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6-11-97

 

IL PLATONISMO NELLA LINGUISTICA OCCIDENTALE

 

Vi parlerò questa sera di un aspetto su cui è da tempo che rifletto e che sembra importante rispetto al discorso occidentale, sempre chiaramente attenendoci alla questione della linguistica, il titolo in effetti è il Platonismo nella linguistica occidentale, questione che discuteremo questa sera e anche la volta prossima, perché‚ il platonismo nella linguistica occidentale? Per una riflessione che ha preso le mosse dalla linguistica e il modo in cui viene intesa generalmente, e d'altra parte una riflessione intorno a qualcosa che scrive Platone soprattutto nella Repubblica, forse più ancora che nel Cratilo che apparentemente dovrebbe essere il testo più specificatamente linguistico, pone una questione di importanza capitale per tutto ciò che ne è seguito, mi riferisco a quella storiella che racconta, nota come mito della caverna. Ecco riflettendo ho trovato delle connessioni notevoli fra questo mito di cui parla Platone e l'impostazione della linguistica attuale, compresa quella di De Saussure. Cosa succede nella caverna? Come sapete ci sono delle persone inchiodate che vedono sullo sfondo delle ombre, delle ombre che vengono proiettate, ma sono incatenate e non possono voltarsi, quindi non sanno che ciò che vedono sono soltanto ombre. Ombre di qualche cosa che invece rappresenta la realtà, come avviene. Ora la questione che mi è balzata agli occhi è questa e cioè che da sempre le parole sono state intese esattamente in questo modo, come delle ombre che riflettono la realtà non lo sono, la realtà, ma la descrivono, la esprimono, la rappresentano, la manifestano, ma non lo sono, e questo ha una prossimità straordinaria con il mito di Platone. Anche in De Saussure, si tratta sempre di questo e cioè, sì un'indagine molto attenta, molto precisa intorno al linguaggio, ma le parole anche lì, costruiscono cose ma queste cose non sono propriamente l'effetto delle parole. Quando lui fa il famoso algoritmo, dove mette il significato, per esempio l'alberello e sotto la parola albero, lui si riferisce all'albero e cioè al concetto di albero, come se questo albero fosse effettivamente in qualche modo la sostanza del significante, questo significante è garantito dall'esistenza dell'albero, ma non soltanto questo, si tratta anche di riflettere su una questione ancora più importante e cioè se tutto ciò che ho indicato come platonismo essere dietro alla linguistica e quindi all'idea del linguaggio che funziona in questo modo, abbia costituito una sorta di impianto di tutto il discorso occidentale, come dire che il modo in cui si concepisce il linguaggio o meglio ancora dal modo da cui viene inteso il linguaggio, segue il modo in cui si pensa. Questo in termini filosofici e linguistici è abbastanza semplice da intendere ma... per ciascuno, ciascuno non è che abbia una sua teoria particolare del linguaggio, generalmente non avviene, però più o meno consapevolmente ha, pensa in un certo modo, che tiene conto di questo, cioè tiene conto di come immagina che le parole funzionino, quando descrive qualche cosa immagina che le parole siano sempre e comunque una manifestazione di qualche altra cosa che è sempre e comunque fuori dalle parole, e questa è una posizione prevalentemente se non prettamente platonica. In effetti Aristotele non pensava così, è molto diverso, perché‚ Aristotele essendosi occupato più di Platone di logica, si accorge che le cose hanno un andamento logico, cioè non attendono da qualche altra cosa, non sono la manifestazione, per esempio, le parole o i sillogismi di qualche altra cosa che sta altrove, i sillogismi hanno la loro dignità, la loro struttura ma, sì poi è vero che lui è costretto a inventare il motore immoto, ma questo motore immoto non è la realtà ultima delle cose, è soltanto una sorta di escamotage che utilizza per far funzionare tutto il meccanismo, ma non è ciò che sta dietro l'ombra cioè la sua realtà, per nulla, in questo si pone a una distanza notevole da Platone, e c'è da riflettere se tutta la linguistica abbia preso molto più da Platone che da Aristotele, almeno per un impianto fondamentale, quello che consente di pensare che le parole abbiano altrove e fuori da loro una garanzia. E così anche tutto il mito della luce, della luce che illumina che rischiara, e che consente di vedere, anche lì, l'esempio del sole che fa lui, vari mezzi, varie allegorie che puntano sempre a sottolineare che ciò che si vede e quindi in definitiva, ciò che si dice, trae da altro la propria garanzia, cioè da un elemento che è fuori dalla parola. Non è casuale che Platone ce l'avesse a morte con la retorica, perché‚ pensando in questo modo, è chiaro che la retorica utilizzando semplicemente la parola, per potere costruire e demolire delle cose, per lui faceva semplicemente apparire delle cose che reale non era. Se voi pensate bene, a tutt'oggi permane questo modo di pensare e anche molto bene radicato. Quali sono le implicazioni di una cosa del genere? Quali sono state potremmo dirlo facilmente e cioè la costruzione del discorso occidentale che ha ripreso soprattutto attraverso la corrente platonica dei Padri della chiesa, da Agostino in poi. Questo debito della linguistica contemporanea che appoggiandosi su Platone non ha potuto, n‚ saputo accorgersi che il linguaggio non ha dei referenti fuori di sé, questo debito, dicevo, è fortissimo al punto che ancora oggi non si pensa in modo differente da come Platone ha stabilito le cose. Ma riflettendo ancora di più troviamo che un impianto di questo tipo in effetti non soltanto costruisce un modo di pensare ben preciso ma al tempo stesso esclude la possibilità che possa pensarsi in altro modo, in questo senso, che se io immagino che le cose che dico siano soltanto una manifestazione di qualche cosa che è altrove dalle parole, questo mi deresponsabilizza in un certo senso, come dire io non sono l'autore di ciò che dico, non sono responsabile di ciò che dico ma ciò che dico è semplicemente la espressione di qualche cosa che non mi riguarda, perché‚ è fuori di me, ciò che dico sono solo le ombre e queste ombre sono garantite da una realtà che sta altrove. Se voi pensate invece a ciò che dice Aristotele, anche affermando che le parole sono i segni dall'affezione dell'anima, non c'è traccia di un reale, di una realtà, semplicemente dice che le parole sono qualche cosa che vi mostra che c'è una affezione dell'anima ma poi questa anima... nulla ci impedisce di pensare che sia fatta di parole anche lei. Con questo o meglio ci induce a riflettere su come questo impianto platonico abbia impedito di potere pensare altrimenti e fino ad oggi è schermata questa eventualità, in modo molto forte, questa eventualità che invece non ci sia uscita dal linguaggio. Tutta la linguistica ma anche l'ermeneutica attuale che è assolutamente lontana da tutto questo continua, anche l'ermeneutica continua a pensare che ciò che si dice sia un'ombra rispetto a qualcosa che c'è. Pensate soltanto al modo in cui affronta un testo, immagina che tutto ciò che se ne dice, possa un po' alla volta aumentando il grado di formazione giungere alla realtà, come dire che mettendo insieme tutte queste che sono ombre, in un certo senso, (la realtà che ci sfugge) possiamo non cogliere la realtà in quanto tale, che dopo Kant è difficile da individuare, come la cosa in sé, ma possiamo comunque avvicinarci a vedere qual è il reale, cioè cos'è il testo realmente. Altro è immaginare che il testo di cui si sta parlando, è a sua volta, in prima istanza, un altro significante, quando io dico testo, è un significante in prima istanza, poi posso pensare che questo significante corrisponda a una certa cosa, ma questo pensiero è arbitrario, non è necessario, come se tutto sommato il mito della caverna di cui parla Platone fosse a tutt'oggi non solo attuale ma praticato dalla più parte delle discipline filosofico linguistiche, ed è curioso che sia sempre stato Platone a proporre la nobile menzogna, come dire che ciascuno occorre che stia al suo posto tutto sommato. La menzogna è possibile per Platone, la menzogna è possibile perché‚ le parole mentono e mentono necessariamente dal momento che il reale sta da un'altra parte e quindi sono sempre e comunque una menzogna, da qui, come dicevo prima, il suo fastidio per la retorica. Pensate anche a Socrate che pur essendo Sofista in qualche modo ha dato l'avvio a un pensiero di questo tipo, con la sua ricerca della verità. La ricerca della verità è stata avviata appunto da Socrate, tutto sommato, o meglio questo concetto della verità, e più ancora la possibilità di trovarla. Perché‚ ha indotto a pensare che sia possibile trovarla? Dicendo ciascuna volta che ciò che si trovava non lo era e quindi lasciando intendere che da qualche altra parte c'era, e in questo ha preso le distanze dai Sofisti, pur utilizzando gli stessi sistemi che usavano loro, per un verso Socrate è ancora un sofista, ma mentre i Sofisti non affermavano che qualcosa era falso in relazione a un vero, ma che poteva essere provato falso o dimostrato vero, ma all'interno di un gioco che si andava facendo. Infatti loro... ciò che insegnavano in buona parte anche per questo erano invisi ai più, era che, in effetti, tanto il falso quanto il vero non avevano nessuno statuto ontologico, erano semplicemente regole di un gioco, con Socrate incomincia a non essere così, e allora la parola non diventa più, non è più come per i Sofisti, la produttrice di ciò che appare, di ciò che si vede, pensate a come descrive il Sofista, come un cieco, un cieco che non vede, non vede e quindi ha bisogno della parola, che qualcuno gli parli, gli racconti, allora vede, vede attraverso le parole che ascolta, come se non avesse gli occhi, anche se magari ha un'ottima vista, ecco dicevo, la parola non più dunque come per il Sofista quell'elemento fondamentale che consente di vedere, di sentire, di vivere, di esistere, ma diventa il tramite per raggiungere un elemento che è fuori dalla parola, cioè la verità, e questo sembra avviarsi con Socrate, almeno in modo deciso, diciamo, e poi in modo definitivo, con Platone. Il quale è come se prendesse molto sul serio tutto ciò che andava facendo Socrate, ora non sappiamo se Socrate ci credesse oppure no, ma è marginale, ci importa il fatto che ci abbia creduto Platone, a questa ricerca della verità, per cui la vita stessa di un uomo diventa degna o è degna se e soltanto se, è improntata alla ricerca di questo elemento, dato come acquisito, come necessario, la verità c'è per Platone, dopo Socrate, c'è assolutamente e questa è una innovazione tutto sommato mica da poco, i cosiddetti fisici che hanno preceduto, Anassimene, Anassimandro, Empedocle ecc. non si sono affatto curati della verità e il modo in cui ne parla Parmenide, è tutt'altro che utilizzabile, nei modi di Socrate, mentre per Socrate incomincia a delinearsi la necessità di trovare un elemento fuori dalla parola, che garantisca tutto ciò che si dice. In questo potremmo dire che la chiesa si è avvalsa più di Platone che di Aristotele, che per altro è venuta a conoscere tardivamente, in buona parte attraverso traduzioni arabe, ma almeno fino a Tommaso, Aristotele era poco seguito, appunto perché‚ la questione della verità in Aristotele, è più difficilmente manipolabile di quella che invece viene fornita da Platone, il quale invece la dà come assoluta, e acquisita, necessariamente esistente e da trovare; tutto sommato Aristotele fornisce gli elementi e una struttura per indicare un modo per stabilire quali sono le proposizioni vere ma è soltanto il procedimento che lui fornisce, quindi vere rispetto a quel procedimento, per Platone no, e questo è stato come dicevo utilizzato dalla chiesa, la quale doveva necessariamente trovare un modo per cui la verità fosse necessaria e quindi fosse necessario dio, come altro nome della verità in definitiva, perché‚ se la verità non c'è allora dio non c'è, molto semplicemente e questo, per i Padri della chiesa, era un problema non secondario, la verità doveva esserci, perché‚ dio è la verità, quindi se non c'è verità, non c'è dio. Rispetto alle questioni su cui riflettevano allora, questa è una di quelle su cui occorreva andarci cauti, prima di sbarazzarsi della nozione di verità, perché‚ sapevano che sbarazzandosi della nozione di verità, si sbarazzavano della nozione stessa di dio, e della sua necessità. E la linguistica non ha fatto esattamente le stesso cose? Immaginando e continuando a immaginare, contro ogni evidenza tutto sommato, ogni evidenza logica, che non c'è nulla fuori dalla parola, perché‚ non c'è nessuno strumento per poterlo conoscere, contro ogni evidenza dicevo, e questo rende ancora più bizzarra tutta la vicenda, se voi pensate bene, come è stato possibile pensare che qualche cosa fosse fuori dalla parola? Come è stato possibile? Gli strumenti per accorgersi che una affermazione del genere è qualcosa, ed è autocontraddittoria, gli umani li hanno da 2500 anni, perché‚ Gorgia li ha forniti, affermando che nulla è, se qualcosa fosse, non sarebbe conoscibile e se fosse conoscibile non sarebbe comunicabile, ha gi individuato in modo molto preciso che non c'è possibile uscita dal linguaggio, e indicando anche come all'interno del linguaggio sia formulabile un numero notevole di paradossi, e che questi paradossi si producono al momento stesso in cui io sostengo che un elemento anche uno solo, è fuori dal linguaggio. Adesso possiamo anche pensare così, come mai si sia operata una cosa del genere? e la questione che molto rapidamente viene alla mente, è che senza questo apporto della verità, cioè di un elemento fuori dalla parola, non sarebbe stato possibile costruire tutto ciò che il discorso occidentale ha costruito, in termini di civiltà, di società, di leggi, soprattutto, ponendo la questione nei termini in cui la ponevano i sofisti, non era possibile, non a caso venivano cacciati. Ora la linguistica continuando a pensare che, continuando da De Saussure fino a gli ultimi, a pensare che il linguaggio è uno strumento, un mezzo e che comunque rappresenta sempre qualche altra cosa, non soltanto rimane fortemente e saldamente impiantato sul platonismo, ma continua la sua nobile menzogna, continua a mentire, la differenza è che allora forse Platone era in mala fede, questo era appunto a suo vantaggio, mentre oggi no, i linguisti sono in buona fede, pensano che effettivamente sia così, che necessariamente ci siano le cose, lo stesso Eco, ho letto un articolo comparso a proposito del suo ultimo libro Kant e l'ornitorinco, non solo afferma ma conferma una cosa del genere, parla addirittura di una sorta di zoccolo duro del reale, un reale che è fuori dalla parola. In effetti gi nel suo trattato di semiotica individuava nella parola un segno che rappresenta qualcosa per qualcuno ma, ma questo qualche cosa non è un'altra parola, è un elemento che è fuori dalla parola, tutta la semiotica si blocca su questa questione, a partire dallo stesso Peirce che l'ha inventata, incappando nella necessità teorica, che è implicita nelle loro premesse, di un interpretante logico finale cioè dell'elemento che chiude la catena, e cioè quello che dice esattamente come è la cosa. Affermando che percepisce qualcosa della realtà, la percezione c'è, io dicendo questo metto insieme soltanto una proposizione, cioè elementi linguistici, dovrei sapere provare che questi elementi linguistici hanno un referente fuori dal linguaggio, per potere affermare una cosa del genere, ma non lo posso provare e quindi posso soltanto credere. Dicevo dunque che la linguistica ha proseguito, perseguito questa nobile menzogna, direi quasi così metaforicamente che il discorso occidentale ha potuto farsi, ha potuto esistere su questa nobile menzogna, cioè torno a dire che esista o che possa esistere un elemento fuori dalla parola e cioè possa esistere la realtà in questi termini, come interpretante logico finale o come la sostanza delle cose, ipokeimenon, per i Greci, la soggiacenza, ciò che sta sotto, il reale, ciò che è, ma rimane una questione linguistica, lo stesso Tommaso nel De Ente et Essentia affronta la questione compiendo degli artifici teorici per dare una dignità all'essenza, all'ente ed è nel suo genere un gioiello di metafisica, una volta ne parlammo, qualche anno fa...Tommaso, il tomista: divide et impera...ecco Tommaso si d un grand'affare per stabilire l'essenza fuori dal linguaggio e si accorge benissimo del pericolo che incombe su di lui, dicendo che se le cose fossero soltanto affidate al linguaggio non sarebbe possibile fondare nulla, per questo non è possibile che esista solo il linguaggio, anche se lui giunge a dire che ha una portata fondamentale, ma essendo inventato da dio è anche garantito e dio è appunto la verità e quindi fuori dalla parola. Lui sa benissimo che se si trovasse a reinserire anche la verità, cioè dio all'interno del gioco linguistico, tutto crollerebbe non rimarrebbe nulla di tutto quell'impianto formidabile che è il cristianesimo e quindi tutta una serie di operazioni, le famose cinque vie che stabiliscono, dovrebbero stabilire, l'esistenza di dio, una di queste fondamentali è che non è possibile una regressio all'infinito, questo è un assioma, non è possibile perché‚ altrimenti appunto non possiamo stabilire la verità, ch‚ andando indietro all'infinito...andando indietro all'infinito, cosa succede? Che ci fermiamo, ma questo fermarci è assolutamente arbitrario e invece no, questo fermarci non è arbitrario perché‚ la percezione dei sensi ce lo impedisce e questo senso è favorito da dio, come sempre è l'unico garante. Ora anche la linguistica ha un suo dio, cioè costruisce le cose in modo tale da prevederne in qualche modo l'esistenza. Per esempio nella linguistica strutturale, quella inventata da De Saussure, è la percezione, la percezione di ciò che in definitiva garantisce della parola, come sempre è sempre avvenuto così, e quindi la percezione è la percezione del reale, senza questo elemento, (la percezione poi non è altro che il senso comune), senza questo elemento la linguistica attuale si troverebbe sospesa nel nulla cioè sospesa semplicemente al linguaggio, mentre continua a fare tutto per non accorgersi di una cosa così semplice, che proprio perché‚ ci troviamo nel linguaggio non è possibile uscirne. Chiaro che trovarsi di fronte alle implicazioni di una affermazione come questa, può essere devastante, in quanto viene abbattuto tutto ciò che il discorso occidentale sostiene e afferma, che in definitiva è tutto su cui si fonda. Come dicevo prima è sicuramente uno dei motivi che più rapidamente sorgono dalla necessità di mentire o mantenere uno status quo, per mantenere cioè la possibilità di governare in definitiva e quindi la possibilità che gli umani credano. Una questione che potrebbe porsi è questa se, senza tale nobile menzogna, sarebbe possibile credere qualcosa, torno a dire la nobile menzogna è quella che afferma che esiste la verità come elemento fuori dalla parola e c'è l'eventualità che la risposta sia no, che non sarebbe possibile credere e se non fosse possibile credere non sarebbe possibile costruire il discorso occidentale. Da qui qualche utilità di questa nobile menzogna, che posta in questi termini risulta ancora più nobile di quanto la voleva Platone, e ancora più fondante, si tratterebbe di fare uno studio molto preciso             sulla linguistica soussuriana, quindi quella che ne è seguita, della presenza di un elemento extralinguistico, il referente, quello che la linguistica chiama il referente, la cosa in sé, che non è conoscibile, almeno dopo Kant c'è qualche problema, ma c'è, questo è l'essenziale, che ci sia, così come la verità, nessuno affermerebbe oggi così con leggerezza di sapere qual è la verità, almeno qualunque persona un po' acuta, ma nessuno potrebbe affermare che la verità è soltanto un significante, e come tale può assumere qualunque senso. La domanda che porrebbe l'accademico di fronte ad una affermazione del genere è questa: ma questa affermazione che dici è vera o falsa? Se è vera allora anche tu credi questo, se è falsa ci credi lo stesso. Ma la domanda posta in questi termini è un non senso, affermare che nulla è fuori dalla parola, non è n‚ vero n‚ falso è qualcosa che è ancora al di qua, è semplicemente non negabile, non necessita di un criterio verofunzionale, lo costruisce e costruendolo lo costruisce a suo piacere, stabilendo che vero è tutto ciò che ha una certa forma e falso tutto ciò che ne ha un'altra. Ma esclude la possibilità che si dia la verità, se non, e sta qui la innovazione per così dire, come procedura linguistica: la verità è una procedura linguistica, è un elemento che serve unicamente al linguaggio per proseguire, nient'altro che questo, è qualcosa che possiamo ricondurre al principio del terzo escluso, per esempio, o di identità: o A o non A, non si da una terza possibilità. E allora posso indicare con l'uno vero e con l'altro falso, ma sto enunciando procedure linguistiche, se io affermo che una cosa è vera e falsa come abbiamo detto in varie occasioni, arresto il discorso e non posso proseguire, con questo abbiamo reinserita la verità all'interno del linguaggio, è soltanto una procedura, una procedura cioè uno degli elementi di cui è fatto il linguaggio, perché‚ senza questa procedura il linguaggio non esisterebbe. Pensate al principio di identità, io affermo che una certa cosa è quella cosa, molto semplicemente e molto banalmente, questo è soltanto una procedura linguistica, che mi dice che se una cosa, cioè una parola, fosse ciascun altra parola, il linguaggio cesserebbe di esistere, non potrei utilizzarlo e quindi non ci sono altre cose da aggiungere, almeno rispetto a questo aspetto, è soltanto ciò che mi consente di potere parlare, quindi essendo una procedura linguistica è un elemento del linguaggio, n‚ potrebbe in nessun modo esserne fuori. Mentre Platone gi con questa idea dell'Iperuranio che è poi stata utilizzata moltissimo dalla chiesa, alludeva a qualche cosa che è fuori portata degli umani, che trascende, mentre paradossalmente in Aristotele non c'è questo aspetto, pur ponendo questioni metafisiche, non c'è propriamente qualcosa che trascende l'umano, che trascende ciò che gli umani pensano e quindi dicono, non c'è un Iperuranio, non c'è un cielo e quindi un dio che garantisce e "mostra" tra virgolette che ciò che vediamo è solo apparenza, possiamo dire che ciò che si vede è apparenza soltanto se suppone che da un'altra parte ci sia qualcosa che apparenza non è, in caso contrario non ha nessun senso. Ci sono questioni?

Intervento:

Che se noi volessimo fare una cosa del genere, proprio a proposito del motore immoto, un idea che tutto sommato non è poi così strampalata come è apparsa a molti, pensate al linguaggio, è ciò che muove ma da chi è mosso se non da se stesso? Nel senso che formulata così può apparire un po' strampalata la questione, ma chiedersi da chi è mosso e come chiedersi chi c'è fuori dal linguaggio che lo muove, e invece il linguaggio si muove, dicendosi si fa, se volessimo proprio tirala per i capelli, potremmo anche dire che Aristotele ci è andato molto vicino, certo non ha affermato che il motore immoto è il linguaggio però, non è più un colui che "tutto move", non è più un colui, è un motore immoto, è qualche cosa che muove, ma senza essere mosso, qualcosa che produce ma senza che sia possibile trovare un elemento che produca lui, perché‚ qualunque elemento è sempre prodotto da lui, dal linguaggio in questo caso, e affermare questo risulta necessario, risulta necessario proprio per la struttura del linguaggio che ci impedisce di affermare il contrario, cioè che un elemento è fuori dal linguaggio, non fa una grinza posta così la questione. Questo potrebbe rivalutare in parte Aristotele che è stato un po' bistrattato per via della questione metafisica, che però se ci riflettete bene è molto meno vicina al discorso occidentale di quanto sia il platonismo, con tutto poi.. le frange occultiste che ne hanno fatto seguito, tutto l'occultismo ha un impianto platonico molto forte, non aristotelico, platonico

Intervento: il noumeno di Kant, risente ancora di qualcosa di platonico 

C'è sempre la contrapposizione tra noumeno e fenomeno, è sempre un dualismo che dice di una cosa che appare...è un po' il concetto e la cosa...anche se rimane l'intoppo di qualcosa che non è conoscibile. Non è conoscibile perché‚? Perché‚ è fuori dal linguaggio o perché‚ è autocontraddittorio? Perché‚ o lo pone come autocontraddittorio cioè non è conoscibile per questo, così come non è conoscibile la risposta alla domanda se Epimenide cretese mente o dice la verità. Però per lui non ha nessun valore cioè ciò che è autocontraddittorio non c'è, e se non lo è, allora non è conoscibile per quale motivo? Perché‚ è fuori dal linguaggio.

Intervento: la cosa più difficile da trattare senza appunto trasformarlo in platonismo è proprio questo motore immoto, anche l'altra definizione come la parola come affezione dell'anima è difficile

Il discorso occidentale si è costruito sul platonismo, essendosi costruito sul platonismo rende molto difficile pensare altrimenti, eppure il linguaggio è ciò che muove nel senso che molto semplicemente io posso dire che una cosa si muove perché‚ sono nel linguaggio, in questo senso è ciò che tutto muove, ma chi lo muove? per reperire l'elemento che lo muove occorre che ne usciamo fuori, e questo ci è impedito, ecco perché‚ il linguaggio è un motore immoto, ciò che tutto muove

Intervento: se si pone il motore immoto come il produttore è come se si innescasse una ricerca che spinge al motore immoto, da cui l'origine di tutto. Se si pone la questione in questo modo è subito fuori parola_

No, ponendolo letteralmente come motore immoto, il linguaggio è poi il motore in moto, in accezione che indicavo prima, non c'è nessun problema, appunto per questo è il motore immoto, perché‚ non c'è nessuno che lo mette in moto, ma non per una questione ontologica o filosofica o morale, per qualche verso, perché‚ per trovare l'elemento che lo metta in moto, questo linguaggio, occorre che questo elemento sia fuori dal linguaggio, perché‚ se è nel linguaggio allora effettivamente è il motore immoto, o è nel linguaggio e allora è lui il motore immoto oppure è fuori dal linguaggio, ma se è fuori dal linguaggio come lo so? E con quale strumento potrò saperlo, se non con il linguaggio e quindi sarò sempre dentro il linguaggio, se fosse veramente fuori dal linguaggio allora non sarebbe un elemento linguistico, ch‚ un elemento linguistico è tale perché‚ è inserito all'interno del linguaggio, non essendo un elemento linguistico non ha alcuna possibilità di essere percepito, e quindi non c'è. Abbiamo dimostrata la necessità del motore immoto, anche se non è che Aristotele la ponesse in questi termini ovviamente

Intervento: in qualche modo Aristotele la poneva come l'interpretante logico di Peirce.

No, perché‚ non è il significato ultimo, la pone in un modo talmente bislacco da essere assolutamente non manipolabile, perché‚ questo motore immoto non è qualche cosa è un invenzione sua per fare funzionare tutto il marchingegno, non è il senso ultimo delle cose.

Intervento: Però se non poneva questo motore immoto, tutta la sua produzione sarebbe rimasta una regressio ad infinitum, mi viene in mente quello che dice Freud nell'Interpretazione dei sogni laddove parlando della questione logica e retorica, a proposito delle preposizioni e/o, dicendo che nell'inconscio" non c'è negazione, dice che appunto è un susseguirsi di parole: è questo, è questo. La produzione della parola per cui ad un certo punto se non intervenisse qualcosa che pone fine a questo, questo, questo, questo ma qualcosa per cui io dico è questo o quello, la questione logica, le cose sarebbero state sparpagliate non ci sarebbe stato bisogno n‚ del motore immoto, perché‚ non ce ne sarebbe stata l'esigenza. Mi interessa come ad un certo punto ha cominciato a funzionare il principio di non contraddizione o del terzo escluso, anche se mi dico che questa domanda è un non senso, non senso perché‚ gi ponendomi questa domanda funzionano questi principi, per cui ciò che dico ha un senso... Si pone la questione come interviene la logica...

Infatti ciò che fa Aristotele potremmo dire che è la questione retorica cioè parla di retorica, anche laddove si scontra con la logica, ovviamente lì, trova il motore immoto...vi leggo un brevissimo scritto di Gorgia dove dimostra tanto che l'essere è, quanto che l'essere necessariamente non è, e cioè in definitiva che la verità necessariamente c'è e necessariamente non c'è. Argomenti altrettanto potenti, ponendo la questione in questi termini, su questo non è possibile costruire nessuna esperienza, non potendosi costruire nessuna certezza, nessun credo è molto difficile edificare uno stato...

Intervento: il motore immoto come astrazione

Diciamo che è una considerazione inevitabile, qualcosa che non è negabile...ecco in questo caso così come la ho posta questa sera, la nozione di motore immoto è tutt'altro che astrazione così come la forma di cui diceva, è una considerazione inevitabile, inevitabile che il linguaggio sia ciò che muove perché‚ è ciò che mi consente di dire che qualcosa si muove ed è inevitabile che non ci sia qualcuno che lo muove, perché‚ non possiamo trovare nulla che sia fuori dal linguaggio, posta in questi termini dicevo, non è così che la poneva Aristotele, però posta in questi termini risulta assolutamente innegabile, inesorabile una cosa del genere la prossima volta...