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6 luglio 2022

 

Ripresa

 

Questa sera desidero dirvi tre cose. La prima è una ripresa della posizione di Severino nei riguardi della volontà di potenza di Nietzsche. Il secondo punto è il riprendere le tesi di Severino e da ultimo qualche considerazione sulla volontà di potenza, sulla volontà di modificare l’ente, secondo la propria volontà. Che cosa dice Severino della volontà di potenza in Nietzsche? Il discorso che fa è abbastanza semplice. Dice: la volontà di potenza è una volontà che non vuole avere ostacoli, cioè, vuole prodursi all’infinito senza nessun impedimento. Ora, rispetto al passato la volontà di potenza è impotente, perché il passato, così come è considerato generalmente, è immodificabile, ciò che è stato è stato; vale a dire, si trova nella posizione in cui si trova Dio, anche lui è immodificabile e ciò costituisce un limite alla volontà di potenza. La volontà di potenza, dunque, si trova di fronte a questo ostacolo inamovibile, immodificabile, ma la volontà di potenza vuole modificare anche quello. Come diceva Heidegger, è la quintessenza della volontà di potenza il riuscire a dominare anche il passato, che è l’indominabile per eccellenza. Che è quello che fa Nietzsche. In che modo? Se la volontà di potenza si esprime attraverso il mio volere di volta in volta cose nuove, allora il passato è qualche cosa che io devo rivolere continuamente. Rivolendolo continuamente, la volontà di potenza immagina di potere controllare, gestire il passato. Dunque, se la volontà di potenza elimina il passato come ostacolo al suo farsi, al suo dirsi, allora anche Dio deve essere eliminato per lo stesso motivo, perché Dio rappresenta comunque un limite alla volontà di potenza. Dunque, se questo divenire viene assorbito dalla volontà di potenza allora necessariamente non c’è più il limite, quindi, non c’è più Dio. Ecco la morte di Dio di cui parla Nietzsche. Questa è la posizione di Severino nei confronti della volontà di potenza di Nietzsche: la volontà di potenza che vuole volere anche ciò che è fuori del suo controllo e, per potere fare questo, deve pensare al passato come qualcosa di continuamente voluto. Ma qual è dunque la posizione di Severino? Ne abbiamo parlato in varie occasioni, muovendo una obiezione che riguarda il fatto che per Severino il concreto, il tutto, incontra una contraddizione, perché per essere tutto deve contenere gli astratti. Gli astratti non sono il concreto, quindi, il concreto per essere concreto deve essere necessariamente ciò che non è, perché deve essere anche astratto. Lui pensa che, nel momento in cui tutti gli astratti parteciperanno del concreto, il tutto toglierà allora la contraddizione, quella che lui chiama la grande contraddizione, la contraddizione C. Quindi, l’idea sua è che il tutto sia ciò che è senza contraddizioni, il concreto come ciò che non ha più contraddizioni e che, quindi, è l’unica cosa, potremmo dire, vera, l’unica cosa che può affermarsi. Il problema, sul quale Severino non dice nulla, è: quanti sono questi astratti, se devono partecipare del concreto? Quanti sono? Se non sappiamo quanti sono, come sapremo quando abbiamo il concreto come tutto? Non lo sapremo mai. Dunque, se non lo sapremo mai vuol dire che la contraddizione permane e tutto il discorso che si fa, qualunque sia, rimane nullo perché il tutto, che dovrebbe garantire l’assenza di contraddizioni, non c’è e, di conseguenza, il suo stesso discorso, visto che Severino non ha eliminata la contraddizione C, è nullo.

Intervento: …

È per questo motivo che Severino vorrebbe che tutti gli astratti partecipassero a un certo punto del concreto apparendo: un astratto appare e apparendo viene inglobato nel concerto. È una posizione un po’ bizzarra, però ciò che a lui preme è togliere la contraddizione: è questo il suo obiettivo. Finché c’è il concreto e permangono gli astratti, c’è una contraddizione, perché questo concreto è fatto, sì, del tutto, ma questo tutto non è proprio tutto finché permangono degli astratti. Quindi, bisogna togliere la contraddizione a tutti i costi, obiettivo principale e prioritario. Difatti, Severino definisce ciascun ente come eterno, eterno non nel senso di un presente perdurante, ma eterno perché non esce dal nulla e non torna nel nulla. Severino dice che l’eterno è l’eterno apparire dell’esser sé dell’essente. Badate bene, perché questa definizione è importante. L’eterno apparire dell’esser sé dell’essente. Ora, questo avrebbe già dovuto farvi drizzare le orecchie, perché l’apparire dell’esser sé dell’essente comporta un essente e un esser sé dell’essente. L’essente sarebbe l’in sé, quello che c’è, il significante, ma questo in sé esiste in quanto è quello che è; ma per stabilire che è quello che è, per essere ciò che è, l’essere sé, occorre qualche altra cosa, occorre appunto, come diceva Hegel, il per sé, che in questo caso sarebbe l’esser sé. Abbiamo l’essente, ciò che appare, l’ente… Ricordate che per i greci l’ente è ciò che si manifesta, ciò che appare così com’è. Però, c’è un problema, che è lo stesso che abbiamo rilevato in Platone rispetto all’ente: o lo determino, e allora l’ente è effettivamente quell’ente, o non lo determino, e allora non so che cos’è, è nulla. Non è la stessa cosa anche per l’essente? L’essente, l’apparire dell’esser sé dell’essente: l’essente può apparire in quanto esser sé, perché se non fosse l’esser sé, noi non sappiamo se l’essente è proprio ciò che dice di essere; occorre un esser sé, cioè, la certezza che sia quello. A questo punto con che cosa ci troviamo ad avere a che fare? Con la dialettica hegeliana, che lui qui critica, cioè con il permanere di due momenti senza i quali due non c’è nessuno dei due. Quindi, l’essente non è più eterno, immobile, perché è posto in questa dialettica, dialettica che non è altro che movimento. Quindi, l’essente può apparire in quanto esser sé, sennò non appare. Il che significa che ha bisogno di altro; quindi, e qui arriviamo al punto centrale, questo essente è quello che è ma anche ciò che non è. La questione è questa. Ci troviamo di fronte a ciò che Severino dice, e cioè che c’è l’eterno, l’essente come eterno, quindi, necessariamente irrelato. Qual è la follia dell’occidente, secondo Severino? Pensare che una cosa sia quella che è e anche ciò che non è. Dice da qualche parte: il torpore dell’occidente, che non si accorge di questo. Ci si trova presi in una contraddizione, quella che lui vorrebbe togliere nel modo che dicevamo prima. Naturalmente, tutto questo sorge dall’aver separato l’ente dal non-ente. Lui chiama follia il dire che ciascuna cosa è se stessa ma anche il suo contrario o, come dice lui, che A diventa non-A, ma non è che questo A diventa non-A, è che A esiste perché c’è il non-A. Quindi, non è che diviene, ma la A è non-A. Se non fosse non-A, come sappiamo, non ci sarebbe neppure la A, perché la A sarebbe A rispetto a che? Rispetto a niente e, dunque, sarebbe niente. Severino questo lo sa, quando da qualche parte diceva che l’essere necessita del non-essere per potere essere, solo che questo non-essere lui lo separa, lo toglie, senza tenere conto che se toglie il non-essere toglie anche l’essere, perché l’essere senza il non-essere, cioè senza il suo significato, scompare, cessa di esistere. Da dove vengono per noi queste considerazioni? Dal fatto che abbiamo inteso il funzionamento del linguaggio, perché ente, non-ente, A e non-A, ecc., non sono nient’altro che figure, potremmo dire rappresentazioni del mio dire e di ciò che il mio dire dice, cioè del λέγειν τί. È questa la figura originaria, il λέγειν τί, che già Platone indicava come indissolubile, dicendo che non sono la stessa cosa, sono distinti ma indissolubili, cioè il non-ente è indissolubile dall’ente: sono due momenti dello stesso. Questo è stato Hegel con il suo genio a coglierlo. Cosa che, invece, Severino deve eliminare, perché lui vuole a tutti i costi eliminare la contraddizione. Perché vuole eliminare la contraddizione? Tutta la storia del suo pensiero è sempre stata una ricerca di qualcosa di assolutamente stabile, fisso. È per questo che lo chiamano il principale fautore del ritorno a Parmenide. Sì, ma solo se lo si intrepreta in un certo modo: l’essere è, il non-essere non è, e su questa strada non devi metterti. Lo abbiamo letto mille volte questo passo, ma se teniamo conto del fatto che Parmenide dice che il pensiero e l’essere sono lo stesso, allora vuol dire che l’essere è pensiero, cioè movimento. Il pensiero è continuo movimento, continua trasformazione. E, allora, abbiamo detto che se l’essere è pensiero, allora il non-essere è non-pensiero, è fuori dal pensiero, fuori dal linguaggio. È chiaro che a questo punto non possiamo non dare ragione a Parmenide: è vero, il non-essere, posto così, non c’è in nessun modo, è inutile che ti immetti nella via dell’assenza del linguaggio, perché lì non c’è niente, non trovi niente. Severino invece vuole rimanere in questa posizione: l’essere è, il non-essere non è. Lui pone il non-essere come il nihil absolutum, non come il niente, nel senso del non-ente, del μή ὅν, che non è il nulla assoluto, è qualcosa, è appunto il non-ente. Lui lo pone come il nihil absolutum, del quale non potrebbe parlare, perché se ne parla è qualcosa, quindi, non se ne può dire nulla. Il nihil absolutum è una creazione, una costruzione che non esiste, che non può esistere; così come il pensare senza linguaggio è una costruzione, posso dirlo, ma non sto facendo niente mentre lo dico. Ora, per supportare questa sua posizione Severino faceva quell’esempio della legna che diventa cenere, che sarebbe secondo lui la manifestazione del divenire, perché prima era legna, poi non è più legna e alla fine è cenere. Quindi, la legna diventa cenere, la legna diventa ciò che non è, A diventa non-A: ecco la follia del pensiero occidentale. Ma, tenendo conto del fatto che dicendo dico necessariamente qualcosa e che questo qualcosa, il τί, non è il dire, le cose diventano più chiare, anche rispetto alla volontà di potenza, dalla quale sappiamo che non c’è uscita. Non c’è uscita perché la volontà è solo questo, volontà di modificare, sennò non è volontà: se voglio qualcosa voglio che le cose vadano in un certo modo, sennò non voglio. Anche se voglio che rimangano come sono, comunque si modifica nel senso che non diventerà ciò che sarebbe invece diventato. La volontà di potenza è sempre un volere qualcosa, un volere che l’ente si modifichi. Quale ente? Si potrebbe dire uno qualunque, certo, ma da dove arriva questo ente? Questa è una bella questione. Potremmo porre la domanda in questi termini: senza il linguaggio ci sono gli enti? È una domanda insensata, se ci si pensa bene. Cosa vuol dire? Gli enti ci sono in quanto dico che ci sono, in quanto li esperisco, ma li esperisco come? Così come li esperirebbe un bruco? No, li esperisco in quanto sono qualche cosa per me o, come direbbe Heidegger, in quanto li incontro come utilizzabili, utilizzabili per la volontà di potenza, ovviamente. Incontro, sì, questi enti, ma questi enti sono parole? Questa è una bella domanda. Pensiamoci un momento. Λέγειν τί, il mio dire produce ciò che il mio dire dice. Questo già Platone lo sapeva: lo produce, non è che trova questo τί da qualche parte, ma è il λέγειν che produce il τί, il λέγειν produce l’ente in quanto qualche cosa, ma qualche cosa che attiene al dire, che partecipa del dire; come sappiamo, non possiamo separarli in nessun modo. A questo punto possiamo riformulare la domanda chiedendoci: ma le cose che incontriamo sono soltanto parole, sono soltanto quegli enti che il nostro dire produce mentre dice? È una considerazione che non va senza una serie di implicazioni. A questo punto è chiaro che non si può più parlare delle cose in generale;  come tempo addietro abbiamo accennato, le cose sono parole, cioè noi abbiamo sempre a che fare solo con parole: guardo qualcuno quel qualcuno è una parola, nel senso che è un discorso, un racconto, ecc., ma non è mai lui, lui non c’è, non c’è mai stato. Lui in quanto tale è esattamente come il concreto per Severino: quand’è che lo riempirò di tutti i significati che gli sono propri, quand’è che lo completerò veramente? La risposta è mai. Quindi, non saprò mai chi è. Naturalmente, questa necessità di riempirlo di significati, per dirla in modo rozzo, da dove arriva? Dalla necessità, dal mio volere controllarlo. Se conosco tutti i suoi significati, ecco che allora lo controllo; se conosco tutti gli astratti, ecco che allora controllo il tutto. Se vogliamo trovare il colmo della fantasia di volontà di potenza in Severino: domino il tutto e lo domino proprio nel senso dell’πιστήμη, dello starci sopra. La volontà di potenza è questa rispetto alla struttura della parola. Il λέγειν e il τί: il λέγειν non esiste senza il τί, ma il τί, cioè il significato, il rinvio, è infinito. Ma se è infinito mi ritrovo ad avere il mio dire che insignificabile, è indeterminato, come il famoso πείρων di Anassimandro. E io che cosa dico, che cosa sto dicendo? Non potrei parlare se fosse così. Quindi, se parliamo è perché non è solo così. C’è un altro aspetto, cui accennavamo forse l’altra volta, rispetto al “come se”. Per potere parlare io devo fare come se io conoscessi i significati, il τί, come se sapessi che cos’è. Solo a questo punto posso utilizzare questa parola, perché il λέγειν e il τί sono i costituenti del λόγος, del linguaggio, sennò non la posso utilizzare, mi troverei disperso in un infinito senza fine ogni volta che apro bocca. Ma così non accade e non accade perché io faccio come se conoscessi la persona che ho davanti, come se sapessi che cos’è quell’aggeggio, come se sapessi che cos’è quest’altro, faccio sempre come se. Ma non lo so e non lo potrò sapere mai. In qualche modo questo è anche ciò che diceva Zenone. Quando Severino parla della legna e della cenere, c’è una linea in cui ci sono tutti gli istanti, ma questi istanti non sono percepiti dall’evidenza, io non vedo l’evidenza di qualcosa che diventa qualche cos’altro, vedo degli istanti, sono tutti istanti, ciascuno eterno. Tutti questi istanti, che sono eterni, richiamano il discorso di Zenone rispetto alla freccia. La freccia è stata scagliata, però, la freccia in ogni istante occupa uno spazio. Occupando quello spazio, e solo quello, non può occuparne un altro e, quindi, è lì, ferma, immobile, eterna. Quell’istante è eterno, direbbe Severino. Ma è esattamente il discorso che faceva Zenone per indicare che non c’è movimento. Ma non è che non c’è movimento, il movimento c’è, e dove lo ritrovo questo movimento, visto che la freccia è sempre apparentemente immobile? Possiamo dire che è immobile sempre rispetto a un movimento, che noi vediamo, certo, ma senza movimento potremmo dire che è immobile? No, oltre al fatto che per potere fare queste considerazioni, qualche cosa si muove, e cioè il mio pensiero, perché è lui che decide che la freccia è eterna. Il mio pensiero non sta mai fermo, è lui che decide, che conclude, attraverso una serie di passaggi, che la freccia è immobile. Quindi, ho qualche cosa di immobile che è prodotto da qualche cosa che invece è in continuo movimento: il mio pensiero. Questa per Severino sarebbe già una contraddizione inaccettabile. L’eterno è l’eterno apparire dell’esser sé dell’essente, dice Severino. Sì, ma la cosa appare un po’ più complessa. La volontà di potenza, il dominare l’ente, cioè il τί che il λέγειν produce dicendosi. Come avviene questo? Attraverso il “come se”: immagino che il τί sia quello che io voglio che sia. La volontà è sempre volontà che qualcosa sia come io voglio che sia, naturalmente. E qui c’è una sorta di biforcazione. Da una parte, tenere conto che vedo qualcuno e, quindi, mi rapporto a questo qualcuno come se sapessi su di lui. Non so niente, ma è come se, con tutte le implicazioni di una cosa del genere. Dall’altra parte, invece, mi rapporto a lui perché io so com’è, so come stanno le cose. Per potere affermare questo, che io so come stanno le cose, occorre che io metta questo τί fuori dal linguaggio. È l’unico modo per poterlo immobilizzare. Abbiamo visto l’eterno di Severino che per essere tale deve essere fuori dal linguaggio. Per questo lui ha scritto quel suo saggio Oltre il linguaggio: oltre il linguaggio per lui c’è l’eterno. Deve metterlo fuori necessariamente. A quel punto sorgono dei problemi, ovviamente, perché se è fuori del linguaggio, intanto, come lo so? E, poi, se è fuori del linguaggio, come ne parlo, cosa ne dico, in che modo lo approccio? Se è fuori del linguaggio non è in relazione con nulla, è l’irrelato. Noi sappiamo cosa succede quando si pone qualcosa in quanto irrelato: scompare nel nulla, perché è nulla. È l’ente di Platone: o lo determino, e allora è altro, o non lo determino, e allora non è niente, perché non c’è nulla che dica che cos’è; non posso neanche dire che è qualcosa, perché sarebbe già una determinazione, o che è nulla, perché sarebbe anche questa una determinazione; non posso dire niente, è il nihil absolutum. L’unica condizione per potere affermare, per potere credere che le cose stiano così come io sto dicendo, è che questa cosa sia fuori del linguaggio; oppure, come dicevo, faccio come se, sapendo e non potendo più non sapere che non è così, perché non può più esserlo, ma per andare avanti devo fare come se. Questo potrebbe essere il modo in cui appare il linguaggio nel suo funzionare. È chiaro che avvertire che questo τί non è fuori del linguaggio, perché non può esserlo, non è semplice. Ci sono voluti molti anni di lavoro, di studio, di letture.

Intervento: … noi siamo intrisi di logica.

Severino ne è la quintessenza. Tutti i suoi pensieri sono strettamente e logicamente interconnessi. Ha una assoluta fiducia nella logica, anche se lui nicchia un po’ quando glielo si fa notare, ma è così. Tutte le sue argomentazioni sono stringenti, sì, certo, a condizione che le sue premesse siano vere. Ma colui che l’ha inventata questa logica, Aristotele, ci ha detto che cosa c’è a fondamento: la chiacchiera, l’analogia, il come se. Non c’è altro, perché oltre non si può andare.

Intervento: Non siamo più allegorici…

Sì, l’allegoria è un discorso che si fa su qualche cosa, e ogni volta che si approccia qualche cosa si fa un discorso su quella cosa lì, che sia una penna, una persona, un pensiero, qualunque cosa. Ogni cosa è un ente, se è, è un ente. La volontà di potenza in questa accezione, quindi, è la volontà di dominare l’ente, cioè di modificarlo. La volontà di potenza è ineliminabile, perché non posso fare a meno di pensare le cose come se fossero quelle che io sto dicendo che sono, cioè, e qui ogni volta affermo qualche cosa dovrebbe immediatamente scattare qualche cosa che mi dice che non sto dicendo come stanno le cose, ma sto dicendo come voglio che siano. Il che è molto diverso. Sto dicendo come voglio che siano le cose. E, allora, ecco la domanda: perché lo voglio? È l’apoteosi della volontà di potenza: io domino tutto, anche il passato, che tradizionalmente è ciò che non può essere modificato.

Intervento: La psicoanalisi ha questo ideale di poter modificare il passato.

Sì, di recuperarlo, come se fosse recuperabile. Ma si recupera che cosa? Degli scampoli di qualche cosa che è già altro comunque, inevitabilmente, e che non c’entra più niente. Il ricordo non serve tanto a sapere che cos’è accaduto, è molto relativo, ma fare in modo che la persona, continuando a parlare, possa accorgersi di ciò che sta dicendo. Il ricordo, i sogni, ecc., sono pretesti per trasformare qualcosa in un utilizzabile. Questo Heidegger lo aveva visto bene, poi non ha saputo andare molto oltre, però ciascuna cosa è una cosa, è un ente, in quanto è un utilizzabile per la volontà di potenza, cioè, utilizzabile per modificare altri enti. In effetti, questo τί, il che cosa del mio dire, anche lui è un ente, quindi, deve utilizzato per costruire, modificare altri enti, ma non posso farlo se io lo prendo come è, quindi, devo farlo come se non lo fosse. D’altra parte, tutto sorge dall’analogia, perché non posso dire la cosa così com’è, neanche se la vedo, non so neanche cosa vedo esattamente, vedo un racconto, una storia, vedo tutto, ma la cosa? Che senso ha chiedersi se vedo la cosa? Non so neanche che cosa sto dicendo esattamente dicendo che la vedo. Questa apertura, questo squarcio, questo abisso che gli eleati avevano intravisto fra il λέγειν e il τί… il modo per togliere di mezzo questo abisso, e cioè potere continuare a pensare che l’ente sia conoscibile. È il lavoro avviato da Platone: l’Uno è il bene, i molti sono il male. I molti devono essere cacciati, eliminati. Ma togliendo i molti, cosa ci rimane? L’Uno, ma senza tenere conto che se leva i molti elimina anche l’Uno. La volontà di potenza, dominare l’ente. Cosa facevano una volta i Conquistadores? Quando mettevano piede sulla spiaggia la prima cosa che facevano era quella di piantare la croce o infilare la sciabola nella sabbia. Al di là del richiamo sessuale di una cosa del genere, è come dire: questa è mia, è cosa mia! Verrebbe da chiedersi anche quando una persona va in un altro paese, in qualche modo non fa una cosa del genere? Non c’è l’idea di modificare questo paese? Perché prima era così, adesso ci sono io e, quindi, è modificato, basta un nonnulla per modificare una cosa. Quindi, se vado a Parigi, Parigi è modificata dalla mia presenza. In effetti, senza la volontà di potenza le agenzie di viaggio sarebbero in difficoltà. Probabilmente, c’è questo aspetto che spinge a volere mettere piede, nel caso dei Conquistadores, su una terra sconosciuta, su una terra di conquista, ma era emblematico il gesto che facevano: piantare la croce o infilare la sciabola nella sabbia. Come dire: questo è mio! Adesso ci sono io e nulla sarà più come prima! Questo per dare l’idea del dominio, cosa significa per i parlanti il dominio sull’ente: è mio! Questo ente qui è mio! Che non ha neanche tutti i torti: in fondo, lo ha prodotto lui. Ma se lo si pone fuori del linguaggio, se lo si pone nella cosiddetta realtà, allora devo conquistarlo ogni volta. Sta qui l’inganno: gli umani, per via di questa svista, della quale è colpevole Platone e dopo di lui Aristotele, sono costretti a conquistare continuamente questa terra, che è l’ente, a riconquistarlo continuamente, senza sapere che è già loro. Allo stesso modo Severino non si è accorto che il concreto, non è da aspettare, il concreto è già qui, in questo momento mentre ne parliamo. L’ente è già mio perché l’ho prodotto io. A questo punto, cosa devo conquistare? Ecco che scompare la necessità di infilare la sciabola nella sabbia per dire “È mia!”. La cosa, poi, deve essere condivisa: la mia potenza, se intesa in questo modo, cioè come il mio dominio sull’ente, è tale perché altri riconoscono questo mio dominio. Cosa accade, invece, quando c’è la ineluttabile consapevolezza che l’ente è già mio perché l’ho prodotto io parlando? Secondo Nietzsche, è la scomparsa della vita, perché per lui la vita è volontà di potenza tout court. Se non c’è questa esigenza di dominare l’ente, ma si lascia che l’ente sia “come se”, pur sapendo che non è, secondo Nietzsche si dovrebbe perdere la volontà di vita. Non è così, evidentemente, anche perché questa idea di Nietzsche muove dal fatto che ciascuno voglia necessariamente imporsi sull’ente. Non ha mai preso in considerazione l’eventualità che qualcuno possa accorgersi che quell’ente è già suo, che è già nelle sue mani, per così dire, per cui non ha bisogno di appropriarsi di niente, non ha bisogno di infilare la sciabola, non ha bisogno di nulla.