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6 settembre 2017

 

M. Heidegger, Essere e Tempo 

 

A pag 320. Ciò che andiamo cercando è un poter-essere autentico dell’Esserci che sia attestato dall’Esserci stesso nella sua possibilità esistentiva. Che sia attestato, cioè, che sia affermato dall’Esserci. Prima di tutto occorre che questa attestazione sia rintracciabile. Se essa deve “darsi a comprendere” all’Esserci nella sua esistenza autentica possibile, dovrà avere le proprie radici nell’essere dell’Esserci. È lì, dice, che dobbiamo cercare questa attestazione di autenticità, non è in qualche cosa che da fuori dice che l’Esserci è autentico, ma questa autenticità deve venire dall’Esserci stesso. L’esibizione fenomenologica di una attestazione di questo genere include perciò in sé la dimostrazione della sua origine nella costituzione d’essere dell’Esserci. Deve partire da lì: dalla costituzione dell’essere dell’Esserci. L’attestazione deve far comprendere un poter-esser-se-Stesso autentico. Con l’espressione “se-Stesso” abbiamo risposto alla domanda intorno al Chi dell’Esserci. L’ipseità dell’Esserci fu determinata formalmente come una maniera di esistere e non come un ente semplicemente-presente. Anche questo è importante perché l’ipseità dell’Esserci, cioè il fatto di essere se stesso, è un qualche cosa che deve trarsi propriamente dal modo di esistere dell’Esserci, e cioè di essere un progetto gettato, e non, dice, come ente semplicemente presente. Se lo considerassimo un ente semplicemente presente è come se lo ponessimo fuori del mondo. Il Chi dell’Esserci… domanda legittima. Quando si parla dell’Esserci, l’Esserci chi? Ci è questo chi? Quando si parla dell’Esserci ci si riferirà pure a qualcuno. È chiaro che il Chi è l’Esserci stesso. Il Chi dell’Esserci per lo più non lo sono io stesso, ma lo è il Si-stesso. L’esser se-Stesso autentico si determina come una modificazione esistentiva del Si, da definirsi esistenzialmente. Qui inserisce un elemento che dà da riflettere, e cioè dice che l’autenticità dell’Esserci non riguarda l’io ma, dice, riguarda il Si, cioè, riguarda la deiezione, riguarda il modo in cui l’Esserci di trova nel mondo. Come dire che, nella ricerca dell’autenticità, si parte in un certo senso dall’inautentico, cioè, dal Si. L’abbiamo già visto in precedenza, quando diceva che, sì, noi cerchiamo l’Esserci autentico, però da dove viene questo Esserci? Non nasce autentico, lo diventa, ma nasce nel Si, nella deiezione, nella chiacchiera, nel si dice, nel si pensa, ecc. Con la perdizione dell’Esserci nel Si… la perdizione perché è inautentico, si disperde tra mille sciocchezze. … tutto è già sempre deciso circa il poter-essere dell’Esserci più prossimo ed effettivo, cioè circa i compiti, le regole, le misure, l’urgenza e la portata dell’essere-nel-mondo pendente e avente cura. Se uno si appoggia al Si è già tutto deciso, già tutto saputo, perché è così che si dice, è così che si fa, è così che si pensa. Il Si ha già sempre esonerato l’Esserci dall’afferrare queste possibilità di essere. Tutte queste possibilità sono già date dal Si come anticipate, in qualche modo sono già lì: si deve fare così ma mi sfugge il perché debbo fare così; semplicemente mi adeguo e faccio anch’io così. Il Si nasconde perfino la tacita sottrazione che esso compie della scelta esplicita di queste possibilità. Resta indeterminato chi “propriamente” scelga. Infatti, si dice, si sceglie, ma chi propriamente? È indeterminato. Infatti, il Si è impersonale. Questo non scelto coinvolgimento nel Nessuno… (pagg. 320-321) Questo Nessuno è l’indeterminato del Si. …in virtù del quale l’Esserci è irretito nell’inautenticità, può essere eliminato soltanto se l’Esserci si riprende in proprio dalla dispersione nel Si. Quindi, si parte dal Si e poi, per uscirne fuori, occorre un lavoro, come succede sempre. Questo retrocedere per riprendersi deve avere tuttavia quel modo di essere la cui omissione ha fatto sì che l’Esserci si perdesse nell’inautenticità. Deve tornare indietro e riflettere su ciò che sta facendo. L’andarsi a riprendere… parla di riprendere perché il Si porta via, disperde. … L’andarsi a riprendere dal Si, cioè la modificazione esistentiva del Si-stesso in autentico esser se-Stesso, deve avere luogo come recupero della scelta. Ma recupero della scelta significa scegliere questa scelta stessa, decidersi per un poter-essere fondato nel proprio se-Stesso. Scegliendo la scelta, l’Esserci rende in primo luogo possibile a se stesso il proprio poter-essere autentico. Qui dice una cosa importante. Scegliere la scelta, cioè accogliere la scelta che si è fatta. Quindi, prendere atto che si è compiuto una certa scelta e, accogliendo questa scelta, interrogare questa scelta, problematizzarla, pensare questa scelta. La scelta sarebbe: pensare la scelta, anziché disperderla nel Si, dove tutto è già dato e stabilito, pensare, cosa che il Si non fa e non può fare. Quindi, Scegliendo la scelta, l’Esserci rende in primo luogo possibile a se stesso il proprio poter-essere autentico, cioè, soltanto se mi rendo conto che sono io a scegliere quello che faccio. Questo ricorda un po' la formulazione di Nietzsche: tutto ciò che fu sono io che l’ho voluto. Poiché però l’Esserci si è perso nel Si, prima di tutto deve ritrovarsi. Ma per potersi, in generale, ritrovare deve essere “mostrato” a se stesso nella sua autenticità possibile. Come fa qualcuno a ritrovarsi se non si riconosce? Deve riconoscersi. L’Esserci ha bisogno dell’attestazione di un poter-essere se-Stesso, tale che, rispetto alla possibilità, esso già sempre lo sia. Deve riconoscere qualcosa che gli appartiene, qualcosa di proprio. La scelta, per esempio, è una cosa propria: io ho scelto, non l’ho fatto perché si deve fare ma perché io ho voluto farlo. Questo è il passaggio di cui Heidegger sta parlando: non perché lo fanno tutti ma perché io l’ho voluto, io ho scelto. È questo il scegliere la scelta. Adesso parlerà della coscienza, perché è la coscienza ciò che rende conto dell’accorgermi di ciò che mi è autentico. Ciò che nell’interpretazione che segue è preso in esame come costitutivo di questa attestazione è noto all’autointerpretazione quotidiana dell’Esserci come voce della coscienza. Che il “fatto” della coscienza sia contestato, che la sua funzione di istanza per l’esistenza dell’Esserci sia diversamente valutata, che ciò che “la coscienza dice” sia interpretato in vari modi, avrebbe potuto indurci in un errore di sottovalutazione di questo fenomeno, se proprio la “problematicità” di questo “fatto” e della sua interpretazione non stesse a dimostrare che ci troviamo innanzi a un fenomeno originario dell’Esserci. Tutte le cose che si sono dette intorno alla coscienza ci inducono a pensare, dice, che lì ci sia qualcosa di importante. L’analisi che segue pone la coscienza nella pre-disponibilità tematica di una ricerca esistenziale pura con intenti ontologico-esistenziali. Innanzi tutto bisogna esaminare a fondo la coscienza, quanto ai suoi fondamenti e alle sue strutture esistenziali e renderla visibile come fenomeno dell’Esserci, tenendo ben fermi i caratteri costitutivi dell’essere di questo finora chiariti. L’analisi ontologica della coscienza così impostata precede ogni descrizione psicologica delle “esperienze vissute” della coscienza e la loro classificazione, ed è estranea a ogni “spiegazione” biologica, cioè a ogni dissolvimento del fenomeno. (pagg. 321-322) Ogni spiegazione biologica o psicologica non fa altro che dissolvere il problema, il fenomeno. Potremmo quasi dire che lo dissolve nel Si, perché non lo pensa. Questa era l’accusa che Heidegger faceva non soltanto alla scienza ma indirettamente anche alla biologia, alla psicologia, cioè, afferma cose ma senza pensare a ciò che sta dicendo propriamente. Poco dopo. La coscienza, in quanto fenomeno dell’Esserci… Lui intanto pone la coscienza come fenomeno dell’Esserci anche se ancora non ci ha detto il perché dovrebbe essere un fenomeno dell’Esserci, ma ci sono buone probabilità che ce lo dirà a breve. Questo fenomeno “è” soltanto nel modo di essere dell’Esserci e si dà a conoscere come fatto sempre e solo con l’esistenza e nell’esistenza effettiva. Questo è ovvio, e cioè che la coscienza si dia ad intendere soltanto se è esistente, perché questo aggeggio qua è sprovvisto di coscienza. Quindi, è un qualcosa che riguarda l’esistente e quindi riguarda l’Esserci. Come dire che non c’è coscienza se non nell’uomo, è l’uomo che è provvisto di coscienza. L’esigenza di una “prova empirico-induttiva” della “fatticità” della coscienza e della legittimità della sua “voce” riposa su un disconoscimento ontologico del fenomeno. Sta dicendo che la ricerca di una prova empirica dell’esistenza della coscienza… come se dicessi “la coscienza appartiene all’uomo” e qualcuno mi dicesse “mostrami la coscienza, vediamola, vediamo di cosa è fatta”, ecco, questa, dice Heidegger, è una richiesta fuori luogo perché in questo modo c’è un disconoscimento ontologico del fenomeno. Cosa vuol dire con questo? Quando lui parla dell’ontologia del fenomeno ci sta dicendo che il fenomeno, ciò che appare, ciò che si mostra, è un qualche cosa che appartiene all’essere, non è un qualche cosa che ha cause esterne all’essere, quindi, appartenendo all’essere, appartiene all’essere dell’Esserci, perché sennò non ci sarebbe nulla. Quindi, è inutile cercare la legittimità in qualche cosa, perché se cerco la legittimità la cerco in qualcosa che è situato fuori. Questa è una questione interessante che molti hanno riscontrata in tantissime occasioni e sotto vari rilievi. Faccio un nome per tutti: Tarski, logico polacco. Rispetto alla questione della verità, diceva che è inutile cercare la verità all’interno del sistema in cui sta funzionando, è un circolo vizioso, non la troveremo mai così. Per potere parlare della verità, per poterla definire, individuare, occorre uscire da questo sistema nel quale la verità sta operando e da lì fuori osservare la verità. Il problema è naturalmente solo spostato perché a questo punto che cosa mi garantisce che dal di fuori io veda correttamente. È esattamente la stessa cosa che sta dicendo qui Heidegger: è inutile che io cerchi la prova dell’esistenza di una coscienza da fuori dell’Esserci, che è fatto anche di coscienza. Il fatto della coscienza in quanto tale non si lascia sottoporre a prove e controprove di questo genere. Il che non attesta affatto una sua manchevolezza, ma è semplicemente l’indice della sua difformità ontologica dalla semplice-presenza nel mondo-ambiente. Difformità ontologica dalla semplice-presenza, cioè, non è una semplice presenza ma è qualcosa che appartiene all’Esserci, all’uomo. La coscienza dà a comprendere “qualcosa”, apre. Quindi, la coscienza come un’apertura. Già questo pone la coscienza in un modo abbastanza distante da tutto lo psicologismo, il sociologismo, ecc. Questa caratteristica formale indica che il fenomeno dev’essere ricondotto all’apertura dell’Esserci. Chi apre è l’Esserci. L’apertura, in quanto costituzione fondamentale dell’ente che noi sempre siamo, è costituita dalla situazione emotiva, dalla comprensione, dalla deiezione e dal discorso. Questi sono gli elementi che costituiscono l’apertura. Notate bene che ci mette anche la deiezione. Quindi, dalla situazione emotiva, per cui approccio le cose emotivamente; dalla comprensione, comprensione come un aprirsi a qualche cosa; dalla deiezione e dal discorso. Un’analisi approfondita della coscienza la rivela come chiamata. La coscienza chiama. Il chiamare è un modo del discorso. La chiamata della coscienza ha il carattere del richiamo dell’Esserci al suo più proprio poter-essere e ciò nel modo del risveglio al suo più proprio essere-in-colpa. Su questo si potrebbe discutere ma con essere in colpa deve intendersi il fatto che l’Esserci si accorge di non essere autentico, questa è la colpa, per cui deve tirarsi fuori dalla deiezione e appropriarsi di ciò che gli è più proprio. Dice un risveglio al suo più proprio essere-in-colpa. Risvegliarsi è accorgersi che si è nella deiezione, cioè, per cui occorre fare qualche cosa per poter arrivare a scegliere la scelta, come dicevamo prima. Questo aspetto non è così automatico, e cioè che qualcuno assuma su di sé la responsabilità di qualche cosa. Nella deiezione non c’è, è tutto un Si, per cui se tutti fanno così lo faccio anch’io. Uscire da qui non è semplice, comporta un lavoro che occorre fare. Questa interpretazione esistenziale è necessariamente lontana dalla comprensione quotidiana e ontica, benché faccia emergere i fondamenti ontologici di ciò che l’interpretazione ordinaria della coscienza, entro certi limiti, ha sempre compreso e realizzato sul piano concettuale sotto forma di “teoria” della coscienza. Sta dicendo semplicemente che la questione della coscienza si è tentato di approcciarla anche prima, per esempio con la teoria della coscienza, ma senza mai porla in termini ontologici e fenomenologici, come sta facendo lui, cioè come qualche cosa che si manifesta a condizione dell’Esserci. A pag. 323. Alla chiamata della coscienza corrisponde un sentire possibile. La comprensione del richiamo si rivela come un voler-avere-coscienza. Non è che questa chiamata mi cada addosso così, magicamente, ma è un volere avere coscienza, richiamando ciò che dicevamo prima è un volere scegliere la scelta, c’è un atto di volontà. a in questo fenomeno ha luogo quella scelta esistentiva di scegliere se-Stesso che noi, per la sua struttura esistenziale, chiamiamo decisione. Questa scelta è una decisione, sono io che decido. Prima parlavamo della responsabilità, è la stessa cosa, come dire che io devo rendermi conto che tutto ciò che faccio, in quanto progetto gettato, è una mia decisione. Finché resto nel Si non ci sarà mai un Esserci autentico. Ecco come si ripartiscono le analisi contenute in questo capitolo: i fondamenti ontologico-esistenziali della coscienza (§ 55); il carattere di chiamata della coscienza (par. 56); la coscienza come chiamata della Cura (par. 57); comprensione del richiamo e colpa (par. 58); l’interpretazione esistenziale e l’interpretazione ordinaria della coscienza (par. 59); la struttura esistenziale del poter-essere autentico attestato dalla coscienza (par. 60). Vale a dire, qual è la struttura esistenziale di questo esistente, che è l’Esserci, la struttura esistenziale del poter-essere autentico, quindi, dell’Esserci autentico, attestato dalla coscienza. Quindi, è la coscienza che attesta e a questo punto avremmo raggiunto l’obiettivo che prima Heidegger si proponeva, cioè, raggiungere un qualche cosa che, a partire dall’esserci stesso, possa attestarne l’autenticità. A partire dall’Esserci, quindi, dal suo progetto, dalla sua gettatezza. Siamo, dunque al § 55, I fondamenti ontologico-esistenziali della coscienza. Sono i fondamenti che lui cerca non in qualche cosa fuori dell’Esserci ma i fondamenti ontologico-esistenziali, cioè che riguardano l’essere dell’Esserci: ontologico riguarda l’essere; esistenziale riguarda l’Esserci, in quanto l’unico esistente è l’Esserci, le altre cose non sono un esistente ma sono solo una semplice presenza. L’analisi della coscienza prende l’avvio da un dato indifferente di questo fenomeno: che essa, in qualche modo, dà qualcosa a comprendere. La prima cosa, dice, che ci troviamo di fronte è che la coscienza dà qualcosa a comprendere, mi fa comprendere qualcosa. La coscienza apre e appartiene perciò alla cerchia dei fenomeni esistenziali che costituiscono l’essere del Ci in quanto apertura. Siccome la coscienza apre, dice, appartiene al Ci, perché il Ci è l’apertura stessa dell’Esserci, dell’essere qui, adesso e in questo momento. Più avanti. In virtù dell’apertura, l’ente che noi chiamiamo Esserci è nella possibilità di essere il suo Ci. (pagg. 323-324) Cioè, la possibilità di trovarsi a essere qui, in questo momento. Che è poi il modo autentico di essere: il prendere atto che io sono qui, in questo momento, storicamente, cioè con tutto ciò che di storico mi appartiene, io sono il prodotto di una serie di cose, che riguardano, sì, tutto ciò che ho fatto, ecc., ma anche tutto ciò che è accaduto prima di me: La caduta dell’Impero Romano: in un certo senso sono anche questo.

Intervento: Magari non ci saremmo se non ci fosse stato.

Certo. La caduta dell’Impero Romano ha avuto degli effetti, poi altri effetti, in definitiva, uno sterminio di effetti, tra i quali, forse, anche quello di essere noi qui, adesso. Se ciascuno, come dice Heidegger, è un prodotto storico, quindi di tutto ciò che gli è accaduto nella sua esistenza, tutte le scelte che ha fatto o che non ha fatto, ecc., è anche il prodotto di qualche cosa che lo ha preceduto. Il che è esattamente ciò che avviene rispetto alla lingua. Noi parliamo oggi una lingua italiana che è fatta in un certo modo, che è diversa dalla lingua italiana che si parlava cinquant’anni fa. Ci sono delle piccole varianti ma ci sono. E così è differente dall’italiano che parlava Dante; Lo stesso Cicerone: il latino che lui parlava non era più il latino che si parlava cent’anni prima di lui. Quindi, questa evoluzione della lingua comporta dei mutamenti, degli effetti, e noi siamo anche l’effetto di tutti questi mutamenti linguistici, perché siamo fatti di linguaggio. E il linguaggio è il prodotto di tutte queste cose avvenute nel corso di… Dio solo sa di quanti anni. Col suo mondo, l’Esserci c’è per se stesso e, innanzi tutto, in modo tale da aver aperto il suo poter-essere a partire dal “mondo” di cui si prende cura. In che modo c’è l’Esserci per se stesso? C’è per se stesso in quanto è nel suo mondo, del quale si prende cura. Prendersi cura del mondo non è altro che aprire verso il mondo, cioè, accogliere ciò che nel mondo mi si manifesta, mondo che esce dal nascondimento e che mi si manifesta. Il poter-essere in cui l’Esserci esiste si è già sempre abbandonato a determinate possibilità. L’esserci esiste in un poter essere e questo poter essere si è già sempre abbandonato a determinate possibilità. Queste possibilità sono sì, mie ma mi vengono dal fatto che io sono un essere storico, ho queste possibilità perché io vivo qui, adesso, nel 2017, possibilità che, per esempio, Tutankhamon, non aveva, per esempio, di poter lavorare al computer. Quindi, ho delle possibilità che mi vengono dalla storicità, cioè dal mondo in cui io mi trovo. Dire “il mondo in cui mi trovo” è già ridondante perché dicendo “il mondo” dico già il mondo in cui mi trovo, è l’unico mondo con cui ho a che fare. E ciò perché l’Esserci è un ente gettato, il cui essere-gettato è aperto, in modo più o meno chiaro e profondo, da uno stato-emotivo. È lo stato emotivo che definisce il modo in cui mi apro all’essere gettato nel mondo. C’è sempre uno stato emotivo, può essere interesse, paura, angoscia. Per Heidegger l’angoscia è lo stato emotivo principale ma qualunque stato emotivo, non importa quale, è comunque qualche cosa che accompagna il mio essere gettato nel mondo, cioè, io non posso mai essere totalmente indifferente a ciò che accade. Qui ci sarebbe da riflettere se non posso farlo per via della volontà di potenza. Per il momento lasciamo la questione in sospeso. Della situazione emotiva (tonalità affettiva) fa cooriginariamente parte la comprensione. La comprensione, cioè, quell’apertura, che consente poi l’interpretazione di qualche cosa, avviene insieme con la tonalità affettiva: io comprendo, accolgo delle cose in base alla mia tonalità affettiva. Freud direbbe in base a delle fantasie. L’esempio più stupido che si può fare è perché due persone entrano in una stanza e una vede delle cose e l’altra vede delle altre? Heidegger direbbe: perché ciascuno approccia ciò che gli viene incontro in base a una tonalità affettiva, che è diversa l’una dall’altra. Freud direbbe: in base a delle fantasie per cui qualche cosa lo richiama, qualche altra cosa, no. Questo per dire dell’impossibilità di un approccio indifferente. Così l’Esserci “sa” l’affar suo nei propri riguardi, e ciò in quanto si è progettato in possibilità proprie, cioè in possibilità che esso, immedesimato col Si, ha anticipato a se stesso assumendole dallo stato interpretativo pubblico del Si-stesso. Dice che l’Esserci “sa” di sé perché, essendo progettato in possibilità, queste possibilità sono già sempre anticipate, anticipate perché le traggo dal Si, più precisamente dalla deiezione. Tutte queste possibilità mi vengono dal mondo ma questa relazione che ho con il mondo è la relazione del Si, la relazione di chi approccia il mondo in modo inautentico, perché ancora non si è appropriato della totale autenticità dell’Esserci.

Intervento: si potrebbe dire che, nascendo nel Si, è lì che trova le sue possibilità.

Esattamente. Soltanto quando si troverà nella posizione dell’Esserci autentico che troverà la possibilità più propria, la morte. Ma questa assunzione è resa esistenzialmente possibile dal fatto che l’Esserci, in quanto comprendente con-essere, può star a sentire gli altri. Perso nella pubblicità del Si e nelle sue chiacchiere, l’Esserci non sente più il proprio se-Stesso, smarrito com’è nel dar retta al Si-stesso. Se l’Esserci deve poter-essere sottratto alla perdizione del non sentire se-Stesso e se lo deve proprio attraverso se stesso, è necessario che esso possa ritrovarsi, che possa trovare quel se-Stesso che esso ha trascurato di sentire dando ascolto al Si. Come dire che questo se-Stesso c’è sempre stato, è l’Esserci in quanto tale, che ciascuno ha abbandonato a vantaggio del Si, per i motivi che aveva detto molte pagine fa, perché è più comodo, perché dà più garanzie, perché è più tranquillizzante, ecc. Questo dare ascolto deve essere interrotto, cioè dev’esser data dall’Esserci, dall’Esserci stesso… Non è dato da qualcun altro ma dev’esser data dall’Esserci stesso. …la possibilità di un sentire che interrompa il dare ascolto. Ascolto al Si. È una cosa che deve partire dall’Esserci stesso, cioè, è l’Esserci che deve ascoltare se stesso. È questo che consente di interrompere la deiezione. La possibilità di una rottura di questo genere richiede una chiamata immediata. La chiamata mette fine al non sentire che dà ascolto al Si solo se essa, in corrispondenza col suo carattere di chiamata, suscita un sentire le cui caratteristiche siano in tutto opposte a quelle del sentire che definisce la perdizione del Si. Torna a ribadire che occorre un lavoro per venire fuori dal Si, sennò non se ne viene fuori. Perché ci sia questa uscita dalla perdizione del Si occorre quella che lui chiama “la chiamata”. Ora, è ovvio che è può essere soltanto l’Esserci quel “chi” che chiama, anche perché diceva prima dev’esser data dall’Esserci, dall’Esserci stesso la possibilità di un sentire che interrompa il dare ascolto.

Poiché quest’ultimo sentire è stordito dal “chiasso” e dalla rumorosa equivocità della chiacchiera ogni giorno nuova… C’è sempre una novità… …la chiamata dovrà farsi sentire silenziosamente, inequivocabilmente e senza appiglio per la curiosità. Notate come qui ha evocato tutti gli elementi che fanno parte della deiezione: la chiacchiera, l’equivoco e la curiosità. Poi, sottolinea questa frasetta Ciò che dà a comprendere chiamando in questo modo è la coscienza. È la coscienza che chiama a uscire fuori dal Si. Questa cosa, che lui chiama coscienza, è quel ritrovare se stesso da parte dell’Esserci. Se la chiamata stessa viene dall’Esserci è sempre l’Esserci che chiama e che consente di uscire dal Si. A pag. 325. Quando l’interpretazione quotidiana parla di una “voce” della coscienza, non intende alludere a una comunicazione verbale che, difatti, non ha luogo; qui “voce” significa “dare a comprendere”. Diciamo “voce della coscienza” ma con voce intendiamo il dare a comprendere. Dà a comprendere, che cosa? Dà a comprendere all’Esserci l’Esserci stesso. Nello sforzo di aprire, proprio della chiamata, c’è un momento di urto, di brusco risveglio. Chi è chiamato lo è dalla lontananza nella lontananza. È colpito dalla chiamata chi vuol essere ripreso. Passiamo al § 56 a pag. 326, Il carattere di chiamata della coscienza. È la coscienza che chiama. Questa coscienza è un’apertura verso il mondo, connessa alla gettatezza dell’Esserci, quindi, la coscienza appartiene propriamente all’Esserci. Infatti, diceva, non dobbiamo cercarla chissà dove, nella psicologia, nella sociologia, nella biologia, ecc., dobbiamo cercarla lì dove ontologicamente c’è, cioè nell’unico ente dotato di coscienza, che può dire di avere coscienza. Del discorso fa parte ciò-di-cui il discorso discorre. Il discorso informa su qualcosa e per un determinato riguardo. Da ciò su cui il discorso verte deriva ciò che il discorso dice in quanto è questo rispettivo discorso, ciò che è detto come tale. Un discorso è questo discorso, non è un altro.  Nel discorso, in quanto comunicazione, ciò che è detto è reso accessibile al con-esserci di altri e, per lo più, nella forma dell’espressione linguistica. Nel discorso in quanto comunicazione intervengono gli altri, io comunico qualcosa a qualcuno. Nella chiamata della coscienza, che cos’è ciò di cui si discorre? Quando c’è la chiamata questo discorso, perché è un discorso, di che cosa sta discorrendo? Ovvero chi è chiamato nel richiamo? Della coscienza, sottointeso. Manifestamente l’Esserci stesso. È l’Esserci che è chiamato, ma è anche colui che chiama. E, infatti, è per questo motivo che l’Esserci si riappropria di sé, perché è tanto colui che chiama tanto colui che è chiamato. Questa risposta è tanto incontestabile quanto indeterminata. Se la chiamata avesse un obiettivo così vago, non sarebbe per l’Esserci che un’occasione per prendere nota di sé. Ma l’Esserci è tale nella sua essenza che esso, con l’apertura del suo mondo, è aperto a se stesso cosicché già da sempre si comprende. La chiamata investe l’Esserci in quanto è già sempre autocomprensione quotidiana, media e prendente cura. La chiamata concerne il Si-stesso del con-essere con gli altri e prendente cura. Dice che l’Esserci è tale che nella sua apertura apre anche a se stesso, perché l’Esserci non fuori del mondo, anzi, l’Esserci è il mondo. Quindi, c’è questa apertura particolare, ovviamente non sono queste le parole di Heidegger, un’apertura particolare dell’Esserci verso se stesso. Questa apertura dell’Esserci verso se stesso è ciò che Heidegger chiama coscienza. E, infatti, dice che da sempre si comprende, perché essendo apertura apre anche a se stesso, quindi, è già compreso, è già lì, ciò che devo comprendere è ciò stesso che sta comprendendo, sono la stessa cosa. Che cos’è ciò a cui l’Esserci è richiamato? Al se-Stesso che gli è proprio. Non quindi a qualcosa a cui l‘Esserci, nell’essere-assieme pubblico, conferisce valore e urgenza di possibilità o di cura, e neppure a ciò che esso ha afferrato, a cui si è dedicato, da cui si è lasciato trascinare. L’Esserci, quale risulta a se stesso e agli altri nell’ambito della mondità, è oltrepassato da questo richiamo. La chiamata rivolta al Se-stesso ignora del tutto il Si.