INDIETRO

 

6 agosto 1998

 

La volta scorsa abbiamo posta una questione connessa con la definizione di parola e abbiamo constatato che qualunque definizione possa darsi della parola questa definizione avrebbe comportato una parola e che quindi la parola sarebbe stata definita con una parola. È un’operazione poco interessante definire una cosa utilizzando la stessa cosa che si deve definire, come quando si dice che la parola è la parola, sarebbe la stessa cosa. Però, potremmo anche dire che la parola altro non è se non l’atto attraverso cui e per cui si esegue il linguaggio, almeno provvisoriamente. Del linguaggio abbiamo fornita la definizione e può essere mantenuta, vale a dire, come ciò che consente agli umani di dirsi tali, la condizione perché gli umani possano dirsi tali. Quindi, il linguaggio sarebbe una condizione, potrebbe reggere questa cosa? (....) La parola semplicemente è la sua esecuzione, definizione così molto stringata, molto semplice ma appositamente la formuliamo in questo modo per rendere tutto il sistema poco facilmente attaccabile, diciamola così... (…) Sì, però presenta questo inconveniente, che definisci la parola attraverso un’altra parola e mi piaceva poco questa cosa, ma non con il linguaggio e cioè con il non linguaggio, ma come condizione. Poi, la parola in effetti, attenendoci anche a una definizione così diffusa, è sempre una esecuzione e comunque un atto che esegue una struttura che supporta. Certo, non può darsi linguaggio senza la parola né la parola senza il linguaggio, direi che il linguaggio non è altro che la struttura, l’insieme degli elementi che consentono l’esecuzione della parola. Potremmo anche dire così: la parola è la condizione per l’esecuzione del linguaggio così come il linguaggio è la condizione per l’esecuzione della parola. Di fatto, potremmo dire così, il linguaggio è una struttura, la parola è la sua esecuzione.

Allora, vediamo di proseguire questo lavoro. Dunque, ecco, la questione della verità può forse riservarci ancora qualche sorpresa. Avevamo detto, non ricordo se la volta scorsa o qualche volta fa, che con gli strumenti di cui disponiamo in effetti possiamo stabilire una verità assoluta. Perché possiamo stabilire una verità assoluta contrariamente a quanto si suppone? E, anzi, oggi chi si picca di potere esporre la verità assoluta viene generalmente deriso e beffeggiato e mal considerato, dopo tutto ciò che è stato, la crisi dei fondamenti, Heidegger, Wittgenstein e poi la linguistica, l’ermeneutica, ecc., sembra assolutamente impossibile, oltre che improbabile, potere sostenere l’esistenza della verità assoluta e invece non solo l’abbiamo sostenuta ma l’abbiamo provata in modo assolutamente innegabile. Adesso vi riassumo molto brevemente il percorso che facemmo in quell’occasione: la verità, dunque, è qualcosa che necessariamente occorre che sia? Oppure, potrebbe non essere? O meglio, partiamo da un altro punto forse più proficuo: definiamo o intendiamo con verità ciò che necessariamente è o potrebbe non essere? Questo già è un quesito ancora da porsi. Proviamo a indicare con verità ciò che necessariamente è, quali intoppi ci si parano innanzi immediatamente? (…) Io ho saltato in effetti un passaggio e forse occorre inserirlo, cioè: che cosa della verità occorre necessariamente dire per potere utilizzare ancora questo significante? C’è qualche cosa che occorre in ciascun caso dire che la verità sia? E qui muoviamo, come anche in altre occasioni abbiamo fatto, dal luogo comune, dal luogo comune muoviamo ciascuna volta in cui non possiamo utilizzare gli strumenti di cui disponiamo, soprattutto la deduzione che muove da un assioma fondamentale, cioè quello che dice che non c’è uscita dal linguaggio. Muoviamo dal luogo comune e cioè da ciò che viene attribuito a un significante. Allora, nel luogo comune la verità indica qualcosa che è ciò che è, però dobbiamo anche aggiungere ciò che è e che non può non essere, ché se potesse non essere allora la verità perderebbe questa sua prerogativa, di essere appunto ciò che è. (Il fatto che qualcosa sia, non implica che sia necessariamente.) Quindi potrebbe non essere? (...) Siamo ancora sul fatto che sia oppure no. Abbiamo detto che è, la verità riguarda ciò che è (...) Io volevo fare due cose in una, perché se ci fermiamo sul fatto che la verità è ciò che è allora a questo punto dobbiamo dire “ma ciò che è, è necessariamente o può non essere?”. Io facevo tutto un assemblaggio in modo da saltare... però se tu vuoi essere corretto facciamo tutti i passaggini (...) Adesso vediamo, non precipitiamo le cose. Allora, abbiamo detto che la verità è ciò che è. Bene, a questo punto ci si pone il quesito se la verità è ciò che è necessariamente oppure può non essere perché a questo punto rispondendo a questa seconda domanda sappiamo se la verità è ciò che è necessariamente oppure no. “Ciò che è” è necessariamente? (Sì.) Bene, e cosa glielo fa pensare? (...) Adesso fondiamo una ontologia, una bella ontologia (...) (Rispetto al contesto la verità...) Sì, certo, però adesso cerchiamo di fare qualcosa di un po’ più solido. Certo, chiaramente nell’ambito di una affermazione retorica la verità è determinata da regole del gioco, così come è vero che quattro assi battono due sette... Eppure, così come stiamo per stabilire una verità assoluta, allo stesso modo possiamo stabilire, utilizzando gli stessi strumenti, un’ontologia formidabile e d’altra parte voi stessi dovreste già possedere gli strumenti per compiere questa operazione (...) Che cosa è, dunque, in modo non soggettivo, non relativo, non parziale ma assoluto? Allora, badi bene come si costruisce una ontologia: “ciò che è” è in prima istanza ciò che consente di affermarlo, è il passo fondamentale, perché in questo caso, posta questa definizione, lei ha posto una condizione all’essere che non è soggettiva, non è relativa, non è parziale ma assoluta e “ciò che è” è la condizione per poterlo affermare. A questo punto, qualunque cosa potessimo mai affermare in risposta a questa domanda sarebbe comunque sempre negabile, così come gli umani si sono accorti ormai da tremila anni e insistono ... (...) Dunque, questo è ed è necessariamente perché senza di questo non è possibile affermare che qualcosa è né dirlo, quindi è ed è necessariamente. Ora, stabilito questo, abbiamo costituito il primo mattone di un’ontologia assoluta: se l’essere è ciò che abbiamo indicato allora l’essere è e necessariamente è e non può non essere. Torniamo, allora, alla questione della verità. La verità abbiamo detto che è ciò che è, a questo punto possiamo aggiungere che è ciò che è necessariamente e non può non essere. (Questa aggiunta è arbitraria.) Dunque, la tua obiezione è questa, che l’aggiunta che ho fatto, che “la verità è ciò che è necessariamente”, è arbitraria. Proviamo a considerare l’eventualità che la verità possa essere qualcosa che non è necessariamente come, per esempio, dicevamo prima una verità all’interno di un gioco, è vera ma non necessariamente, tuttavia l’uso che viene fatto di questo significante “verità” all’interno di un gioco potrebbe essere improprio nel senso che o indichiamo con verità unicamente ciò che è utilizzabile, e cioè una regola di un gioco, oppure indichiamo con verità invece qualcosa che occorre che sia necessariamente in quel gioco come in ciascun altro. Stiamo cercando qualcosa che trascenda il singolo gioco ... (....) Sì, allora prendiamo da un altro punto la questione e muoviamo proprio dal gioco. Noi diciamo che una cosa è vera all’interno di un gioco e che all’interno di quel gioco è necessario che sia così perché il gioco possa funzionare. Proviamo a considerare adesso il linguaggio come un gioco, c’è qualcosa all’interno del linguaggio che abbia le stesse caratteristiche, che cioè occorre che sia necessariamente vero perché funzioni il tutto? Mentre nel caso del gioco, e quindi del poker, qualcosa è vero in base a delle regole, nel linguaggio in base a che cosa possiamo dire una cosa del genere? Perché, al punto in cui siamo, ci interessa potere giungere a concludere che la verità, o meglio qualche cosa che necessariamente sia rispetto alla verità, tenendo sempre fermo questo punto, cioè che la verità è “ciò che è”. Poi, abbiamo aggiunto che la verità è “ciò che è necessariamente”, però Roberto ci vieta di ascrivere alla verità ciò che è necessariamente ma all’interno del linguaggio, cioè di questo gioco che poi non è altro che un gioco particolare, se all’interno di questo gioco troviamo qualcosa che necessariamente è e non può non essere allora potremmo chiamare questo verità oppure no? Vale a dire, avrebbe queste caratteristiche tali per cui all’interno di questo gioco, che è il linguaggio, consideriamo che la verità è necessariamente un qualche cosa e non potrebbe non esserlo? (...) Dici che le cose non possono non essere altro da ciò che sono... (...) Non era per confutarti, era per riprendere il filo. Consideriamo questo gioco, comunque sempre il linguaggio, potremmo dire che “ciò che necessariamente è” è la verità oppure no? Proviamo a considerare questo: tenendo conto che la verità occorre che sia ciò che è naturalmente, se no cessa di essere utilizzabile questo significante, ciò che è e che non può non essere... Vediamo se questo passaggio risulta arbitrario perché se risulta arbitrario non possiamo utilizzarlo, se invece risulta necessario allora sì. Il punto incriminato allora è questo, quello che afferma che la verità è e non può non essere. Questa aggiunta noi dobbiamo renderla necessaria, come facciamo a renderla necessaria? C’è un modo? Il problema è sempre quello dell’arbitrarietà. (....) Non necessariamente, se mai si presentassero questi problemi li affronteremo. Dunque, non sai confutare te stesso? Eppure, è il migliore esercizio che possa farsi.... Se la verità è “ciò che è” e “ciò che è” è necessariamente, cosa sarà la verità? (La verità ciò che è necessariamente.) C’è questa eventualità ... (....) No, se tu consideri che la verità è “ciò che è” escludi che la verità possa essere ciò che non è e questo lo escludi necessariamente...(...) Per il momento, fino a prova contraria, assumiamo che la verità sia “ciò che è necessariamente” e cioè non possa essere altro da ciò che è, sarebbe allora una verità costrittiva se… (...) Hai dimenticato un passaggio fondamentale rispetto a ciò che abbiamo indicato con “ciò che è” e cioè la condizione per dirlo cosa è e non può non essere se non ciò che di fatto si dice. Se tieni conto di questo allora dici che la verità di fatto è “ciò che è”, cioè in altri termini possiamo anche dire che la verità non è altro che l’asserzione dell’esistenza del linguaggio né possono darsene altre che siano innegabili. Qualunque altra verità è effettivamente negabile, in alcuni casi addirittura risibile, ma se vogliamo affermare che qualcosa necessariamente è e che non può non essere, e se non fosse non potremmo affermarlo né negarlo, ecco che allora, data questa definizione di “ciò che è”, la verità è “ciò che è”. Tutto questo giro avremmo potuto risparmiarcelo dicendo che la verità è che gli umani non possono uscire dal linguaggio. Consideriamo questo come verità e quindi come “ciò che è necessariamente”, a questo punto non è più arbitrario né relativo né altre cose che abbiamo dette ma risulta necessario e quindi non negabile... (…) Posto l’essere in questi termini abbiamo stabilito per la prima volta nella storia degli umani che l’essere è necessariamente e non può non essere e che se non lo fosse non potrei neanche negarlo né affermarlo né fare alcuna altra cosa bella e amena. Bella ontologia! Poste le condizioni dell’ontologia, dicemmo la volta scorsa, abbiamo posto anche indirettamente le condizioni per stabilire una religione terrificante. Adesso lasciamo stare queste considerazioni prettamente logiche e occupiamoci invece di un aspetto più divertente, retorico. Gli umani hanno sempre cercato la verità, quella assoluta, oggi l’hanno trovata. Ma non è questa la questione. Ciascuno parlando cerca la verità, anche dicendo le cose più strampalate, più ridicole, più banali, più insignificanti, ciò che asserisce vuole che sia la verità. Perché? Questo è il quesito che adesso ci interroga, poi, quando avremo terminato questo, ci riagganceremo alla questione logica. Perché gli umani cercano la verità? La cercano i linguisti, i logici, i filosofi, gli scienziati, come ognuno quando chiacchiera con chiunque vuole che sia la verità, perché, perché non può acconsentire al fatto che ciò che dice sia esattamente falso? (....) È possibile costruire un discorso complesso articolato, sofisticato e di un certo peso muovendo da una premessa assolutamente falsa, come facevano i sofisti. Però, il discorso che si sa essere falso è una questione che da tanto tempo ci si pone però non è stata mai affrontata in termini molto precisi. Ciò rispetto a cui nessuno è disposto a transigere è proprio la questione della verità, chiunque se la prende, si offende o se ne ha a male se per esempio gli si prova che tutto ciò che ha affermato è assolutamente falso; perché se ne ha a male anziché restare assolutamente indifferente e considerare il fatto che sia falso come una cosa di nessun conto? È come se gli umani cercassero continuamente una verità, sì certo, per potere proseguire ma forse non soltanto per questo, c’è qualche altro elemento da aggiungere. Adesso dobbiamo occuparci della verità in una accezione prettamente retorica; dopo questa breve premessina logica occorre considerare che cosa una persona considera come verità, cioè che cosa va cercando. Quando nei suoi discorsi, qualunque essi siano non ha importanza, quando legge una qualunque idiozia sul giornale e quella diventa la verità, il come stanno le cose o dia una dignità a ciò che necessariamente è, anche una notizia su Novella 2000 per molti ha questa prerogativa di necessità, necessità ontologica però...(....) Cosa fornisce la supposizione di dire la verità a chi suppone di dirla ovviamente, cosa fornisce? Quale garanzia, quale appoggio quale sostegno, quale rinvio? Sembra una questione di poco conto ma se la si considera con attenzione si mostra di una straordinaria difficoltà (...) Pensate a una conversazione fra due persone: uno dice una cosa e l’altra dice come stanno le cose affermandone la verità, i due discutono di computers, l’uno dice una stupidaggine e l’altro dice “no, guarda è così perché funziona in questa modo”, quello che viene confutato se ne dispiace generalmente ma l’altro invece si sente in molti casi in una posizione come di privilegio come se di fronte all’altro lui mostrasse un sapere, una verità che l’altro ignorava e quindi si sente un gradino superiore all’interlocutore. Perché? (...) Sì, però qui rispetto a questa questione sembra di muoversi sulle sabbie mobili, mentre rispetto alla prima questione ci si muoveva su delle cose salde e inattaccabili, invece qui tutto sembra sfuggire di mano (...) Tutto questo potrebbe spostare la questione nel senso che possedere la verità è ciò che da una parte responsabilizza e consente il riconoscimento del potere. Le cose si complicano, perché cercare tutto questo, a che scopo? (...) Torniamo al punto di partenza, perché è così importante che sembra il cardine di tutta l’umanità, che la si cerchi in ambito filosofico, logico, linguistico o semplicemente chiacchierando con gli amici, la questione è la stessa. (....) L’ultima risposta, quella definitiva, la risposta definitiva che cosa fa? Fa, certo, tutte le cose che abbiamo detto ma ferma il discorso, lo chiude...(....) Stiamo dicendo in tutto ciò che la verità nel discorso occidentale è sempre stata posta come quell’elemento che, finalmente trovato, chiuderebbe necessariamente il discorso, lo arresterebbe. D’altra parte la nozione di dio ha questa prerogativa, una sorta di colonne d’Ercole, e quindi la nostra riflessione si sposta su questo, cioè sulla necessità che sembra essere connaturata in noi di trovare ciò che arresta il discorso e cioè ciò che, in definitiva, mi farebbe cessare di esistere se mai fosse possibile una cosa del genere. Questo lo aveva intuito bene Heidegger, forse una delle cose migliori che abbia detto. (Il senso di colpa) Il senso di colpa? Come ti è venuto in mente? (...) Sì, tutto ciò ci conduce alla questione della mancanza, il fatto che gli umani in qualche modo avvertano una sorta di mancanza e questa mancanza per qualche motivo debba essere colmata. La verità è preposta, come si ritiene generalmente, a colmare questa mancanza, perché come si diceva prima una persona che sa la verità e la dice all’altra si sente generalmente gonfio di importanza e di valore, perché è come se avesse tamponato una mancanza.

Tenete conto che il gioco che stiamo giocando, e che ci occuperà per i prossimi dieci anni, è inventare delle proposizioni che impediscano immediatamente di pensare altrimenti, questo è il gioco che ci sta divertendo adesso (...) Dobbiamo considerare ancora questo aspetto della mancanza, forse da lì potremmo trovare qualche nuovo elemento (...) Molti già considerano il linguaggio lo strumento fondamentale però c’è qualcosa che fa da sbarramento a considerare che il linguaggio non è lo “strumento per” ma è quella stessa cosa che consente di pensare che sia una “strumento per” e qui il passo è più arduo, perché se uno è un po’ sveglio si accorge che facendo due o tre passaggi la catastrofe incombe in qualunque cosa. Qualche altra idea? (...) Beh, appare che gli umani cerchino la verità quindi per colmare qualcosa che a loro appare esser mancante. Certo, se questo piccolo discorso che abbiamo fatto introduttivo logico rispetto alla verità potesse essere composto in modo retorico, rapido ed efficace sarebbe fortissimamente persuasivo. Debbo scrivere un libro sulla verità, De veritate, che sembra una questione fuori moda, poi non c’è discorso che non la invochi, ovviamente. Uno scritto sulla verità che stabilisce che cos’è definitivamente.