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6 ottobre 2021

 

Metafisica Aristotele

 

Siamo al Libro Λ, 1069a, 20. L’oggetto su cui verte la nostra indagine è la sostanza: infatti i principi e le cause che stiamo ricercando sono quelli delle sostanze. E infatti, se si considera la totalità della realtà come un tutto, la sostanza è la parte prima; e se la si considera secondo la serie delle categorie, anche così la sostanza è prima, poi viene la qualità, poi la quantità. 1069b, 35. Tre sono, dunque, le cause e tre i principi: due costituiscono una coppia di contrari, di cui uno è la forma, l’altro la privazione, il terzo è la materia. La forma e la privazione non sono altro che il positivo e il negativo di cui parla Hegel. 1071b, 5. Poiché si è sopra detto che le sostanze sono tre, due fisiche ed una immobile:… Le sostanze sono la sostanza sensibile corruttibile, la sostanza sensibile incorruttibile e una immobile, che non è né sensibile né corruttibile. …ebbene, dobbiamo parlare di questa… Aristotele vuole arrivare a dio, sempre nell’accezione in cui ne parla lui, naturalmente …e dobbiamo dimostrare che necessariamente esiste una sostanza eterna ed immobile. Le sostanze, infatti, hanno priorità rispetto a tutti gli altri modi di essere, e, se fossero tutte corruttibili, allora sarebbe corruttibile tutto quanto esiste. Ma è impossibile che il movimento si generi o si corrompa, perché esso è sempre stato;… Qui fa un’operazione linguistica interessante. Dice è impossibile che il movimento si generi o si corrompa. Perché? Perché il movimento è sempre stato. …né è possibile che si generi o si corrompa il tempo,… Qui c’è un bizzarra oscillazione tra qualche cosa che lui inizialmente immagina come sensibile, corruttibile e, invece, un elemento linguistico, un significante. Il movimento è un significante, è, per dirla tutta, un sostantivo e, quindi, è ovvio che non si corrompe. Ma come è avvenuto questo passaggio? Lui sta parlando delle cose corruttibili e poi parla di un significante, del movimento come sostantivo. Il movimento, in quanto sostantivo, in quanto significante, non si corrompe, certo, non è una cosa. …né è possibile che si generi o si corrompa il tempo, perché non potrebbero esserci il prima e il poi se non esistesse il tempo. Ma questi sono tutti concetti, potremmo dire, linguistici. Dunque, anche il movimento è continuo come il tempo: infatti, il tempo o è la stessa cosa che il movimento o una caratteristica del medesimo. E non c’è altro movimento continuo se non quello locale, anzi, di questo, continuo è solo quello circolare. Quindi, tutta l’argomentazione su cui si regge la necessità di un motore immoto sta in questo, che siccome che il movimento, in quanto tale, in quanto sostantivo, non si corrompe, allora il movimento deve essere qualche cosa di assolutamente incorruttibile. Se, poi, esistesse un principio motore ed efficiente, ma che non fosse in atto, non ci sarebbe movimento; infatti è possibile che ciò che ha potenza non passi all’atto. Quindi, deve essere in atto necessariamente, perché se è solo potenza c’è anche l’eventualità che non passi nell’atto e, allora, non c’è neanche più movimento. (Pertanto non avremo alcun vantaggio se introdurremo sostanze eterne, come fanno i sostenitori della teoria delle Forme (Platone), se non è presente in esse un principio capace di produrre mutamento;… Questa è una delle più grosse critiche che fa a Platone, che con la sua teoria delle Forme non giustifica né spiega il movimento. …dunque, non è sufficiente questo tipo di sostanza, né l’altra sostanza che essi introducono oltre le Idee; se queste sostanze non saranno attive, non esisterà movimento). Cioè: devono essere in atto, ci deve essere quella cosa che lui chiama entelechia. Ancora, non basta neppure che essa sia in atto, se la sua sostanza implica potenza: infatti, in tal caso, potrebbe non esserci un movimento eterno, perché è possibile che ciò che è in potenza non passi all’atto. È dunque necessario che ci sia un Principio, la cui sostanza sia l’atto stesso. Pertanto, è anche necessario che queste sostanze siano scevre di materia, perché devono essere eterne, se mai esiste qualcosa di eterno. Dunque, devono essere in atto. Questa è la sua argomentazione, su questo si regge tutto ciò che sta dicendo e dirà sul motore immobile. 1072a, 20. Poiché è possibile che e cose stiano a questo modo – e se così non fosse tutte le cose dovrebbero derivare dalla notte, dalla mescolanza e del non-essere, queste difficoltà si potranno risolvere. C’è qualcosa che sempre si muove di moto continuo, e questo è il moto circolare (e ciò è evidente non solo col ragionamento, ma anche come dato di fatto); cosicché, il primo cielo deve essere eterno. Pertanto, c’è anche qualcosa che muove. Chi mette in moto questo movimento circolare che muove tutto? E poiché ciò che è mosso e muove è un termine intermedio, deve esserci, per conseguenza, qualcosa che muove senza essere mosso e che sia sostanza eterna ed atto. E in questo modo muovono l’oggetto del desiderio e dell’intelligenza: muovono senza essere mossi. Fino a qui non c’è nulla che ci costringa ad accogliere quello che lui sta affermando. Il movimento circolare è quello del moto continuo, sì, certo, ma bisogna metterlo in moto. Chi lo ha messo in moto, nel frattempo? Ora, l’oggetto primo del desiderio e l’oggetto primo dell’intelligenza coincidono:… Ciò che voglio è ciò che è primo per l’intelligenza. …infatti oggetto del desiderio è ciò che appare a noi bello e oggetto primo della volontà razionale è ciò che è oggettivamente bello: e noi desideriamo qualcosa perché lo crediamo bello, e non, viceversa, lo crediamo bello perché lo desideriamo; infatti, è il pensiero il principio della volontà razionale. Qui si vede perché ha dovuto “sbarazzarsi” – tra virgolette perché non se ne è sbarazzato affatto – di Protagora: il bello è quello che appare a me, non quello che appare a te. E l’intelletto è mosso dall’intelligibile, e la serie positiva degli opposti e per se stessa intelligibile; e in questa serie la sostanza ha il primo posto, e, ulteriormente, nell’ambito della sostanza, ha il primo posto le sostanza che è semplice ed è in atto (l’uno e il semplice non sono la stessa cosa: l’unità significa una misura, invece la semplicità significa il modo di essere della cosa); ora, anche il bello e ciò che è per sé desiderabile sono nella medesima serie, e ciò che vien primo nella serie è sempre l’ottimo o ciò che equivale all’ottimo. Dice che il bello è desiderabile ma non dice perché. Lo fa intendere ma senza dirlo, perché non lo può dire, sennò rischierebbe di cadere nella via di Protagora. Semplicemente, la pone come ipostasi: il bello è ciò che è più desiderabile e ciò che è più desiderabile è ciò che viene sempre primo nella serie delle scelte, e che equivale all’ottimo. Che, poi, il fine si trovi fra gli esseri immobili, lo dimostra la distinzione (dei suoi significati): fine significa: (a) qualcosa a vantaggio di cui e (b) lo scopo stesso di qualcosa: nel secondo di questi significati il fine può trovarsi fra gli esseri immobili, nel primo significato no. Dunque, dice che il fine si trovi fra gli esseri immobili lo dimostra i suoi significati. Di nuovo, ci parla di qualche cosa che dovrebbe essere immobile, la sostanza, ma poi scivola sui significati, su ciò che si dice di questa cosa e non sulla cosa. Qui bisognerebbe aprire una parentesi. Aristotele, prima con la Metafisica, e poi con la logica, ha fatto all’umanità un regalo: un giocattolo che illude di potere, attraverso la logica, giungere a una conclusione e l’illusione è che quella conclusione definisca, mostri lo stato delle cose. Non se ne accorge ma è lui stesso che dice: l’essere è nulla, l’essere è la sostanza, e la sostanza non è altro che materia e forma, potenza e atto, cioè è relazione. Quindi, quando affermo qualche cosa, quando giungo a una conclusione, che cosa trovo? Trovo altre parole, sempre e soltanto altre parole: questo è ciò che trovo. Ma la logica dà quell’illusione, quando seguo un ragionamento corretto, di avere il controllo delle cose perché so come stanno le cose. Questa è l’illusione che dà la logica. Dunque, (il primo motore) muove come ciò che è amato, mentre tutte le altre cose muovono essendo mosse. Chi è amato sta fermo e tutti gli vengono letteralmente sedotti, cioè, attratti da lui. Ora, se qualcosa si muove, può anche essere diverso da come è. Pertanto, il primo movimento di traslazione, anche se è in atto, può tuttavia essere diverso da come è, almeno in quanto è movimento: evidentemente, diverso secondo il luogo, anche se non secondo la sostanza. Ma, poiché esiste qualcosa che muove essendo, esso medesimo, immobile ed in atto, non può essere in modo diverso da come è in nessun senso. Lui cerca di bloccare questo movimento, questo motore immobile, e si ritrova a dovere sempre fare ricorso ai significati. Quello che non poteva cogliere, ma che in parte ha colto Hegel, è che l’unico movimento è il movimento della relazione. È questo movimento tra significante e significato, tra il mio dire e ciò che il mio dire dice: ecco, questo è il movimento, non ce ne sono altri. È chiaro che se non si intende questo, il movimento va cercato da qualche altra parte, come per es. il cerchio, che sarebbe il movimento perfetto, che però non si capisce chi lo ha messo in moto o se si muove di per sé, non si capisce tra l’altro per quale motivo avvenga questo. Da un tale Principio, dunque, dipendono il cielo e la natura. Ed il suo modo di vivere è il più eccellente: è quel modo di vivere che a noi è concesso solo per breve tempo. E in quello stato Egli è sempre. A noi questo è impossibile, ma a Lui non è impossibile, poiché l’atto del suo vivere è piacere. E anche per noi veglia, sensazione e conoscenza sono in sommo grado piacevoli, proprio perché sono atto, e, in virtù di questi, anche speranze e ricordi. Ora, il pensiero che è pensiero per sé, ha come oggetto ciò che è di per sé più eccellente, e il pensiero che è tale in massimo grado ha per oggetto ciò che è eccellente in massimo grado. L’intelligenza pensa se stessa, cogliendosi come intelligibile: infatti, essa diventa intelligibile intuendo e pensando sé, cosicché intelligenza e intelligibile coincidono. Cosa è intelligibile? Qualunque cosa. Ecco Gentile: quando penso qualcosa, in realtà sto pensando il mio pensiero. L’intelligenza è, infatti, ciò che è capace di cogliere l’intelligibile e la sostanza, ed è in atto quando li possiede. Si realizza possedendoli, cioè, pensando se stesso. Il pensiero che pensa stesso: l’atto puro di Gentile, lo Spirito Assoluto di Hegel. Pertanto, più ancora che quella capacità, è questo possesso ciò che di divino ha l’intelligenza;… Lui sottolinea proprio questo possesso: il pensiero che possiede ciò che pensa. …e l’attività contemplativa è ciò che c’è di più piacevole e di più eccellente. Se, dunque, in questa felice condizione in cui noi ci troviamo talvolta, Dio si trova perennemente, è meraviglioso; e se Egli si trova in una condizione superiore, è ancor più meraviglioso. Ed Egli è anche vita, perché l’attività dell’intelligenza è vita, ed Egli è appunto quell’attività. E la sua attività, che sussiste per sé, è vita ottima ed eterna. Quindi, Dio sarebbe il pensiero che pensa. Dice: Dio lo fa sempre, gli umani qualche volta. Quindi, quando noi ci troviamo qui e pensiamo il pensiero, stando ad Aristotele, siamo Dio: eritis sicut dii, dicevano gli gnostici. Coloro che, come i Pitagorici e Speusippo, negano che la somma bellezza ed il sommo bene siano nel Principio, per il fatto che i principi delle piante e degli animali sono, sì, cause, ma la bellezza e la perfezione sono solo in ciò che dai principi deriva, hanno una errata convinzione. Il seme, infatti, deriva da atri esseri che precedono e che sono perfettamente compiuti, e ciò che è primo non è il seme ma ciò che è perfettamente compiuto; così, ad esempio, si dovrebbe affermare che l’uomo è anteriore al seme: non l’uomo che è derivato da questo seme, ma quello da cui questo seme deriva. È evidente, dunque, da quello che è stato detto, che esiste una sostanza immobile, eterna e separata dalle cose sensibili. E risulta pure che questa sostanza non può avere alcuna grandezza, ma che è senza parti e indivisibile. (Essa muove, infatti, per un tempo infinito, e nulla di ciò che è finito possiede una potenza infinita; e, poiché ogni grandezza o è infinita o è finita, perla ragione che s’è detta, essa non può avere una grandezza finita, ma nemmeno una grandezza infinita, perché non esiste una grandezza infinita). Quindi, se pensiamo al detto se è nato prima l’uovo o la gallina, per Aristotele è nata prima la gallina, cioè, c’è prima l’atto, necessariamente. 1074a, 25. Se, infatti, tutto ciò che muove è in funzione di ciò che è mosso, e se ogni movimento è movimento di qualcosa che è mosso, non potrà esserci nessun movimento avente per fine se stesso o altro movimento, ma dovrà avere per fine gli astri. Se, in effetti, ci fosse un movimento avente per fine un altro movimento, questo dovrebbe avere, a sua volta, qualche altro fine; ma, poiché è impossibile andare all’infinito, il fine di ogni movimento dovrà essere qualcuno dei corpi divini che si muovono nel cielo. Perché? Perché è impossibile andare all’infinito. 1074b, 15. Per quanto concerne l’intelligenza, sorgono alcune difficoltà. Essa pare, infatti, la più divina delle cose… L’intelligenza che pensa se stessa è la più divina delle cose in quanto l’intelligenza ha di mira soltanto ciò che è perfetto, ciò che è ottimo, ciò che è desiderabile. Come? Come l’amato è ciò che muove l’amante. Infatti, se non pensasse nulla, non potrebbe essere cosa divina, ma si troverebbe nella stessa condizione di chi dorme. E se pensa, ma questo suo pensare dipende da qualcosa di superiore a lei, ciò che costituisce la sua sostanza non sarà l’atto del pensare ma la potenza, e non potrà essere la sostanza più eccellente: dal pensare deriva, infatti, il suo pregio. Inoltre, sia nell’ipotesi che la sua sostanza sia la capacità di intendere, sia nell’ipotesi che la sua sostanza sia l’atto dell’intendere, che cosa pensa? O pensa sé medesima, oppure qualcosa di diverso; e, se pensa qualcosa di diverso, o pensa sempre la medesima cosa, o qualcosa sempre diverso. Ma è o non è cosa ben differente il pensare ciò che è bello oppure una cosa qualsiasi? O non è assurdo che essa pensi certune cose? È pertanto evidente che essa pensa ciò che è più divino e più degno di onore e che l’oggetto del suo pensare non muta: il mutamento, infatti, è sempre verso il peggio, e questo mutamento costituisce pur sempre una forma di movimento. Qui Aristotele dà per acquisito il fatto che quando si pensa si tenda a pensare la cosa più sublime. Perché? Perché lui è partito dall’idea che la potenza deve necessariamente passare all’atto, perché l’atto è la sua perfezione, è il fine. Infatti, il greco τέλος è anche la perfezione, lo si intende anche così. Quindi, la perfezione è ciò a cui si tende, la perfezione, cioè, l’atto compiuto. 1074b, 35. Tuttavia, sembra che la scienza, la sensazione, l’opinione e il ragionamento abbiamo sempre come oggetto qualcosa di altro da sé, e che abbiano sé medesimi come oggetto solo di riflesso. Inoltre, se altro è il pensare e altro ciò che viene pensato, da quel dei due deriva all’Intelligenza la sua eccellenza? Il pensare e il pensato. Lui si chiede da quale dei due deriva la sua eccellenza. Ovviamente, dalla relazione tra i due. Però, lui non lo dice. Infatti, l’essenza del pensare e l’essenza del pensato non coincidono. In realtà, in alcuni casi, la scienza stessa costituisce l’oggetto: nelle scienze poietiche, per esempio, l’oggetto è la sostanza immateriale e l’essenza, e nelle scienze teoretiche l’oggetto è dato dalla nozione e dal pensiero stesso. Dunque, non essendo diversi il pensiero e l’oggetto del pensiero, per queste cose che non hanno materia, coincideranno, e l’Intelligenza divina sarà una cosa sola con l’oggetto del suo pensare. Quando il pensiero e il pensato coincidono, cioè sono la stessa cosa, ecco che il pensiero è divino, è la sua eccellenza, è compiuto. È quello che Hegel chiamava lo Spirito Assoluto. 1075a, 5. Tutto ciò che non ha materia non ha parti. e così come l’intelligenza umana – l’intelligenza, almeno, che non pensa ei composti – si comporta in qualche momento (infatti, essa non ha il suo bene in questa o quella parte, ma ha il suo bene supremo in ciò che è un tutto indivisibile, il quale è qualcosa di diverso dalle parti): ebbene, in questo stesso modo si comporta anche l’Intelligenza divina, pensando sé medesima per tutta l’eternità. Il bene supremo che cos’è? L’essere compiuto, l’essere un tutto, è l’entelechia: questo è il τέλος, nel senso di fine ma anche di perfezione, che è ciò a cui necessariamente e inevitabilmente si tende. E ci si tende perché la potenza tende a diventare atto, perché se non diventasse atto non sarebbe potenza. Qui sta tutto il nucleo: la giustificazione di tutto ciò è l’entelechia, nel fatto che la potenza è tale perché è in vista dell’atto; se la potenza non diventa atto rimane incompiuta, rimane qualcosa che è e non è, mentre per essere deve necessariamente tramutarsi in atto. Questo è il motivo portante di tutta la Metafisica di Aristotele, è il motivo per cui si trova a suo agio nel dire che si tende verso il fine, verso il bene, perché sempre presente questo momento della potenza e dell’atto; la potenza non è niente se non diventa atto: per questo il fine da raggiungere è la perfezione. Qual è l’atto più perfetto? Come ci diceva, sarebbe il pensiero che pensa se stesso, che non ha più da pensare altre cose, cose parziali, incompiute, ma pensa se stesso come ciò che mette in moto tutto questo meccanismo. È il pensiero come atto puro di Gentile. 1075b, 35. Qui Aristotele riprende un’antica questione nei confronti dei Pitagorici e di Platone. Inoltre, nessuno dice, in alcun modo, in virtù di che cosa i numeri formino una unità, o l’anima e il corpo siano un tutt’uno e, in genere, la forma e la cosa, né è possibile dirlo, se non si ammette, come noi, che sia la causa motrice a produrre questa unità. Coloro che ritengono che il principio sia il numero matematico, e affermano che c’è una successione di sostanze senza termine, e che per ciascuna sostanza ci siano diversi principi, riducono la realtà dell’universo a una serie di episodi (infatti, l’esistenza o meno di una sostanza non esercita alcun influsso sull’altra), e ammettono molti principi, ma le cose non vogliono essere governate male, “il governo di molti non è buono; uno solo sia il comandante”. Qui se la prende con i Pitagorici perché questi, pensando al numero come sostanza, pongono molti principi. Questa cosa non va bene ad Aristotele perché il principio deve essere uno, sennò non può sostenere l’idea del bene, del bene come fine assoluto. E, allora, qual è la sua argomentazione di sempre? Il bene è ciò a cui si tende, deve essere uno, deve essere il compimento, l’atto perfetto e l’atto perfetto è quello che porta la potenza in atto. È sempre questa la questione, non ce ne sono altre. Ora, i Libri M e N non rappresentano per noi un grandissimo interesse. In questi Libri Aristotele fa una disamina delle varie teorie dei Pitagorici e di Platone per confutare questa questione che loro pongono, quella dei numeri e delle Idee. A lui importa cancellare chiunque sostenga che esistano tanti principi; il principio è uno, quello che dice lui: il comandante deve essere uno solo. Tutte queste argomentazioni sono fatte tra l’altro, come spesso fa Aristotele, modificando quello che gli altri dicono in modo da renderlo più facilmente confutabile. Ci basterà soltanto leggere qualcosa che ci dice qui nel suo commentario Reale intorno a questi due ultimi libri. Contro l’argomento di esistenza di enti matematici separati. Separati vuol sempre dire che sono per sé, che non sono in relazione ad altro. Qui riprende Aristotele. Non solo le superfici e le linee non possono essere animate, ma non sono nemmeno sostanze, mentre il corpo può considerarsi in un certo senso sostanza perché ha una sua compiutezza. Quindi, la sostanza è sempre connessa con la compiutezza: il sinolo, materia e forma. Infatti, se superfici e linee fossero sostanze dovrebbero essere o sostanze nel senso di forma, qualcosa di definito, così come l’anima è forma dei corpi, oppure sostanza nel senso di materia dei corpi. Aristotele sta criticando questi tizi perché non muovono dalle premesse che lui ha stabilite. Ora, non è possibili che le superfici e le linee siano forma così come l’anima è forma del corpo perché non si vede che le linee e le superfici siano in alcun modo principio di vita. E neppure è possibile che esse siano sostanza materiale perché noi non vediamo alcuna cosa che abbia come materia solamente le linee e le superfici. Conclusione: le linee e le superfici non sono sostanze. Un altro passo. Se gli oggetti matematici non esistono nella maniera in cui vorrebbero i Platonici, in che maniera esisteranno? Ecco la soluzione che Aristotele dà al problema. Gli enti matematici, dice, non sono nient’altro che entità astratte dal sensibile… Potremmo dirla con Severino: astratte dal concreto. Noi posiamo infatti considerare le cose sensibili rilevandone alcuni caratteri e aspetti distintamente da altri. Per esempio, possiamo considerare le cose sensibili solo in quanto mobili prescindendo dagli altri caratteri, e così fa appunto il fisico. Ma possiamo considerare le cose sensibili anche prescindendo dal movimento, dal loro stesso carattere di essere sensibili e riguardarle solo come corpi a due, a tre, a una dimensione o addirittura come unità indivisibili, e così fa appunto il matematico. Pertanto, gli oggetti matematici non hanno una esistenza in sé e separata dai sensibili. Questo era il punto che a lui interessava. Ciò che sostenevano i Pitagorici, e anche Platone per altro verso, e cioè che esistano sostanze separate e che non sono quelle che dice Aristotele, cioè, non sono motori immobili, sono soltanto sostanze separate, un qualche cosa di non ben definito ma che è per sé, mentre per Aristotele per sé è solo il motore immobile, tutto il resto è in relazione, tutto il resto è sempre per qualche cosa, in vista di un fine; l’unico che non ha un fine è Dio. Potremmo anche dire che Dio un fine ce l’ha, nel senso che il suo fine è pensare se stesso, pensare la sua Intelligenza, pensare il suo pensiero, è pur sempre un fine. Questo sempre per via del fatto che ciò che è in potenza deve necessariamente passare nell’atto, perché altrimenti la potenza non c’è senza l’atto. Questo è il suo fine, la sua perfezione. Non per questo però questi oggetti matematici sono qualcosa di irreale, un non essere; infatti, essi esistono nelle cose sensibili in potenza, e la riflessione matematica li separa nell’atto in cui considera le cose solamente come grandezze o numeri, cioè, come mere quantità. Dunque, gli oggetti matematici hanno una esistenza separata, non già in sé e per sé, ma solo in forza dell’astrazione. Cioè: gli oggetti matematici sono sempre per altro e non sono sostanze in sé e per sé separate. Quindi, lui può continuare a pensare che tutto ciò che c’è ha una sostanza e, quindi, è fatto di potenza e atto. Possiamo considerare questi tre momenti come fondamentali oltre che fondanti nella Metafisica, e cioè: il Libro Γ, il principio di non contraddizione, il Libro Θ, l’entelechia, il Libro Λ, Dio, la teologia. C’è un movimento tra questi tre passaggi che è ciò che regge tutta la Metafisica e che continua a reggere tutto il pensiero in generale. Il principio di non contraddizione dice che qualche cosa c’è ed è quello che è. Posto così come l’ha posto Aristotele, certo, è discutibile, perché più che principio primo sembra essere principio morale: non devi contraddirti! Non posso contraddirmi solo se pongo il principio di non contraddizione come principio primo, cioè, come principio linguistico, connesso al modo in cui il linguaggio agisce, e cioè che non posso dire senza dire qualcosa: questo è il principio di non contraddizione. Ma questo ci dice che dunque è possibile stabilire qualche cosa con certezza. Ora, stabilire qualche cosa con certezza è un problema che viene da lontano, viene dagli eleati, dai sofisti, da Democrito, e cioè bisogna togliere il non essere. Operazione che fa anche Severino: come lo toglie, in modo che sia solo essere, solo sostanza e ben definita? Divide potenza e atto, materia e forma. La materia è ciò che serve anche a questo, la materia è in potenza, quindi, può essere come anche non essere. Lì, nella potenza, Severino mette il non essere, mai in atto, mentre i sofisti e gli eleati rischiavano di farlo diventare in atto. A questo punto, l’essere esclude il non essere perché è in potenza, ma ciò che è in potenza tende al fine, alla perfezione, e la perfezione non è il non essere, è l’essere, è ciò che è; quindi, tende all’essere, ad eliminare il non essere; quindi, la potenza, una volta che diventa atto, diventa essere. E, infatti, per Aristotele la sostanza è essere. A questo punto, il passo successivo è porre questa sostanza come motore immobile, cioè, come primo motore, come Dio. Abbiamo appena viste le argomentazioni: ogni cosa si muove perché mossa da qualche cosa, quindi, ha sempre bisogno di qualche cosa che la muove, ma la perfezione – è questo il suo obiettivo – qualche cosa che non ha bisogno di nient’altro se non di se stesso: l’atto puro, lo Spirito Assoluto. Che cosa muove e non ha bisogno di altro se non di se stesso? Ovviamente, il linguaggio, ma per Aristotele che non era pratico di linguaggio, quantomeno non abbastanza, questa perfezione non era nient’altro che il pensiero che pensa se stesso. C’è questo essere, questa sostanza, che non fa altro che pensare se stessa, perché è questo il suo fine, è la sua perfezione; quindi, non il pensare altre cose che sono sempre comunque meno del pensiero che le pensa, perché le altre cose sono, come dice lui, prodotte dal pensiero ed essendo prodotte dal pensiero è chiaro che valgono meno del pensiero che le ha prodotte, il prodotto vale meno di ciò che produce. Ecco, quindi, la necessità dell’idea del principio primo, del motore immobile, che non è mosso da altro. È il modo in cui Aristotele pensa il linguaggio: un motore immobile che pensa se stesso o che, sarebbe più appropriato dire, dice di se stesso continuamente: il linguaggio, parlando, dicendo cose, dice continuamente di se stesso. Come dicevamo prima, quando si cerca l’essere si cerca, come fa la logica, il come stanno le cose, ma lì cosa si trova? Sempre e soltanto altre parole. Naturalmente, ci si illude. La logica serve a questo, a illudere di avere trovato le cose come stanno. La logica non dice niente, la logica è una sorta di giocattolo che ha questa funzione di illudere, attraverso una serie di parole, di giungere a qualcosa che non è più parola ma una cosa, intesa quindi come fuori dal linguaggio. Questa è l’operazione che compie Aristotele nella Metafisica, in questi i passaggi che mi sono parsi i più significativi di tutto il suo percorso. È un po’ come cercare o trovare la causa finale della Metafisica, cioè la sua forma. Come dice Aristotele, la causa finale è quella che, ad esempio, lo scultore ha pensato e che poi ha trasformato in forma; a un certo punto la forma e la causa finale coincidono. Aristotele vuole che questa forma sia quella perfetta e trova quella che duemila anni dopo dirà Gentile, e cioè il pensiero come atto puro, il pensiero che pensa se stesso, che non pensa più a nient’altro che a se stesso, perché il proprio pensiero è l’unica cosa degna di essere pensata. Aristotele lo dice in altre parole ma, in fondo, dice questo: il pensiero che pensa è l’unica cosa degna di essere pensata, che è quello che fa Dio, che è quello che facciamo noi. Che cosa ci dice questo oltre ciò che abbiamo detto? Che è una operazione straordinaria, messa in atto dalla volontà di potenza. In effetti, il pensiero che pensa se stesso, Dio, che cos’è se non, verrebbe quasi da pensare e da dire, la causa finale della volontà di potenza, cioè, pensare se stessa. Sappiamo che la volontà di potenza non è qualcosa che si può evitare, non posso evitare dicendo di affermare qualcosa, non lo posso fare perché se dico, dico qualcosa. A questo punto la volontà di potenza – e qui andiamo ben al di là di Nietzsche – ha come fine, come τέλος, nel duplice senso di fine e di perfezione, il pensare se stessa. Cos’è la volontà di potenza che pensa se stessa? Una volontà di potenza che non può più non sapere che cos’è, perché continua a pensarsi. Pensare il pensiero è pensare la volontà di potenza, perché il pensiero ha la volontà di potenza come motore, che sia mobile o immobile è irrilevante. Ciò che la muove è affermare qualcosa, compiere quell’atto di volontà che è la volontà di potenza. Volevo leggervi qualcosa che non c’entra un granché con quello che stiamo dicendo, però è divertente perché dice come funzionano i commentari e le traduzioni di questi testi antichi. Qui c’è una considerazione di Reale. Ci cono persone che hanno passato buona parte della loro vita sui testi di Aristotele e di Platone e, quindi, li hanno compulsati a lungo, hanno fatto un sacco di cose. Qui parla del υσμός (rhysmos) di Democrito inteso come forma. Il termine di Democrito, che Aristotele rende con figura o forma, schema, è υσμός. Sarà bene approfondire il senso di questo termine, che qualcuno rinuncia addirittura a tradurre. È strano che per indicare la forma, invece di σχμα o di μορφή, Democrito usasse un termine connesso con il movimento; υσμός, come il corrispondente a υϑμός, deriva εοChe si suppone che sia anche l’etimo di retorica, εο, scorrere. …e designa originariamente lo scorrere regolare delle onde di un corso d’acqua. Tuttavia, si può osservare, contro gli inganni in cui suole indurre la troppo stretta interpretazione etimologica di un vocabolo, che il vocabolo designava qualsiasi movimento regolare, così quello della danza, dei soldati in marcia, quindi, anche la misura o cadenza, per esempio, della danza, del passo di un cavallo, di una marcia; e, poi, significava forma o configurazione di oggetti mobili oppure statici, una schiera, un calzare, le lettere dell’alfabeto; e anche passò a significare proporzione, giusta misura e persino stato d’animo. E dopo aver ricordato di Archiloco, in cui υσμός significa gli alti e bassi della vita, come legge che dà una certa forma alla vita, nonché Erodoto, che applica il termine alla conformazione delle lettere dell’alfabeto, Alfieri conclude così come Democrito aveva chiamato con espressione metaforica l’elemento στοιχεον, le lettere dell’alfabeto, per analogia o per suggestione di questo termine Democrito scelse anche per la forma un vocabolo di evidenza intuitiva. Esistevano già i termini astratti μορφή e εδος per forma, e quest’ultimo si trova persino in Omero, ma Democrito, o forse addirittura Leucippo, preferì quel vocabolo meno comune. Di più, si badi, questa forma democritea va intesa come forma geometrica quantitativa e non qualitativa, forma la quale, per natura stessa dell’atomo, cioè, per la sua impercettibilità, è a suo modo qualcosa di intelligibile. E appunto perché forma in senso quantitativo, υσμός va tradotto con misura o qualche altro vocabolo che renda appunto l’idea della forma come forma geometrica e, quindi, essenzialmente come dimensione. Va pure ricordato che Jaeger intendeva υσμός come indugio, punto fisso di fermata a determinare in un ruolo il flusso del tempo. Noi abbiamo scelto proporzioni, intendendo il termine nel senso che sopra ho citato. Infine, si può pensare che gli atomisti abbiano scelto il termine υσμός in quanto in esso dovevano sentire la risonanza dell’originaria idea di movimento, ma con il senso di adattabilità, capacità di aggregazione, ossia quella ben determinata attitudine d’associarsi con altri atomi che in funzione della forma. Questo è ciò che accade rispetto a un testo, a una singola parola. Qui è appena accennata la questione, moltiplicatela per mille. Ogni parola è un problema, ogni parola è una questione. Potremmo dire con Heidegger che ogni parola è un problema, è qualcosa che dà da pensare. Ora, tutto ciò è evidente rispetto a testi di duemila anni, piuttosto datati, meno evidente invece risulta rispetto al dire comune, ma è esattamente la stessa cosa: ogni parola è un problema. Cessa di essere un problema nel momento in cui si è accostata la parola con la verità intesa in senso latino di veritas, cioè come identità, come un qualche cosa che è quello che è. Avete visto come una singola parola, in questo caso υσμός, può intendersi in infiniti modi. Qual è quello giusto? Comunque sia apre delle vie, delle strade. È così per ogni parola che si dice? C’è questa possibilità.