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6-7-2004

 

Ci sono questioni?

Intervento: il nostro gioco… l’affermazione che regge tutto il nostro gioco, una costrizione logica e cioè che qualsiasi cosa è un elemento linguistico, afferma che l’unica verità se proprio vogliamo dirla è quella che il discorso occidentale può accogliere come vera… è vero che poi che non possa negare una cosa di questo genere fa parte sempre del gioco laddove instaura la contraddizione… la questione è a che cosa serve questo marchingegno oltre al potere affermare “l’unica cosa che possiamo dire nei confronti di una questione è che sono elementi linguistici, tutto quello che ci mettete in più è una credenza, qualcosa che si può credere ma in effetti l’unica cosa che non possiamo negare è che siano elementi linguistici, quindi la verità assoluta e il discorso occidentale funziona è la verità, uno può “crederci “ tra virgolette cosa voglio dire? Utilizza la struttura del discorso occidentale che è fatta in un certo modo che dice “ cos’è questo?” “questo!” Funziona così “cos’è questo?” “un elemento linguistico!” Andiamo benissimo anche da questa parte, la questione più importante è a che cosa serve tutto questo? questo marchingegno non è stato costruito per trovare la verità, anche forse in un primo momento… mi sembra così futile… si trova la verità ma non cambia di molto la struttura nel senso… la questione è a cosa serve appunto questo marchingegno? Al momento in cui posso giocare questo gioco perché l’unica cosa che posso dire è quella…sbarazzo il pensiero e posso pensare…il linguaggio a pensare a inventare a costruire…

C’è una questione in tutto ciò, lei si chiede a cosa serve tutto questo discorso che abbiamo costruito, quando qualcosa serve a qualche cos’altro, supponiamo che serva per vivere meglio, per risolvere i problemi, allora questa cosa serve a un’altra cosa, e cioè il linguaggio serve a qualche altra cosa, e questo è un problema. Il linguaggio non serve a qualche altra cosa “serve” tra virgolette, a se stesso. Nient’altro. D’altra parte il cosiddetto vivere male, per qualunque motivo sia, è comunque qualcosa che è possibile perché esiste il linguaggio, senza linguaggio non si vive né bene né male perché non si sa, e quindi questo discorso che costruisce una serie di storie e quindi di proposizioni che concludono in questo modo “quindi vivo male”. Ma in realtà anche questa non è che una affermazione fra le tante, che significa qualcosa in relazione a tutte le precedenti storie che il discorso ha costruito, poi se vogliamo andare ancora oltre: una persona afferma di vivere male per esempio, ma perché vive male? Generalmente perché suppone di avere subito qualche cosa che non gli piace, qualunque cosa sia, ma soprattutto di averla subito. E questo può essere complicato da intendere. In molti casi in effetti non si è subito assolutamente nulla, ma si è costruito, e allora ecco che, come diceva Beatrice, c’è l’opportunità di accorgersi e di agire anziché subire…

Intervento: in questo caso è utile per l’elaborazione perché è intendere l’agire il linguaggio e cioè si sta costruendo in questo senso dicevo poter accogliere qualsiasi direzione nel proprio discorso, rendendolo assolutamente mobile

Sì, la cosa più complicata è, per esempio, accorgersi che tutto ciò che esiste, esiste perché c’è il linguaggio, è il linguaggio che fornisce la nozione di esistenza con tutto ciò che questo comporta. Si può dire che qualunque cosa è un elemento linguistico, ma sono le implicazioni che sono notevoli, dire che se qualunque cosa è necessariamente un elemento linguistico, il senso che ha questa cosa, il significato lo trae dalla combinatoria in cui è inserito cioè da altre storie, non ce l’ha di per sé, di per sé qualunque cosa non significa assolutamente niente finché non è inserita all’interno di un gioco e quindi con delle regole che gli forniscono un senso, una direzione e tutto quanto, se no non è niente, non possiamo neanche dire che esiste, e quindi accorgersi che in effetti il proprio discorso costruisce delle cose e va in una direzione anziché in un’altra per un motivo, questo può avere dei risvolti clinici anche perché una volta che pone una questione deve costruire proposizioni tali per cui questa affermazione che ha fatta occorre che risulti vera. Così come fa ciascuno, cerca sempre di affermare qualcosa che ritiene essere vero, cercare fra le varie possibilità qual è quella vera e quindi scartare quella che è falsa ovviamente. Avete mai pensato all’eventualità che gli umani non facciano nient’altro che questo: cercare di stabilire che un pensiero, una storia, una qualunque cosa sia vera? Sia che si occupino di teoria, sia che facciano la spesa, sia che facciano una dichiarazione d’amore o qualunque altra cosa. In realtà questa considerazione segue a una domanda che è questa perché gli umani parlano? A che scopo? Per trasmettersi informazioni? Perché dovrebbero fare una cosa del genere? Non c’è nessun motivo particolare se non questa esigenza stranissima di affermare e quindi di comunicare per rendere la cosa più ufficiale, delle verità…

Intervento:…

Sì, quella che quella persona lungo il suo discorso ha stabilito che è la verità…

Intervento:…

Sì, ciò su cui ha costruito la sua esistenza, certo, le cose che ritiene essere vere costituiscono le premesse da cui muove per pensare qualunque cosa, e qualunque cosa penserà sarà pilotata da ciò che ritiene essere vero e quindi da questa cosa vera che funziona come premessa trarrà delle conclusioni che quindi saranno vincolate a quelle premesse. È ovvio che quelle premesse per quella persona sono vere, ma potrebbero non esserlo, immagina che siano delle verità assolute, ciò che l’altra volta indicavamo come la realtà, ciò che per la persona funziona come la realtà e questo ha delle conseguenze perché tutta la vita di una persona il più delle volte è pilotata proprio da queste premesse su cui costruisce il proprio discorso, quindi la propria vita, premesse che ritiene necessarie mentre sono assolutamente arbitrarie. Ora supponiamo che Francesca affermi che tutto ciò che io sto dicendo non è vero, facciamo questa ipotesi, che cosa sta dicendo esattamente Francesca in questo caso? Che quello che io affermo non è vero, quindi altro lo è, magari quello che dice lei, o altro ancora è vero. Se giunge a considerare che ciò che io affermo non è vero è perché sa, ritiene, che ci sia qualche altra cosa che lo è e non quello che sto dicendo io, ecco quindi che afferma “no, quello che lei dice non è vero” e cioè anche in questo caso ciò che si trova a dire va in quella direzione, nel senso di reperire qualcosa di vero, che nel caso dell’esempio non è quello che dico io ma un’altra cosa, ma quella sarà vera. Gli umani fanno questo da quando incominciano a parlare fino a quando cessano di farlo…

Intervento: se un essere umano invece di considerare la verità considera tutto quanto opinabile per cui il dubbio…

Sì, è stato fatto, è stato già fatto circa duemila anni fa dai cosiddetti scettici. Consideravano che la verità non potesse trovarsi e che pertanto qualunque cosa, come diremmo oggi, è relativa all’opinione, a ciò che si crede in quel momento, è una tesi che ha avuto un certo successo, come dire che la verità non può essere reperita, quindi non c’è. Ora se ci pensa bene, questa formulazione comporta dei problemi, perché per giungere a questa considerazione che afferma che non esiste la verità, per giungere dunque a questa conclusione è necessario compiere una serie di passaggi necessariamente, una elaborazione teorica in questo caso, ciascuno di questi passaggi è naturalmente coerente con quello precedente, se no sarebbe un discorso squinternato, di nessun senso, ora ciò a cui giunge viene accolto perché ritenuto vero in base alle considerazioni, alle premesse da cui si è partiti, nel caso contrario no, viene rifiutato come falso. Ma se non esiste una verità, quindi nessun parametro rispetto a cui confrontare un’affermazione, dire che la verità non esiste di per sé non è né vero né falso, è un’affermazione assolutamente gratuita e cioè inutilizzabile. È interessante l’analisi che hanno fatto gli scettici, soprattutto Pirrone e Sesto Empirico, nel mettere in luce molte contraddizioni, molte stupidaggini che venivano credute allora e anche oggi. Portare il pensiero alle estreme conseguenze comporta prendere in considerazione tutto ciò che è stato detto, pensato, affermato, negato, tutto, però non per abbracciare un’altra fede ma per interrogare…

Intervento: tutto ciò che è stato detto tutti i risultati sono dubbi

Sono dei giochi linguistici, il problema è che non possono pretendere di porsi come necessariamente veri perché sono arbitrari, possono anche essere divertenti, interessanti, e il percorso che ha condotto a quelle conclusioni anche notevole, cionondimeno risultano arbitrari, la conclusione cui giungono non è sostenibile, è questo che intendo quando dico arbitrario o gratuito, per distinguerlo da necessario, necessario è ciò che non può non essere. Portare le cose alle estreme conseguenze comporta anche avere degli strumenti per poterlo fare, uno dei motivi per cui la più parte delle persone ha abbandonato la ricerca della verità è l’impossibilità di trovare un criterio soddisfacente: quando abbiamo trovato qualcosa, come facciamo a sapere che è la verità? Ci vuole un criterio, un parametro con cui raffrontare le varie cose, ma se non c’è? È un problema, non la troveremo mai, da qui ci è venuto in mente un pensiero, che è questo: “se l’unica cosa che ci consente di pensare è quella struttura che chiamiamo linguaggio, allora sarà anche questa struttura a fornirci il criterio visto che non ce ne sono altri possibili, ché qualunque cosa io pensi comunque utilizzerò il linguaggio, e allora perché non utilizzare la struttura stessa del linguaggio come criterio?” Si potrebbe obiettare: il criterio si trova e sarà utile per una verità all’interno del linguaggio, ma totalmente inutile per qualunque altro tipo di verità, è vero! Però una verità che è fuori dal linguaggio non è in nessun modo provabile, e se qualcosa si propone come verità occorre quanto meno che sia provabile perché sia la verità, e per provarlo abbiamo bisogno del linguaggio, per cui possiamo anche pensare che esiste una verità fuori dal linguaggio ma allo stesso modo in cui possiamo pensare che esistano i marziani, che esista un dio da qualche parte, possiamo pensare qualunque cosa ovviamente, altro invece è provare ciò che si afferma. Lei crede in dio?

Intervento: no

Non è necessario, saprebbe provare l’esistenza di dio? È un buon esercizio, è un esercizio retorico soprattutto, lo abbiamo fatto tante volte, un po’ per gioco, lo possiamo fare perché vede, nella teologia dio è considerato un assoluto, un assoluto e quindi senza limiti, però occorre che sia pensabile e gli umani in effetti lo possono pensare, ora lei può pensare l’assoluto, in ogni caso lo può pensare sia che risponda di sì o di no, anche se risponde di no questa sua risposta in ogni caso determina il fatto che ci abbia pensato e sia giunta a considerare che non è, che non è pensabile, ma ci ha pensato e quindi l’assoluto è pensabile ma non è comprensibile. Sono i due pilastri su cui si fonda la teologia, non è comprensibile in quanto essendo assoluto per definizione è senza soluzione, assoluto vuol dire questo: senza soluzione, e quindi non potrà mai essere completamente compreso…

Intervento:…

Non si precipiti a trarre conclusioni, in questo modo abbiamo provato che qualcosa è pensabile, l’assoluto, perché lo stiamo pensando, ma anche che non è comprensibile perché, per definizione, abbiamo stabilito che l’assoluto non è comprensibile cioè non è finito, è infinito, e quindi è assoluto ma anche incomprensibile perché l’infinito non posso per definizione racchiuderlo. Detto questo avremmo provato l’esistenza di dio e cioè di qualche cosa che, abbiamo detto, è assoluto ma non è comprensibile, ma in realtà che cosa abbiamo fatto esattamente? Abbiamo costruite delle stringhe di proposizioni, nient’altro che questo. È questo che ciascuno può considerare ciascuna volta che riflette, che pensa, che fa qualunque cosa, che ciò che sta facendo sono stringhe di proposizioni, anche se non gli sembra che sia così, non gli sembra che sia così perché è stato addestrato a pensare in quell’altro modo e cioè che le cose esistono, che c’è la realtà, insomma ha acquisito tutta una serie di cose che costituiscono quelle premesse di cui dicevamo prima e alle quali la persona non rinuncia perché costituiscono appunto il suo fondamento, ciò di cui vive potremmo dire, e pertanto non le abbandona facilmente. Però c’è sempre l’eventualità che accada, e che quindi incominci a pensare, in fondo pensare non è altro che interrogare le cose, interrogarle ma in modo radicale, cominciando a chiedersi che cos’è una domanda? E che cos’è una risposta e a quali condizioni io accoglierò qualcosa come una risposta, la domanda è legittima: io mi chiedo una certa cosa e poi mi darò una risposta, perché ho accolto quella risposta, in base a che cosa? E perché ho scartato le altre? C’è un motivo oppure no? Se sì, quale? Inincominciare a pensare comporta anche porsi queste domande, per evitare di trovarsi a pensare in modo ingenuo e accogliere qualunque risposta…

Intervento: da una parte c’è una certa ingenuità quando si accoglie una risposta… quando invece uno crea una specie di scudo perché interroga su delle cose, fa la dietrologia…

Temo di non aver inteso bene cioè lei dice: che uno si pone delle domande e poi va a ritroso all’infinito? Sì, è una via che è nota ovviamente, ma che viene scartata. Per esempio Tommaso, santo per alcuni, l’aveva scartata nelle sue famose cinque vie, questa eventualità e cioè il fatto di tornate all’indietro all’infinto: uno si chiede il perché delle cose e poi il perché della risposta e poi il perché di questa e può andare indietro all’infinito ovviamente, e già lui diceva: non possiamo andare all’indietro all’infinito, dobbiamo fermarci ad un certo punto. È vero, non ha nessun interesse andare indietro all’infinito, anche perché è una via che non porta da nessuna parte, a un certo punto si arriva al linguaggio e una volta che è arrivato lì si chiede cosa c’è prima del linguaggio lì si blocca, perché non ha più gli strumenti per andare avanti, però occorre sapere che qualunque punto che verrà utilizzato per fermarsi sarà comunque arbitrario, l’avrò deciso io, non corrisponde alla realtà delle cose, io decido di fermarmi lì e va bene, non c’è niente di male, però è una mia decisione, mentre il più delle volte non passa come una propria decisione ma come una necessità esterna: le cose stanno così e quindi dobbiamo adattarci alla realtà delle cose, e questo vale per qualunque questione, qualunque affermazione, quando dico che è arbitraria non lo dico in senso spregiativo, dico soltanto che essendo arbitraria è una decisione, cioè io accolgo questo e mi assumo la responsabilità, non sono costretto dalle circostanze esterne, è una mia decisione, in alcuni casi la cosa è molto semplice: mangio un cioccolatino oppure no? Sì lo mangio e si accoglie il fatto che è stata una decisione senza alcun problema, in altri casi meno, si è più indotto a pensare che la decisione presa è stata determinata da circostanze esterne e non dalla volontà. Qualunque cosa si decida, anche di vivere o di morire, comunque è una decisione. Ho detto questo come caso estremo: “uno mi minaccia con la rivoltella e io perché non mi uccida faccio quello che mi dice di fare, anche questa è una decisione, come dire che io ho deciso che preferisco vivere e pertanto mi comporto di conseguenza. È una questione importante la responsabilità, direi che è fondamentale incominciare ad accogliere la responsabilità di ciò che si afferma, incominciare a pensare che non è che le cose stanno così, ma a me piace pensare che stiano così, che è diverso, le cose non stanno né così né cosà, stanno in quanto inserite all’interno di un gioco che sto facendo, sia che me ne accorga oppure no, ma di questo gioco sono responsabile. Dio è stato inventato anche per questo, per sbarazzare della responsabilità “deus vult”, dio lo vuole dicevano una volta i nostri crociati, prima di andare a massacrare gli arabi: dio lo vuole! Adesso ci restituiscono la cortesia dicendo la stessa cosa: dio lo vuole…

Intervento: è possibile vivere senza religione?

Sì, io lo faccio da moltissimi anni per esempio…

Intervento: uno non ha una propria religione?

Perché dovrebbe credere in qualcosa? Non è necessario, lei non ci crede se sa che è una cosa arbitraria, gratuita, perché ha deciso così in base a un criterio estetico, come dire che le piace così e quindi ha deciso così, perché non c’è nessuna necessità. A quel punto non ha bisogno di credere e soprattutto cessa di credere quando è in condizioni di dimostrare lei stessa che questa cosa che vorrebbe credere è vera oppure se lo preferisce dimostrare con altrettante ottime argomentazioni che è falsa, se lei sa fare questo sarà difficile che creda in qualcosa e soprattutto in qualcosa che le dicono: le dicono una certa cosa con argomentazioni che inducono a credere che sia vera, ma se lei più brava di loro sa non soltanto dimostrare che è falsa, ma anche che è vera e magari anche meglio di loro. A questo punto la pone come una credenza: io opino e penso che sia così, va bene, penso che sia vero questo, va bene, domani penserò il contrario, ma non è necessario, questo volevo dirvi e lei sembrava porre la questione che qualcuno si trovi a credere qualcosa come quasi inevitabile. È vero che è straordinariamente diffusa la religione, ma questo non la rende necessaria…

Intervento:…

Certo, anche questo rientra in ciò che dicevo prima: la decisione di credere qualcosa oppure no, non a caso ogni religione richiede un atto di fede perché non sa, né può, dimostrare che è vero quello che afferma e quindi si appella alla fede, come dire “io non so dirti perché è così, credici e basta” e la più parte delle persone ci credono…

Intervento: perché ci sono questi paraocchi?

Se c’è religione è perché è funzionale a qualcosa, intanto è una questione di responsabilità, cioè si sobbarca la responsabilità in cambio ovviamente dell’obbedienza, e poi propone una verità. Se non c’è una teoria sufficientemente forte quanto questa, la ricerca della verità è destinata a fallire perché non si troverà mai un criterio per stabilirla, e quindi gli umani sono in balia dell’impossibilità di stabilire qualcosa con assoluta certezza mentre ne sono alla ricerca, continuamente e da sempre, da quando c’è traccia degli umani, la religione fornisce una sorta di escamotage: non è possibile dimostrarlo, però è come se noi sapessimo che è così…

Intervento:…

Infatti è difficile governare senza religione, come si sa, da sempre. Se no chi li tiene buoni i cittadini? Si agitano e soprattutto come si fa a fare credere loro che il re è necessario? Che l’imperatore è necessario? Che lo stato è necessario? L’autorità ha bisogno della fede, perché non è provabile, non si può dimostrare che il re deve essere tale. Me lo dice dio, possiamo noi miseri mortali opporci alla volontà di dio? La risposta che ci si attende è no, naturalmente, se qualcuno incominciasse a dire di sì sarebbe un problema. Certo tutta una serie di cose di cui vivono gli umani vengono messe in discussione e, mano a mano, demolite, cioè ci si accorge che sono sostenute su niente, su superstizioni, la religione è una di queste, ma non solo a partire dalla nobile menzogna di Platone, il quale diceva che se uno è figlio del ciabattino dovrà continuare a fare il ciabattino, non potrà mirare alle più alte cariche. Una nobile menzogna, lui stesso sa benissimo che è una balla colossale, però serve a mantenere l’ordine sociale, di questo vivono gli umani Francesca. Di un continuo inganno perpetrato loro e perpetrato da loro a loro stessi. Noi stiamo valutando, considerando l’eventualità di cessare di essere ingannati, almeno questo, è un aspetto, non è solo questo ma anche questo. Potrebbe essere la nozione di realtà qualcosa di simile alla nobile menzogna? È una possibilità, in fondo la realtà non è altro che il vero, ciò che è reale è vero per definizione, e qualunque argomentazione o discorso che è messo nella mala parata si appella alla realtà, la realtà delle cose è questa, non puoi negarla, come il dio di prima, non puoi metterti contro di lui e la realtà sembra funzionare allo stesso modo, mentre la realtà, la così detta realtà, potrebbe essere nient’altro che un gioco fra i tanti, un gioco linguistico che ciascuno gioca, la differenza sta nel sapere che è un gioco o invece nell’immaginare che sia qualcosa di assoluto, di necessario che gioco non è, e pertanto è costrittivo. Spesso le metafore che riguardano la realtà hanno a che fare con questo, con la costrizione, con la durezza, con qualcosa di terribile, ci si scontra con la realtà come se fosse un muro…

Intervento: è dura la realtà

Gia, e se fosse una nobile menzogna la realtà? È possibile, in fondo è un asso nella manica, costituisce sempre la possibilità di richiamare chiunque all’ordine, basta mostrare un certo aspetto della realtà “la realtà è questa” e quindi ti devi uniformare, conformare alla realtà che è questa. C’è qualcosa di terroristico in tutto ciò, per il fondamentalista islamico la realtà è quella che ha stabilito Allah per esempio, non per questo è meno potente, ma anche quello è un gioco, così come stanno facendo un gioco quelli che cercano di eliminare i fondamentalisti islamici, certo ci sono interessi economici, interessi petroliferi. È una questione di potere ma diventa un gioco dove occorre vincere, è come una partita a poker con gli amici, dove l’importante è vincere perché questo vincere fa parte del gioco, se no non si gioca. È il giocare che è fondamentale, è così come giocano i fondamentalista islamici giocano le “sette sorelle”, sa chi sono? Le sette più grosse compagnie petrolifere note come le sette sorelle. Dunque dei giochi, anche i giochi di potere hanno questo termine, non a caso sono giochi, come i bambini che giocano a vedere chi vince, così allo stesso modo la guerra è un gioco, e le regole del gioco talvolta sono ferree, è come la roulette russa, anche quella è un gioco. Delle regole ferree dunque, però anche per questo così affascinanti per gli umani, proprio perché hanno delle regole ferree che limitano la possibilità di movimento e quindi rendono il gioco più appassionante, e soprattutto diventa più appassionante mano a mano che si alza la posta in gioco, e la propria vita è considerata il massimo bene e quindi la massima posta in gioco, per questo i ragazzi da sempre, da quando esistono gli umani rischiano la vita, partono felici per fare la guerra e questo dai tempi di Sparta e anche prima, perché giocano al gioco che ha la posta più alta, la loro vita, quindi è quello che dà le emozioni più forti…

Intervento: ecco portata la questione all’osso così come lei ha iniziato… questo gioco di potenza l’abbiamo ricondotta la da dove viene e quindi al linguaggio per cui il linguaggio non può far altro che costruire proposizioni

È ciò che dicevamo all’inizio del funzionamento del linguaggio: giungere alla proposizione vera…

Intervento: è chiaro che gli umani con i giochi di potenza almeno da quando Platone che ha stabilito la nobile menzogna, gli umani dicevo si sono sempre interrogati lei l’altra volta parlava di Adler e di cosa diceva di questa “pulsione di potenza” pareva naturale gli uomini sono fatti così come gli animali… forse qualcuno anche ha parlato di animalità dell’uomo che deve continuare a sopraffare l’altro uomo, d’altra parte la nobile menzogna di Platone è un inno al razzismo più…

Sì, perché se ci si pensa bene, anche questo modo di dire “avere ragione dell’altro” ci riconduce alla questione “io ho ragione e tu no”, quindi io ho potere, e ciascuno la ragione può cercarla nella dialettica, oppure nell’arte militare o nell’economia, oppure nella politica, comunque si tratta sempre di avere ragione e chi vince è quello che ha ragione e cioè è come se avesse trovato lui l’ultima proposizione, quella vera, quella che chiude il gioco e quindi è come dico io. Come diceva giustamente Beatrice è il linguaggio che costringe a fare una cosa del genere…

Intervento: ecco però prima si parlava anche del discorso religioso che ha bisogno di continuare la regressio ad infinitum e quindi di riprendere delle questioni di scoprirne la causa, di girare in tondo, di rimordersi la coda quindi di parlare all’infinito, il fatto di portare la questione alla necessità a ciò che non si può negare, toglie le grandi sensazioni, le grandi emozioni per cui il discorso dell’uomo che ammazza l’altro uomo è qualcosa che pare connaturato al discorso occidentale per cui occorre crederci

Uno dei modi più definitivi per avere ragione sull’altro è eliminarlo, una volta che non c’è più ho ragione io…

Intervento: quando parliamo di arbitrarietà parliamo proprio di questo sono delle proposizioni, sono delle storie che il discorso occidentale ha individuato per continuare a parlare, il pensiero che non ci siano più queste storie comporta “adesso che cosa dico?” se non posso più utilizzare queste storie quali sono le questioni che mi danno da dire, da fare tutto sommato gli umani sono abituati a utilizzare queste cose e quindi è ovvio che al momento in cui poni la questione in modo assolutamente semplice, non negabile come dire “puoi dire tutto quello che vuoi ma l’unica cosa che non puoi negare è questa che sono stringhe di proposizioni quelle che fanno girare la realtà, questo gioco per cui ciascuno si trova a parlare della realtà e in effetti crede che questa realtà sia la realtà dell’altro, cosa assolutamente squinternata. In campo clinico dove le paure sono necessarie per mantenere questo modo di pensare per cui si continua a utilizzare l’identificazione credendo che gli altri siano come me, per cui mi ritrovo ad affibbiare all’altro quelle che sono le mie storie, i miei pensieri quello che produce una struttura che è quella “mia” che mi serve per individuarmi ma che con altri non ha nulla a che fare se non che anche lui può utilizzare dei luoghi che possono avere degli esiti differenti, quindi delle produzioni differenti però tuttavia ciascuno quando parla di realtà la estende all’altro

E non può non farlo in genere, ché è il modo in cui pensa e siccome lui pensa così immagina che tutti quanti pensino così, almeno quelli che ragionano, se pensa cosà è perché non ragiona, e allora bisogna ricondurlo alla ragione, l’altra volta Francesca diceva che la paura fa andare avanti, fa andare avanti moltissimo e anche soprattutto le case cinematografiche che sulla paura ci guadagnano tantissimo, si è mai chiesta perché una persona va a vedere un film che gli fa paura, oppure piangere? In quel caso la paura è cercata, e negli altri casi? Se lei va a vedere un film che fa paura in questo caso potremmo dire che lei va cercarla la paura, e negli altri casi invece? Cosa potremmo dire? Che la cerca oppure no? Però forse la questione è più complessa, per esempio in moltissimi casi una persona si è costruita da sé una paura che invece chi parla con lui non trova affatto essere una cosa che faccia paura, allora in questo caso è il suo discorso che l’ha costruita questa paura, e secondo lei perché il suo discorso ha fatto una cosa del genere? A che scopo?

Intervento:…

Ma perché conservarlo visto che, come lei dice giustamente si fugge…

Intervento:…

Funziona come certezza? Beh, anche in alcuni casi sì e in altri invece è come se la si cercasse anche senza andare al cinema. In effetti la paura è una delle emozioni più forti e anche più facilmente reperibili, in fondo se ci pensa bene, motivi per avere paura ne trova sempre quanti ne vuole, per essere felici magari meno, ma per avere paura basta che apra un giornale: attentati, rapine omicidi, catastrofi di ogni sorta, se vuole avere paura non ha che l’imbarazzo della scelta, e se in alcuni casi la costruisse proprio per provare emozioni? Proprio esattamente allo stesso modo in cui dicevamo prima la va a cercare al cinema? Come se la persona dicesse: adesso prendo l’aereo, sull’aereo sicuramente ci saranno dei terroristi palestinesi, questi terroristi prenderanno l’aereo e si scaraventeranno contro la Mole Antonelliana e quindi è spaventatissima…

Intervento: ma allo stesso tempo anche eccitata

Bravissima, proprio così, ha detto bene, già si è fatto il film, il film che fa paura e se lo gode, e non ha neanche tutti i torti perché è una possibilità, anche remota, uno può avere paura che un asteroide colpisca con estrema violenza il pianeta e lo spacchi in due, è una possibilità, ma come dicevamo anche la propria morte per i più appare una certezza per cui se uno vuole avere paura non ha neanche bisogno di andare tanto lontano, sa che morirà, può utilizzare quello, così come talvolta si utilizzano le cose più bizzarre e talvolta è proprio così evidente che è la costruzione di un film, con personaggi, la scenografia, tutto quanto, e ogni tanto se lo proietta e si eccita come giustamente ha detto Francesca. Poi il film lo costruisce come più gli aggrada e con gli strumenti che ha, per esempio uno che vive in un paesino sperduto dell’Africa e non ha nessuna nozione di fisica magari non gli verrà mai in mente che un asteroide possa colpire il pianeta, perché non è a conoscenza di questa eventualità, avrà altre paure, che arrivi il leone per esempio, tutte cose possibili, magari remote ma possibili, ché la possibilità ha bisogno di muovere da qualcosa di concreto…

Intervento: se in quel paesino non fosse stata costruita la paura?

È un po’ più complicata di come lei la pone…

Intervento: se però in questo paesino di cannibali ci va un missionario interpreterà attraverso il suo mondo…

Al di là della paura si può considerare un’altra emozione, quella dell’amore, o dell’abbandono. Una persona va a vedere un film e piange tutto il tempo, perché piange? In questo caso per una scena di abbandono, che non dovrebbe essere così attraente in realtà, però la va a cercare e magari la persona o altre creano situazioni in cui viene sempre e comunque abbandonata da qualcuno che ama tantissimo, magari non è sempre del tutto casuale, c’è questa eventualità che anche in quel caso per costruire questa scena di abbandono faccia tutta una serie di operazioni che portano poi all’abbandono e quindi a un dolore tremendo e quindi, come dice giustamente Francesca: una grandissima eccitazione. Sono questioni che meritano di essere considerate. Va bene ci fermiamo qui per oggi, continueremo martedì, preparatevi delle questioni, delle domande.