non è. C’è sempre questo riferimento, la cosa diventa più complicata. In questa negazione assoluta la cosa si riferisce a se stessa, e questo riferirsi-a-se-stessa è togliere se stessa, in quanto implica che ha la sua essenza nell’altro. Cioè, in ciò che non è. Il rapporto all’altro è essenzialmente proprio dell’essere-per-sé… Qualcosa è per sé in quanto non è per altro. “Con ciò cade l’ultimo in quanto che separava l’essere-per-sé e l’essere per altro. Sotto un unico e medesimo riguardo l’oggetto è piuttosto il contrario di se stesso: è per sé in quanto è per altro, ed è per altro in quanto è per sé. Esso è per sé, è riflesso in se stesso, è Uno; ma questo essere per sé, essere riflesso in se stesso ed essere Uno, è in unità con il contrario, l’essere-per-altro, ed è posto quindi solo come un tolto; o questo essere-per-sé è tanto inessenziale, quanto ciò che solo doveva essere l’inessenziale, vale a dire quanto la relazione ad altro”. Questa relazione è ciò che volevamo togliere ma che, invece, continua a rimanere. È l’idea che qualcosa possa esistere senza essere in relazione. Che è un po' l’esergo da cui siamo partiti: il “c’è” è in quanto è in relazione con qualche cosa, e se in relazione è perché è in un movimento, è perché è nel linguaggio, in questa struttura, sennò tutto questo non sarebbe mai esistito. A pag. 145. Questo universale è condizionato dal singolo… L’universale non c’è senza il singolo e, a sua volta, il singolo non c’è senza l’universale. …e in conformità con questa condizionatezza, è affetto da una opposizione ad altro. Perciò anche l’universale, in quanto oggetto della percezione, la cosa, ha dovuto dividersi nell’Uno delle proprietà e nell’Anche delle libere materie. Ma queste pure determinatezze della cosa, l’Uno e l’Anche… Il singolo e l’universale. …che sembravano rappresentare la sua essenza quieta, si mostrano nella costante inquietudine del vicendevole contrapporsi, e cioè d’un contrasto che risiede nell’essenza della cosa stessa. … L’essere della cosa è in sostanza per sé e per altro in uno. È per sé e per altro in uno. Quest’unità però, nella quale entrambi sono essenziali, quest’unità dei contraddittori non può comprendere insieme la percezione e la sua riflessione. La percezione non è in condizione di pensare la contraddizione. Quando pensa, lo fa in modo tale da evitare la contraddizione. La legge dell’evitare la contraddizione è proprio la legge fondamentale del sano intelletto umano. Il sano intelletto umano, quello che indicava prima come quell’intelletto che contrappone gli astratti senza coglierli nel concreto. Però, a lui non interessa questo, a lui interessa il concreto, l’intero, direbbe Severino, e l’intero è ciò che non è più fatto di astratti ma è l’insieme, per dirla in modo un po' rozzo, di questi astratti presi nel mondo e nel modo in cui si trovano in questo momento, qui e adesso. Quindi, non sono più astratti in quanto tali, ma sono appunto l’intero, il concreto. A pag. 146. Il riflettere si muove sul filo conduttore dei diversi “nella misura in cui” e delle svariate prospettive: il singolo Uno e i molteplici Anche, l’essenziale e l’inessenziale, i per-sé e il riferito-ad-altro. Ciò che la riflessione chiama dunque in causa volta per volta come punto di vista, lo prende dunque sempre unilateralmente, separato da altre possibili prospettive, essa si muove nelle mere astrazioni e si attiene ad esse. La ragionevolezza riflessiva del percepire sembra attenersi completamente al regno concreto della cosa e delle sue proprietà, e si muove invece in sostanza in appariscenti e vuote unilateralità. Si fa passare per il pensiero concreto e più ricco ed è in sostanza il più misero. Essa è solo la parvenza dell’intelletto, è cioè l’intelletto che suole elogiare costantemente se stesso conclamandosi “sano intelletto umano”. Quando pone la sua attenzione e immagina che le cose astratte siano per sé, indipendentemente dall’intero, dal concreto, in cui e per cui esistono; perché se non ci fosse il concreto, queste astrazioni non esisterebbero, nonostante queste astrazioni siano necessarie perché ci sia il concreto, così come il singolo è necessario perché ci sia l’universale. Non è lontano da ciò che diceva anche Peirce riguardo al segno, e cioè in una relazione A è B, il primo elemento, la A, compare nel momento in cui c’è la B, perché è la B che dice che cos’è la A. Quindi, il primo elemento c’è a condizione che ci sia il secondo, ma questo secondo elemento a sua volta si volge in un terzo elemento, che è la relazione tra A e B e che fa diventare sia la A che la B differenti dalle loro astrazioni, ma le volge in un concreto, in un intero. A questo punto, non sono più A e B ma il concreto, l’intero “A è B”. A pag. 146. La percezione, l’intelletto comune, si scontra contro questo mettere insieme, e contro il conseguimento della pura universalità incondizionata in quanto verità peculiare della coscienza. L’intelletto comune si scontra contro l’intelletto reale per essenza. In questo scontrarsi, però, la percezione testimonia già dell’intelletto in quanto ad essa superiore, ciò cui non è pari, ma in cui ora – poiché, in conformità all’impostazione fondamentale, nel sapere assoluto in generale non c’è alcun relativo permanere – dev’essere mediata in modo assolvente. Non c’è alcun relativo permanere nel sapere assoluto. Nulla permane perché se qualche cosa è, è in quanto preso in questo movimento, che Peirce ha mostrato molto bene: il movimento per cui la A è la B, ma è la B che fa esistere la A, è il secondo elemento che fa esistere il primo, che a questo punto non è più neanche il primo, è semplicemente l’intero di una relazione. Questo era il capitolo della percezione; il prossimo capitolo, il terzo, si intitola Forza e intelletto. Ma questo che abbiamo letto è un capitolo importante perché riguarda la questione dell’oggetto. Qui ci mostra Heidegger, leggendo Hegel, che l’oggetto risulta, e lo dice in modo esplicito, una sorta di costruzione, cioè l’oggetto è per noi, non è mai per se stesso. Non esiste un oggetto per se stesso, esiste un oggetto per noi, cioè un qualche cosa che nella nostra coscienza interviene come oggetto. Ora, le cose che dicevamo la volta scorsa vanno in questa direzione. La questione dell’oggetto è fondamentale per la conoscenza, perché se c’è conoscenza è conoscenza di qualcosa e, quindi, deve esserci qualcosa perché ci sia conoscenza, sennò la coscienza si esercita su niente e, quindi, non conosce niente. Da qui, nel luogo comune, la necessità anche teorica dell’esistenza dell’oggetto, cioè di una realtà fuori dalla parola: la parola si avvia in relazione a degli oggetti che sono fuori di essa. A questo punto, nell’opinione comune la condizione del linguaggio è che ci siano cose. Ma Hegel incomincia a porre delle obiezioni a tutto ciò dicendo che l’oggetto è per la coscienza e che, quindi, alla fine, è per noi. Ci dice che questo oggetto non c’è fuori della coscienza. Possiamo dire: non c’è fuori del linguaggio. Quindi, il primo oggetto, il “primo” qualcosa non è fuori del linguaggio. Qualcuno potrebbe chiedersi: “Ma come è possibile? Se è qualche cosa è qualche cosa”. Non necessariamente, se consideriamo il fatto che, dicendo, dico qualcosa. Ecco il primo qualche cosa: il mio dire. Il mio dire che, dicendosi, dice qualcosa, ma questo qualche cosa non è riferito a un oggetto esterno al linguaggio, è semplicemente il fatto che in questa separazione, tra il mio dire e ciò che vado dicendo, si impone un qualche cosa, che è ciò che ho detto. Quindi, il “primo” qualche cosa è nella parola, e non potrebbe neanche essere altrimenti, perché se non fosse nella parola, come ne avrei accesso? Se anche immaginassi un qualche cosa che non è nella parola, per poterne dire, pensare, ecc., devo farlo entrare nella parola, per cui da quel momento in poi non è più fuori della parola ma è nella parola. A questo punto potremmo affermare che il linguaggio, per prodursi, non ha necessità di oggetti fuori di lui, che non può conoscere; può, però, porre le condizioni per pensare che esistano fuori di lui. Può farlo perché può considerare che il mio detto, che segue al dire, sia fuori del dire, cioè, che qualche cosa che dico non sia più nel dire. È un’illusione, ovviamente, però è ciò che generalmente si pensa ed è l’avvio di tutto il pensare metafisico, e cioè che qualche cosa sia quella che è per virtù propria, che il mio detto, una volta detto, non mi appartenga più, non appartenga più al linguaggio, ma che esista per sé. Mentre non è propriamente così: il mio detto, per dirla hegelianamente, è ciò che si contrappone al dire, è il suo negativo. In quanto tale, il mio dire necessita del detto per potere essere quello che è, così come il significante necessita del significato per essere un significante. Tutto questo è sempre una considerazione intorno al funzionamento del linguaggio, che però, a questo punto, ci apre una via, nel senso che sbarazza della idea antica e straordinariamente diffusa che il linguaggio, per potere avviarsi, abbia bisogno di un qualche cosa di cui parlare e, quindi, un qualche cosa pensato come fuori del linguaggio. No, il linguaggio nel suo funzionamento ha già questo elemento, ha già in sé quel qualche cosa, perché quel qualche cosa non è altro che il qualcosa di cui parlo, che è il mio parlare stesso, che a questo punto diventa il qualche cosa, che poi nelle fantasie si costruisce come un’infinità di altre cose. Ma il primo qualche cosa, senza il quale il linguaggio non si avvia, è prodotto da questa distanza, potremmo dirla così, tra il dire e il detto. In effetti, è la stessa struttura del linguaggio: senza questa distanza il linguaggio non c’è e, quindi, in assenza di linguaggio tutte queste considerazioni sarebbero totalmente inesistenti.