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6 settembre 2023

 

Aristotele Le Categorie

 

Siamo con l’Organon di Aristotele, le Categorie, e stiamo parlando della sostanza. La sostanza, l’ούσία, è un concetto interessante perché ciò che appare è che questa sostanza non sia altro che l’uno. È una cosa che non si nota tanto, però, da come la pone Aristotele parrebbe che la sostanza sia qualcosa di prossimo all’uno e i praedicamenta ai molti. Da sempre il problema è questo: l’uno e i molti. Quindi, viene da pensare che in tutti questi anni non è che sia cambiato molto, anche perché questo problema dell’uno e dei molti, di fatto, non è stato mai, non dico risolto, ma neanche inteso. Eppure, è il problema. Aristotele, quando parla della sostanza e delle categorie, sta parlando dell’uno e dei molti: in che modo l’uno si connette con i molti e in che modo i molti hanno a che fare con l’uno? Aristotele trova, in effetti, la soluzione: la sostanza non è nient’altro che ciò che se ne dice, cioè, la sostanza, l’uno, è i molti: ἒν πάντα εἰναι, πάντα, tutte le cose, e non πάντον, il tutto, come traduce Diels. Questa traduzione, che è una traduzione ideologica, ripropone l’uno come uno perché, dicendo che l’uno è il tutto, il tutto è l’uno e, quindi, c’è solo l’uno. In questo modo Diels cancella i molti, senza saperlo, senza volerlo probabilmente, però, di fatto, compie questa operazione. A pag. 79. La caratteristica più peculiare della sostanza sembra essere la capacità di ricevere i contrari, pur restando identica e una di numero. Una di numero: la sostanza è l’uno, un uno che non esiste senza i molti. Vedete qui, la sostanza riceve i contrari, ma li riceve come? Attraverso le determinazioni – io determino in un modo o in un altro – ma la sostanza è uno. Una cosa sulla quale insiste molto è quella dei contrari, perché dice che se qualche cosa può avere un contrario allora non è la sostanza, perché la sostanza è una e non ha contrari. Qui, però, si accorge a un certo punto che c’è un problema. Per esempio, non tutte le cose hanno un contrario; qual è, ad esempio, il contrario di 5? Non c’è. E cosa significa questo? Significa che ci sono cose che, pur non avendo il loro contrario, tuttavia, sono sostanze? Sono, quindi, riconducibili all’uno? Questo è un problema anche per Aristotele. A pag. 81. La sostanza, invece, poiché è essa stessa a ricevere i contrari, si dice capace di ricevere i contrari. Li può ricevere ma non ha propriamente il contrario. La questione interessante è che la sostanza non ha contrari finché non se ne parla, finché non se ne dice. Abbiamo detto che il 5 non ha contrari, ma non è proprio così: il contrario di 5 è tutto ciò che il 5 non è. Aristotele avverte la cosa ma non l’articola propriamente, a un certo punto taglia corto. Si rende conto che, in effetti, quando parla di sostanze non può che parlare di categorie, cioè di ciò che si dice, di ciò che si predica della sostanza, come se la sostanza non avesse una sua esistenza di per sé. Da qui la distanza infinita con Platone, per il quale esiste di per sé; infatti, tutti gli aggeggi con cui noi abbiamo a che fare non sono altro che reminiscenze di queste idee, che stanno da qualche parte. Della sostanza, di fatto, Aristotele non dice altro, la riprende poi quando parla di alcune categorie, però, non va oltre. Il che è curioso, perché la sostanza è la prima categoria, quella da cui discendono tutte le altre, quindi, la più importante di tutte, come diceva all’inizio, perché è quella che consente l’esistenza delle altre. Così come l’uno, che è il più importante di tutti e ciò da cui si avvia ogni cosa. Ma l’uno, senza i molti, cioè senza il suo contrario, che cos’è? Non è, propriamente. Questa era la cosa che sorprendeva Aristotele – ce lo ha fatto notare Heidegger – quando dice: mi trovo di fronte a questa cosa che va contro ogni buon senso. Ora, della sostanza per il momento non aggiunge altro e passa subito alla quantità, che è la prima delle categorie dopo la sostanza. A pag. 83. La quantità. Le realtà di una certa quantità sono alcune discrete, altre continue; alcune sono costituite da parti che hanno una posizione l’una rispetto all’altra, altre da parti che non hanno una posizione l’una rispetto all’altra. Sono discreti, ad esempio, il numero e l’enunciato; continui, invece, la linea, la superficie, il corpo, e, oltre a questi, anche il tempo e lo spazio. Si accorge che la quantità ha questi due aspetti: il continuo e il discreto. Il discreto è quello per cui ciascun elemento non ha contatto con il successivo: tra il 2 e il 3 non c’è contatto, mentre in una linea o una superficie sembra che ci sia contatto. La questione è un po’ più complicata. Se, ad esempio, cinque è una parte di dieci, cinque e cinque non si uniscono in nessun limite comune, ma restano separati… /…/ In generale, per quanto riguarda il numero, non si potrebbe concepire un limite comune delle parti, ma queste sono sempre separate. Il numero, quindi, fa parte delle realtà discrete. Il fatto che siano entità separate per molte scienze è un problema, perché se sono separate si tratta poi di intendere che tipo di connessione ci sia; se, per esempio, il passaggio da un elemento a un altro sia legittimo, se c’è qualcosa che eventualmente lo garantisce o se è totalmente arbitrario; e questo era il problema di Zenone. A pag. 85. La linea, invece, è continua, dal momento che è possibile trovare un limite comune in cui le sue parti si uniscono: il punto;… Questa cosa che dice Aristotele va pensata bene, perché dice che nella linea è il punto che connette due elementi. Ma tra il punto e l’altro elemento cos’è che connette? È un problema che lui non ha risolto. Inoltre, alcune realtà di una certa quantità sono costituite da parti che hanno una posizione l’una rispetto all’altra, altre da parti che non hanno una posizione l’una rispetto all’altra. Le parti della linea, ad esempio, hanno una posizione l’una rispetto all’altra: ognuna di esse, infatti, giace in qualche luogo, e si potrebbe distinguere e indicare dove ciascuna giace nel piano e in quale delle altre parti si unisce. Allo stesso modo, anche le parti del piano hanno una certa posizione… /…/ Lo stesso per il numero, dato che l’uno si conta pria del due… /…/ Lo stesso vale anche per l’enunciato: nessuna delle sue parti permane, ma, una volta pronunciata, non è più possibile riprenderla; di conseguenza, non vi potrebbe essere una posizione delle sue parti, se nessuna permane. Alcune realtà di una certa quantità, dunque, sono costituite da parti che hanno una posizione, altre da parti che non hanno posizione. Come gli elementi di un enunciato. È interessante qui quello che dice, e lo ripeto perché questa cosa è da pensare: Lo stesso vale anche per l’enunciato: nessuna delle sue parti permane, ma, una volta pronunciata, non è più possibile riprenderla. Scompare, dilegua. Verrebbe da pensare che abbia ripreso un certo numero di cose da Eraclito, cosa che Aristotele non ammetterebbe mai, perché riprende il celebre enunciato di Eraclito: φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ, ciò che sorge sorgendo dilegua, ciò che dico dicendosi dilegua, che è esattamente ciò che sta dicendo qui Aristotele. Qui Aristotele non lo fa, lo facciamo noi, parla del numero discreto, ma tutte queste cose sono categorie, sono praedicamenta, sono cose che si dicono, che appartengono al λόγος; non sta parlando di enti che stanno da qualche parte, sta parlando del λόγος, delle categorie, di ciò che si dice. Abbiamo visto anche Trendelenburg: κατηγορεῖν inizialmente era un modo per chiamare in causa qualcuno per costringerlo a rispondere di qualcosa. E, allora, siccome si tratta di λόγος, verrebbe da pensare che anche ciò che dice del numero potrebbe legittimamente pensarsi come un qualche cosa come nell’enunciato. Quando io dico un numero o una sequenza di numeri, questi numeri, separati tra loro, permangono oppure, come nell’enunciato, dileguano? Questa è una questione che sto ponendo. Ciò che potrebbe apparire è che se ciascun numero, di fatto, deve la sua esistenza al λόγος, al dire, allora anche il numero dicendosi dilegua, ma dilegua in che cosa? Il numero di per sé non significa niente, il 5 preso di per sé non significa niente. Il numero dicendosi dilegua nel suo contrario, in tutto ciò che 5 non è, cioè in tutti gli altri numeri. Certo, rispetto al numero è meno evidente, però, di fatto, il numero non esiste senza tutti gli altri numeri. Anche in questo caso, vedete come ciascun elemento esiste sempre in relazione con il suo negativo. Pensate a Hegel, allo stesso de Saussure, che definiva il significante come la relazione differenziale con tutti gli altri significanti, senza i quali quello che sto prendendo in considerazione non esiste. E questo dove ci riporta sempre? All’uno e i molti. L’uno in questo caso non è inteso come numero ma come ente ontologicamente preso. Se io penso al 5, questo sarebbe l’uno, nel senso che è quello che è o, potremmo dire nell’accezione pitagorica, l’uno come la forma, per cui la forma del 5 è quella che è – possiamo scriverlo in qualunque modo, numeri romani, arabi, ecc., ma sempre 5 è. Questo 5 naturalmente è in quanto in relazione con tutti gli altri numeri, che sono i molti. L’uno e i molti: perché non si è mai usciti da lì?

Intervento: Perché non si può…

Sì. In termini ancora più semplici, la parola che io dico, una qualunque, è quella: se io dico libro, sto dicendo libro e non altro. Sarebbe il τόδε τί, il “questo qualcosa qui” e non un altro. Sì, certo, ma perché sia questo qui occorre che non sia tutte le altre cose, perché se non fosse possibile differenziare alcunché, senza differenza non c’è più nulla. È il differire l’una cosa dall’altra che mi consente di determinarla, cioè, appunto, non è quest’altra cosa. Dunque, la parola che dico è una ma è molte parole, perché senza tutte le altre parole non c’è nemmeno quella, sarebbe la parola fuori del linguaggio, che non esiste. L’uno e i molti è il problema – nell’accezione heideggeriana di problema – è il problema del linguaggio, né più né meno, problema visto subito da Parmenide: ecco perché la filosofia nasce grande. Dunque, la quantità che Aristotele pone come la prima dei vari praedicamenta, è la possibilità della misurabilità delle cose, perché stabilisce l’ordine, e stabilisce un ordine attraverso un prima e un poi. Ma questo ordine, che consente la misurazione, di fatto, anche non la consente. Siamo di nuovo di fronte al problema di prima, cioè, un qualche cosa c’è in virtù di ciò che non è. Questa numerazione, sia che avvenga attraverso i numeri o attraverso enunciati… Lo dice lui stesso, l’enunciato dicendosi dilegua, quindi, se non si ferma non possiamo utilizzarlo. Lo stesso lo abbiamo visto per il numero: il numero è quello che è in virtù di ciò che non è. Quindi, come calcolare? Questa calcolabilità delle cose, quindi dominabilità – calcolare è dominare – in teoria non potrebbe farsi. Come la facciamo, invece? Perché la facciamo ininterrottamente, anche quando facciamo la lista della spesa, ogni cosa è un calcolo: la lista della spesa, una dichiarazione d’amore, le equazioni per progettare una bomba atomica, ecc., sono calcoli. Questa calcolabilità comporta un problema. Aristotele lo intravede qui, quando dice che quando si pensa alla quantità vengono alla mente il molto, il poco, il grande, il piccolo, ecc. A pag. 89. Nulla, infatti, si dice “grande” o “piccolo” in sé e per sé, ma in relazione ad altro: una montagna, ad esempio, si dice “piccola” e un chicco di miglio “grande” per il fatto che quest’ultimo è più grande rispetto alle cose dello genere e la prima è più piccola rispetto alle cose dello stesso genere. Si tratta, dunque, di una relazione ad altro, perché se “piccolo” e “grande” si dicessero per se stessi, una montagna non si direbbe mai “piccola” o un chicco di miglio “grande”. Diciamo, poi, che c’è “molta” gente nel villaggio e “poca” ad Atene, pur essendo quest’ultima molto più numerosa rispetto alla prima; e che ci sono “molte” persone in casa e “poche” a teatro, pur essendo quest’ultime molte di più. Al di là della sottolineatura, che continua a fare incessantemente, è sempre un “si dice”, nel senso che stiamo parlando di proposizioni, non stiamo parlando di realtà, come qui spesso viene tradotto, stiamo parlando di cose che si dicono. Inoltre, “di due cubiti” e “di tre cubiti” e ogni altra espressione di questo tipo indicano una certa quantità, mentre “grande” e “piccolo” non indicano una certa quantità, ma, piuttosto, una relazione:… Qui incomincia ad accorgersi della relazione, di cui parlerà dopo, cioè che le cose che si dicono sono sempre e necessariamente in relazione con altre. Io posso idealmente toglierle dalla relazione, ma in questo modo non significano più niente. Infatti, dice: “piccolo” rispetto a che, in relazione a cosa? …è evidente che questi fanno parte dei relativi. Continua poi con tutti i suoi esempi. Qui dice una cosa interessante. A pag. 91. Nulla, però, sembra ammettere simultaneamente i contrari. È il fondamento del principio di non contraddizione. Per quanto riguarda la sostanza, ad esempio, sembra bene che essa sia capace di ricevere i contrari, ma non è certo nello stesso tempo che si è malati e in buona salute, né è nello stesso tempo che si è bianchi e neri, e nessuna delle altre realtà riceve nello stesso tempo i contrari. D’altra parte, accadrebbe che le medesime realtà siano contrarie a se stesse. La questione è questa: se prendo un elemento, e lo considero irrelato, allora non ha nessun contrario. Perché non ha nessun contrario? Perché non esiste. Ora fa una considerazione e dice: …e neppure nel caso del numero: “tre”, ad esempio, non si dice affatto più “tre” di “cinque”, né più “tre” di altri “tre”. Non c’è un tre che è più di un altro tre. E neppure il tempo si dice più tempo rispetto a un altro. In generale, di nessuna delle cose di cui abbiamo parlato si dice il più e il meno. Le realtà di una certa quantità, dunque, non ammettono il più e il meno. Prosegue dicendo: Proprio delle realtà di una certa quantità è soprattutto il dirsi “uguale” e “disuguale”. Ciascuna delle realtà di una certa quantità di cui abbiamo parlato, infatti, si dice “uguale” e “disuguale”: il corpo, ad esempio, si dice “uguale” e “disuguale”; il numero si dice “uguale” e “disuguale”; il tempo “uguale” e “disuguale”; e, allo stesso modo, ciascuna delle altre realtà di una certa quantità di cui abbiamo parlato si dice “uguale” e “disuguale”. È chiaro, invece, che tutte le altre realtà che non fanno parte dei quantificati non si dicono affatto “uguali” e “disuguali”… I quantificati. Quand’è che si può parlare di quantificati, cioè, di quantificazione? Quando una certa quantità è determinata, quando è un quanto; se è determinata è determinata da delle determinazioni, cioè da qualcosa che si dice di questa cosa. Quindi, di nuovo, se qualche cosa è determinato, cioè quantificato, è necessariamente in relazione; il porlo come irrelato è un’operazione strampalata, perché, ponendolo come irrelato, tolgo tutte le determinazioni. Passiamo ora ai relativi, la relazione, in greco πρός τί (verso qualcosa). A pag. 93. Si dicono “relative” le realtà – nel testo greco “le realtà” è assente – la cui essenza si dice essere di altro o comunque in relazione ad altro: così, “maggiore”, ad esempio, si dice, ciò che è in sé, rispetto ad altro – si dice, infatti, “maggiore” di qualcosa –, e “doppio” si dice, ciò che è in sé, rispetto ad altro – si dice, infatti, “doppio” di qualcosa -, e lo stesso vale per tutte le altre cose di questa natura. Rientrano tra i relativi realtà come lo stato abituale, la disposizione, la sensazione, la scienza, la posizione. Queste sono le cose che per Aristotele rientrano nei relativi, cioè, che sono quelle sono in virtù di altro. Di tutte le realtà nominate, infatti, è ciò che sono, e nient’altro, che si dice di altro: lo stato abituale, infatti, si dice stato abituale di qualcosa, la scienza si dice scienza di qualcosa, la posizione posizione di qualcosa. Sono relative, dunque, quelle realtà tali che ciò che sono si dice essere di altro o, qualunque altro ne sia il modo, in relazione ad altro. Così, ad esempio, una montagna si dice “grande” in relazione ad altro… Ma c’è una cosa più importante. A pag. 101. Sembra che i relativi siano simultanei per natura… Cioè, non c’è l’uno senza l’altro, si coappartengono, direbbe Heidegger. …e ciò risulta vero nella maggior parte dei casi: sono simultanei, infatti, “doppio” e “metà”, e se c’è la metà c’è il doppio, se c’è lo schiavo c’è il padrone, e ugualmente negli altri casi. Tali relativi, poi, si eliminano vicendevolmente: se, infatti, non c’è il doppio non c’è la metà, e se non c’è la metà non c’è il doppio, e lo stesso vale per gli altri casi simili. Qui, però, lui si fa un’obiezione. Non per tutti i relativi, però, sembra vero che siano simultanei per natura:… Notate questo “sembra vero”. Per Aristotele non c’è mai la certezza, quella sicurezza che poi, invece, gli si è voluta attribuire nella sua lettura medioevale: sembra, è possibile, dobbiamo però pensarci meglio …lo scibile, infatti, sembrerebbe anteriore alla scienza, poiché, perlopiù, acquisiamo conoscenze di oggetti preesistenti, mentre in pochi casi o in nessuno si potrebbe osservare che la scienza nasce insieme allo scibile. Inoltre, se si elimina lo scibile, si elimina insieme anche la scienza, mentre la scienza non elimina insieme lo scibile: se non c’è lo scibile, infatti, non c’è neppure la scienza, poiché non ci sarà più scienza di nulla; se, invece, non c’è la scienza, nulla impedisce che ci sia lo scibile. Lui aveva detto bene prima: sembra. Ma se noi ci pensiamo bene – qui scienza possiamo intenderla come il sapere – se c’è sapere, evidentemente ci deve essere qualcosa da sapere. Ma, dice nell’obiezione che lui stesso si fa, il qualcosa da sapere può esserci anche se io non lo so. Ma, allora, se non lo so, come faccio a sapere che c’è questo scibile? O lo pongo come ipostasi, come fa Plotino, sennò è un’ipotesi che non regge; come dire che le cose esistono indipendentemente dal linguaggio che le dice. È la stessa questione che lui poneva rispetto alla sostanza. Lui stesso dice che questa sostanza, di fatto, sfugge di mano, non c’è se non ne parliamo: la sostanza non è altro che ciò che se ne dice. E, quindi, a questa obiezione si potrebbe contro obiettare ciò che lui stesso afferma, e cioè che se non ci sono determinazioni di un qualcosa quel qualcosa non c’è. A pag. 103. Si pone, poi, la seguente difficoltà: se nessuna sostanza si dica far parte, come sembra, dei relativi, o se ciò sia possibile per alcune sostanze seconde. Infatti, per quanto riguarda le sostanze prime, è vero che non fanno parte dei relativi, poiché né gli interi né le parti si dicono in relazione a qualcosa. Un certo essere umano, infatti, non i dice “un certo essere umano” di qualcosa, né un certo bue “un certo bue” di qualcosa. /…/ La stessa situazione si verifica, nella maggior parte dei casi, anche per le sostanze seconde: l’essere umano, ad esempio, non si dice “essere umano” di qualcosa,… Qui compie un’operazione che è lecita fino a un certo punto. Dice non si dice “essere umano” di qualcosa. Perché no? Lui voleva a tutti i costi trovare – teniamo conto che le Categorie è il primo momento dell’Organon, poi ci sono gli Analitici primi e secondi, quindi, la logica, l’impianto della logica così come la conosciamo oggi – a lui premeva che qualche cosa risultasse certa, stabile. Lui dice: se nessuna sostanza si dica far parte, come sembra, dei relativi, o se ciò sia possibile per alcune sostanze seconde. Nessuna sostanza fa parte dei relativi e per dimostrare questo lui dice che “essere umano” sarebbe la sostanza e che non si dice di qualche cosa. Beh, di un essere umano, sì, però lui continua a dire della sostanza – qui riprende la questione della sostanza, nonostante parli dei relativi – come un qualche cosa che non è in relazione a qualche cosa, che non si dice in nessun modo, che non si predica, ecc., vale a dire che non c’è se non ne parliamo, non c’è se non attraverso i predicati, le categorie. A pag. 107. …è chiaramente necessario che, qualora si conosca in modo determinato un relativo, si conosca in modo determinato anche ciò in relazione al quale esso si dice. D’altro canto, per quanto concerne la testa, la mano, e ciascuna realtà di questo genere, che sono sostanze, si può conoscere in modo determinato ciò che sono senza dover conoscere ciò in relazione a cui esse si dicono. Non è, infatti, necessario sapere in modo determinato di chi sia la testa o di chi sia la mano, cosicché queste realtà non sarebbero dei relativi; e se non sono dei relativi, risulterebbe vero affermare che nessuna sostanza fa parte dei relativi. Aristotele si è trovato di fronte a questo problema: la sostanza non è in relazione a nulla, riceve delle cose ma la sostanza, pur essendo la prima, la più importante, di fatto, è come se fosse vuota, come se fosse nulla senza i predicati, le categorie, che ne parlano. E, allora, conclude qui, tagliando corto, e dice: Certo, è difficile fare affermazioni forti intorno a tali argomenti, senza prima averli ripetutamente indagati; non è inutile, però, aver esposto delle difficoltà intorno a ciascuno di essi. Ecco, questo è Aristotele, che dice che è difficile fare affermazioni su queste questioni, si accorge che la sostanza non possiamo determinarla, ma se non la determiniamo non c’è; quindi, c’è soltanto in base alle sue relazioni.

Intervento: È un po’ come se criticasse Platone.

È una continua critica a Platone, certo. Come accade sempre, Aristotele era discepolo di Platone, poi, a un certo punto, si è distaccato perché ciò che sosteneva Platone per lui non era sostenibile. Quindi, come spesso accade, chi abbandona il proprio maestro, dopo lo deve criticare, se non altro per dire quanto ha fatto bene a prenderne le distanze. Ciò che ci sta dicendo qui fino ad adesso è: 1. La sostanza è qualche cosa di cui possiamo saperne soltanto se ne diciamo qualcosa, cioè attraverso le categorie, i suoi predicati. Questo perché la sostanza non ha contrari, e solo se ha contrari qualcosa può essere determinato, in quanto taglio, de-termino, de-finisco, de-limito, de-cido; solo allora posso determinare, soltanto attraverso l’eliminazione del contrario. Che è poi l’operazione che fa Severino: essere e non essere. L’essere è debitore del non essere per la sua esistenza. Ma il non essere lo togliamo di mezzo perché non può permanere insieme all’essere, l’essere deve essere lì da solo, unico al mondo, irrelato ed eterno. 2. La quantità, che dovrebbe essere quella cosa che consente di dominare tutto, perché consente di calcolare tutto, di fatto, appare tra le righe che invece non è proprio così, non si riesce a calcolare. Lo dice espressamente rispetto all’enunciato: mentre dico una parola dicendola scompare. Ma lo dice anche del numero: il numero non c’è senza tutti gli altri numeri, ed è isolato, non è contiguo con gli altri numeri. La contiguità non c’è neanche con la linea e il punto: supponiamo che il punto sia ciò che rende due elementi contigui, ma tra il punto e quell’altro elemento cosa c’è? È l’argomento del terzo uomo di Aristotele. Quindi, nonostante il suo tentativo di stabilire, attraverso la quantità, la possibilità della calcolabilità, si accorge a un certo punto che tutte le cose che sta dicendo vanno in un’altra direzione, e cioè calcolando, ciò che sto calcolando scompare, dilegua, φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ. 3. Infine, la relazione, certo, si accorge che ciascuna cosa è sempre in relazione a un’altra, ma immagina a un certo punto che non ci sia una relazione, ma se non c’è la relazione diventa un grosso problema perché immaginare un elemento fuori dalla relazione è come pensare la sostanza. Si trova, quindi, di fronte allo stesso problema: senza la determinazione, quindi, la relazione, è nulla, perché è in quanto è in relazione ad altro. E questo lo porta alla categoria successiva, la qualità, in greco ποιόν. A pag. 107. Chiamo “qualità” ciò in base a cui alcune realtà si dicono di una certa qualità. La qualità, però, è una di quelle cose che si dicono in molti modi. Questo fatto di cose che si dicono in molti modi è stato sempre presente in Aristotele ed è sempre stato il suo tallone d’Achille: l’essere si dice in tanto modi, e se una cosa si dice in tanti modi, se proprio dobbiamo ridurla all’osso, diciamo che l’uno non c’è senza i molti. L’uno è detto dai molti, ma se io dico i molti, in realtà, i molti sono l’uno. E, allora, adesso deve trovare i modi in cui si dice la qualità. Ne trova due. A pag. 109. Una sola specie di qualità siano detti lo stato abituale e la disposizione. Lo stato abituale differisca dalla disposizione perché è più stabile e più duraturo. Lo stato abituale, l’habitus, l’abitudine, per cui qualcosa è consolidato; mentre la disposizione d’animo, il πάθος, può cambiare da un momento all’altro. Poi, fa esempi su esempi. Di fatto, l’unica cosa che interessa in tutto ciò è la distinzione che si trova a fare, a seguito della prima distinzione tra stato abituale e disposizione. A pag. 115. Le determinazioni di questo tipo, perciò, sono dette affezioni, e non qualità. Un habitus è una qualità, mentre la disposizione è più un’affezione, perché cambia continuamente. Secondo Aristotele, la qualità è qualcosa che permane. A pag. 121. Le realtà di una certa qualità, poi, ammettono il più e il meno: una cosa bianca, infatti, si dice più o meno bianca di un’altra, e una cosa giusta si dice più o meno giusta di un’altra. Inoltre, la stessa realtà ammette accrescimento: ciò che è bianco, infatti, può diventare ancora più bianco. /…/ Un triangolo e un quadrato, invece, non sembrano ammettere il più, e nemmeno le altre figure, perché le realtà che accolgono la definizione di triangolo e cerchio sono tutte ugualmente triangoli o cerchi, mentre di quelle che non la accolgono non si potrà dire che una lo è più di un’altra: il quadrato, infatti, non è affatto più cerchio del rettangolo,… Qui si sofferma sulla questione, che poi riprenderà negli Analitici, dell’appartenenza, dell’inerire un qualcosa a qualcos’altro. La questione dell’appartenenza è un caso particolare di relazione, è sempre relazione. Tutta la logica è impiantata sulla relazione, sul πρός τί, l’essere in relazione a. Ma di questo avremo modo di parlare a lungo. A pag. 123. Non ci deve turbare il fatto che qualcuno dica che, essendoci proposti di trattare della qualità, abbiamo poi incluso molti relativi, dal momento che gli stati abituali e le disposizioni sono dei relativi. Passiamo alle categorie dell’agire e del patire. A pag. 123. Anche l’agire e il patire ammettono la contrarietà e il più e il meno: il riscaldare, infatti, è contrario al raffreddare… Esaurita questa parte, dopo una serie di esempi parla degli opposti. Gli opposti non sono altro che il negativo e il positivo. Ciascuna cosa è quella che è in virtù di ciò che non è, cioè del suo opposto, del suo negativo.