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6 giugno 2018

 

Concetti fondamentali della metafisica di M. Heidegger

 

Siamo a pag. 110, § 21. Interpretazione della noia a partire da ciò che è noioso. Ciò che è noioso come ciò che-tiene-in-sospeso e che-lascia-vuoti. Problematicità dei tre schemi interpretativi consueti: il rapporto di causa-effetto, l’intrapsichico, la trasmissione. Vi ricordate che il suo obiettivo era quello di intendere meglio come funziona la noia, perché secondo lui a partire dalla noia, da questo stato d’animo, è possibile affrontare la questione della metafisica in termini radicali e autentici. Secondo lui la noia non è qualcosa da togliere ma da perseguire. Noia: - se mettiamo insieme quanto è stato svolto finora, risulta che abbiamo già detto svariate cose su di essa, eppure ne siamo certi: non l’abbiamo ancora compresa in quanto stato d’animo. Sappiamo già, e non vogliamo dimenticarlo ora, che non si tratta soltanto di interpretare questo o quello stato d’animo, bensì che, in definitiva, la comprensione dello stato d’animo richiede da noi un mutamento della concezione fondamentale dell’uomo. Questo è interessante, perché sta dicendo che se noi riusciamo a intendere l’essenza dello stato d’animo, allora noi comprendiamo l’uomo perché l’uomo è fatto di uno stato d’animo. Questa è una cosa relativamente nuova in Heidegger: tenere conto che l’uomo, l’esser-ci, non è disgiungibile dallo stato d’animo in cui si trova in quel momento; l’esser-ci e lo stato d’animo sono un po’ la stessa cosa. Proprio lo stato d’animo, compreso in modo corretto, è quanto ci dà la possibilità di cogliere l’esser-ci dell’uomo in quanto tale. Più chiaro di così. Soltanto se riusciamo bene a intendere che cos’è lo stato d’animo riusciamo a capire che cos’è l’esser-ci. Gli stati d’animo non sono una classe di esperienze vissute tali da lasciare immutato l’ambito stesso delle loro esperienze vissute e del loro ordinamento. Non sono qualcosa che si appiccica di volta in volta lasciando stare il resto. No, ogni volta che interviene uno stato d’animo cambia tutto. Così, all’inizio, non prendiamo, intenzionalmente, le mosse dalla noia, già per il solo fatto che ciò assomiglierebbe troppo a un voler sottoporre ad analisi un’esperienza vissuta presente nella nostra coscienza. Sta dicendo: non facciamo della noia un oggetto metafisico, un oggetto da osservare. Non prendiamo le mosse propriamente dalla noia, bensì dalla noiosità. In senso formale la noiosità è ciò che rende qualcosa noioso, annoiante. Qualcosa di noioso – una cosa, un libro, uno spettacolo, una cerimonia, ma anche una persona, una compagnia, ma altresì un ambiente o una regione – queste cose noiose non sono la noia stessa. O forse persino la noia può essere noiosa? Lasciamo aperte tali questioni… Ciò che è noioso, lo riconosciamo perché, nella sua noiosità e grazie ad essa, causa in noi la noia. … Risultai quindi già molteplici aspetti: 1. ciò che è noioso nella sua noiosità; 2. Il venir annoiati da tale cosa noiosa e l’annoiarsi di una tale cosa; 3. La noia stessa. Sono tre momenti che con-appartengono? Oppure soltanto il primo e il secondo? Oppure si tratta di un solo aspetto visto da punti di vista diversi? A pag. 113. Tutte le proprietà di tal genere: noioso, allegro, triste (evento), divertente (gioco) – queste proprietà legate agli stati d’animo sono riferite al soggetto in un senso particolare; non solo hanno origine direttamente dal soggetto e dalle sue condizioni. Noi trasmettiamo poi alle cose stesse gli stati d’animo che le cose causano in noi. Per questo fatto esiste fin dalla Poetica di Aristotele l’espressione “metafora” (μεταφορά). Già Aristotele, nell’opera citata, ha visto che nel linguaggio e nella raffigurazione poetica vi sono affermazioni e formulazioni determinate nelle quali trasmettiamo (μεταφέρειν) da noi stessi alle cose questi stati d’animo che a loro volta le cose causano in noi: tristezza, allegria, noiosità. Che il linguaggio dei poeti e i modi di dire quotidiani siano permeati da tali metafore, lo abbiamo imparato a scuola. Parliamo di un “prato ridente”, e non intendiamo dire che il prato stesso rida, di una “stanza allegra”, di un “paesaggio melanconico”. Non è però il paesaggio stesso a essere malinconico, ma semplicemente ci dispone in tal modo, causa in noi questo stato d’animo. A pag. 166. Eppure definiamo quel libro noioso, e ciò senza dire qualcosa di falso o magari mentire. Lo definiamo senz’altro in tal modo perché non lo intendiamo “noioso” come sinonimo di qualcosa che produce noia. Prendiamo senz’altro “noioso” nel senso di pesante, squallido, il che non vuol dire indifferente. Infatti, se una cosa è pesante o squallida vuol dire che non ci ha lasciati del tutto indifferenti, anzi, al contrario: nella lettura siamo ben presenti, introdotti ma non coinvolti. Pesante significa: non avvincente; vi siamo immessi ma non coinvolti, bensì come sospesi. Squallido significa: non ci colma, siamo lasciati-vuoti. È ovvio che qui Heidegger definisce questi termini come meglio gli conviene; non è che lo squallore sia necessariamente quello, ma a lui serve dire che è quello. Questo è da tenere sempre presente. Se vediamo questi momenti nella loro unità, abbiamo forse ottenuto un primo risultato, o comunque – in termini più prudenti – ci muoviamo nelle vicinanze di una interpretazione autentica: ciò che annoia, che è noioso, è ciò che tiene-in-sospeso e tuttavia lascia-vuoti. Il fatto è che per potere affermare questo ha dovuto fornire a quei termini – pesante e squallido – una definizione che è quella che lui ha voluto. Siamo a pag. 118, § 22. Volevamo trattare della noiosità di ciò che è noioso, e non esplicitamente della noia: eppur adesso vi siamo stati condotti. Ricordate ciò che diceva prima: non prendiamo la noia come un oggetto osservabile ma aggiriamola partendo dalla sensazione di noiosità. Vediamo certo, che ciò che è noioso, è connesso con il venir-annoiati e con l’annoiarsi. Ma vediamo altrettanto chiaramente che, se ora trattiamo del venir-annoiati e dell’annoiarsi, non possiamo più trattarne come di una condizione soggettiva che si presenta in un soggetto, e dobbiamo invece, fin dall’inizio e in linea di principio, prender in considerazione proprio ciò che è noioso – la cosa di volta in volta così determinata. Cosa ci dice tutto ciò? Non possiamo affatto caratterizzare ciò che è noioso in quanto tale fino a che non avremo visto chiaramente che cosa esso sia, cioè qualcosa che ci dispone in un modo oppure nell’altro. Ciò vuol dire che ci troviamo di fronte a una questione essenziale: cosa significa disporre? Qualcosa ci dispone alla noia, ma che cosa vuol dire che ci dispone? Abbiamo dunque trovato tale questione – un problema possibile e ineludibile, assai più essenziale di qualunque spiegazione, in apparenza chiara ed evidente, del problematico carattere “noioso”. A pag. 119. Se analizziamo ora il venir-annoiati e l’annoiarsi, serve a poco dire: annoiarsi è annoiarsi in… e di… Soprattutto, se procediamo così, non serve comprendere ciò che annoia come un oggetto al quale ci riferiamo, seppur naturalmente in modo diverso rispetto al conoscere e al volere. Non ci serve comprendere ciò che ci annoia come se fosse un oggetto al quale ci riferiamo; lui vuole intendere il problema nella sua totalità. Il problema consiste infatti in questo esser-riferito, in questo suo carattere fondamentale. In termini generali: questo determinare disponendo va concepito come un disporci in un modo o oppure nell’altro, e tale esser-disposti come il modo fondamentale del nostro esser-ci. Qui aggiunge una cosa all’esser-ci. L’esser-ci come l’esser disposti in un certo modo. Che è poi la stessa cosa che parlare di stato d’animo, solo che fa un passo indietro e vuole capire bene che cosa significa esser disposti. Però, sottolinea ancora che l’esser-ci è queste cose qui, non c’è un esser-ci che non sia in qualche modo disposto verso qualche cosa, per esempio verso un utilizzabile: c’è una disposizione comunque verso un utilizzabile, cioè uno stato d’animo. E per porre ancora una questione concreta: quando amiamo qualcosa, una cosa o magari una persona, l’essere da noi amato è solo la causa che compare da qualche parte di una condizione che in realtà si manifesta in noi, e che noi trasmettiamo all’essere che diciamo di amare? Naturalmente no, si dirà: l’essere da noi amato è l’oggetto del nostro amore. Ma cosa significa qui “oggetto”? qualcosa in cui il nostro amore si imbatte e al quale rimane attaccato? Oppure tutto ciò non solo è espresso in termini esteriori, ma anche completamente insensato? Non è forse vero che nel sentimento d’amore non ci imbattiamo affatto in un oggetto e tuttavia amiamo qualcosa? Questo vuole essere solamente un richiamo al fatto che tralasciando il rapporto causa-effetto, dal punto di vista positivo, non abbiamo fatto un solo passo in avanti, e che anzi il problema si è reso più acuto. Tutto questo per dire che siamo ancora lontani dall’affrontare il problema ma che, anzi, ci si è complicato tra le mani. Ma stiamo ben attenti. Non soltanto a non trascurare, nel far ciò, la cosa stessa che è noiosa e che annoia, bensì anche al fatto che questo venir-annoiati e annoiarsi non è una mera condizione che sopraggiunge e che, in qualche modo, sottoponiamo all’analisi come un preparato chimico. È un po’ quello che diceva prima: questa cosa che ci accade, la noia, non possiamo considerarla come un oggetto metafisico. Ma in quale altro modo allora? Dobbiamo pur metterci in rapporto con tale condizione, se vogliamo fare delle affermazioni su di essa. Qual è quello adeguato? Certo, vale la regola generale di porre un oggetto sotto le migliori condizioni di osservabilità. Tale regola vale nelle scienze. Dunque anche in filosofia. No, viceversa: tale regola non vale per noi, perché vale nelle scienze, ma vale nelle scienze perché si fonda su una connessione essenziale, originaria. Secondo quest’ultima il contenuto essenziale e il modo di essere di un ente prescrivono la manifestatività possibile che gli è relativa (verità). Secondo la scienza il contenuto essenziale e il modo di essere di un ente ne definiscono la sua verità. Per esempio, io voglio analizzare quell’aggeggio, quali sono le sue proprietà, il peso, ecc., e a questo punto so qual è il modo di essere di questo ente e conosco la verità di quell’ente. Le diverse regioni dell’ente e le singole cose sono assegnate, a seconda del loro contenuto essenziale e del loro modo di essere, a un determinato modo di verità, di non-velatezza. Questa apertura, che è propria di ogni ente in conformità al suo contenuto essenziale e alla sua maniera di essere, indica a sua volta le maniere di accesso adeguate, di volta in volta determinate e possibili, all’ente stesso che deve venir colto. Tutto questo per dire che ciò che fa la filosofia, la metafisica, non è ciò che fa la scienza, ma tuttavia ciò che fa la scienza ha come condizione la metafisica, la filosofia. Noi però non vogliamo osservare la noia. Così come osserviamo un procedimento chimico. Forse ciò è del tutto impossibile. Tuttavia vogliamo apprendere qualcosa sulla noia, sulla sua essenza, sul modo in cui dispiega la sua essenza. È possibile farlo in altro modo, se non ponendoci nello stato d’animo della noia, per poi osservarla, oppure immaginando una noia, e chiedendoci poi che cosa le sia proprio? Dice che per intendere qualcosa di più della noia occorre che ci troviamo in questa condizione. Che è un po’ il concetto fondamentale della fenomenologia: partire dal fenomeno, dalla cosa stessa. Partire dalla noia non vuole dire prendere il concetto astratto di noia ma provare la noia, cioè, trovarsi nella noia, per poi incominciare a pensare a ciò che sta succedendo. A pag. 121. Heidegger dice che quando proviamo la noia facciamo di tutto per scacciarla e, quindi, scacciandola non la proviamo più. Invece, per provarla occorre sospendere questo scaccia-noia. Ciò accade là dove ci procuriamo contro la noia un passatempo, dove con tale intenzione, di volta in volta in un modo oppure in un altro, scacciamo il tempo. Proprio là dove noi ci opponiamo alla noia, proprio là essa deve volersi affermare, ed è proprio là dove si manifesta innanzi a noi, che ci sospinge verso la sua essenza. Così proprio nello scacciatempo raggiungiamo il giusto atteggiamento nel quale la noia ci viene incontro priva di travestimenti. Non possiamo dunque rendere la noia oggetto dell’osservazione come una condizione che si presenta per sé, bensì dobbiamo prenderla come noi ci imbattiamo in essa, cioè, quando cerchiamo di scacciarla. Ecco, questo, secondo Heidegger, è il momento preciso in cui occorre trovarsi per intendere qualche cosa della noia: quando la vogliamo scacciare. Si tratta di incominciare a pensare a che cosa succede in quel momento. A pag. 122. Ora soltanto vediamo il punto decisivo di tutte le nostre riflessioni metodiche. Non dobbiamo fare di una regione di esperienze vissute un minestrone per immetterci in un plesso di connessioni coscienziali. Cioè, mettere la noia al pari di qualunque altra cosa. Quello che dobbiamo evitare, è proprio di perderci in una sfera particolare, messa insieme artificiosamente o imposta da direzioni visive tradizionali stabilmente consolidate… Per esempio, tutto lo psicologismo che è diventato luogo comune. Quindi, senza sapere, pensiamo a tutte queste cose in modo psicologistico, come se fossero un fenomeno della coscienza, come se fosse, come diceva lui prima, un qualcosa che ci casca addosso, cogliendo la noia come un oggetto metafisico, un qualcosa che deve essere osservato. …invece di mantenere e tenere come punto fermo l’immediatezza dell’esser-ci quotidiano. Ciò che dobbiamo mantenere fermo è ciò che siamo in questo momento e il perché lo siamo; in definitiva, l’esser-ci, la storicità, cioè, il fatto di trovarmi preso in un progetto determinato da una Stimmung, un particolare stato d’animo. Ma poiché siamo compenetrati da tali teorie, spesso persino nel modo di intendere più elementare e nella spiegazione del significato dei vocaboli, far crescere in noi questa libertà è certamente molto più difficile che dare fondamento in noi a diverse teorie e imprimercele nella mente. Siamo talmente presi da queste teorie che ormai fanno parte del pensare comune - la naturalità delle cose - che perdiamo di vista quello che siamo in questo momento, quello che stiamo facendo, quello che sentiamo. È a partire da qui che dobbiamo comprendere l’apparente prolissità con la quale tentiamo di avvicinarci a un fenomeno così banale come quello della noia. Questo avvicinarsi ha il significato dello scostarsi da tutti i modi di vedere che si presentano innanzi a noi. Tutti quei modi di vedere che ci fanno pensare alla noia come a un qualche cosa, come a un oggetto che deve essere considerato, elaborato, manipolato, ecc. A pag. 123. Nel venire annoiati da qualcosa siamo inchiodati a ciò che è noioso, non lo lasciamo andare o vi siamo per qualche motivo costretti, vincolati, anche se in precedenza ci siamo spontaneamente affidati ad esso. Invece nell’annoiarsi di… si è già compiuto un certo distacco dalla cosa noiosa. Ciò che è noioso sussiste, certo, ma noi siamo annoiati senza che esso ci annoi in modo particolare ed esplicito; siamo annoiati – quasi che la noia provenisse da noi, e continuasse a tessere le sue trame senza bisogno di venir causata da ciò che è noioso, e di essere vincolata ad esso. Nel venir-annoiati da questo libro siamo ancora concentrati sulla cosa in questione e proprio su di essa. Nell’annoiarsi di… la noia non è più inchiodata a…, inizia già ad espandersi. Sta descrivendo cosa avviene quando uno si annoia. Non proviene più da questa determinata cosa noiosa, bensì si irradia diffondendosi sopra le altre cose. Essa, la noia stessa, dà ora al nostro esser-ci un orizzonte singolare al di là della cosa noiosa specifica. Non è in relazione unicamente con la cosa determinata che annoia, bensì si posa su più cose, su cose diverse: tutto diventa noioso. Quando uno si annoia di qualche cosa, questa noia, talvolta, tende ad espandersi, non è più la cosa che annoia ma tutto diventa noioso. Siamo a pag. 123, § 23, dove fa un esempio di scacciatempo. Ci troviamo, per esempio, in una insulsa stazione di una sperduta ferrovia secondaria. Il primo treno arriverà tra quattro ore. La zona è priva di attrattive. È vero, abbiamo un libro nello zaino – dunque leggere? No. Oppure riflettere su una questione, su un problema? Non va. Leggiamo gli orari oppure studiamo l’elenco delle varie distanze di questa stazione da altri luoghi che non ci sono noti altrimenti. Guardiamo l’orologio – è appena passato un quarto d’ora. Andiamo fuori, sulla strada maestra. Camminiamo su e giù, tanto per fare qualcosa. Ma non serve a niente. Contiamo gli alberi lungo la strada maestra, guardiamo nuovamente l’orologio: appena cinque minuti da quando l’abbiamo consultato. Stufi di andare su e giù, ci sediamo su una pietra, tracciamo ogni sorta di figure sulla sabbia, e ci sorprendiamo nuovamente a guardare l’orologio; è passata una mezz’ora; e così di seguito. Una situazione quotidiana, con le ben note, banali ma del tutto spontanee, forme di scacciatempo. In questo caso, dice Lo scacciatempo un cacciar via la noia spronando il tempo. Metter fretta al tempo perché passi più rapidamente. Cosa cerchiamo di mettere in fuga, volendo far scorrere il tempo – cioè: che cos’è il tempo? Nello scacciatempo non mettiamo in fuga il tempo. Non soltanto per il fatto che ciò è in fondo del tutto impossibile, bensì perché, anche se guardiamo continuamente l’ora, l’intero atteggiamento dello scacciare il tempo non è – come vedremo – diretto propriamente verso il tempo. Dopo tutta una serie di cose infinite che dice, giunge a considerare che ciò che vogliamo fare in quel momento lo facciamo perché… C’è una stazione, che significato ha quella stazione per noi? La stazione ha un significato per noi, non per quello che è, ma il suo utilizzo è che il treno arrivi. È l’arrivo del treno che rende la stazione ciò che noi vogliamo che sia, mentre questo ritardo ci lascia in sospeso e non ci permette di cogliere l’ente, il treno, come utilizzabile. Quindi, è come se l’ente si sottraesse. Siamo a pag. 128, sottoparagrafo b) Lo scacciatempo e il guardare l’ora. Il venir-annoiati come paralizzante esser-colpiti dal corso esitante del tempo. Dice che in questo aspettare è come se il tempo esitasse. Singolare: apprendiamo tante cose e proprio lei, la noia stessa, non riusciamo a coglierla: quasi continuassimo a cercare qualcosa che non esiste affatto. La noia non è nulla di ciò che si suppone. È sempre qualcosa che ci sfugge di mano. Svanisce e si disperde. Eppure questa attesa impaziente, il camminare su e giù, il contare gli alberi e tutte quelle atre strane occupazioni testimoniano proprio che c’è. Confermiamo e rafforziamo questa affermazione dicendo che quasi moriamo di noia. Forse, contro le nostre intenzioni e la nostra volontà, con tali parole riveliamo un segreto: che, in definitiva, la noia tocca le radici dell’esser-ci, cioè dispiega la sua essenza nel suo fondamento più proprio. Oppure parlare di una noia mortale è soltanto un modo di dire esagerato ed enfatico? … Ad ogni modo tali espressioni non sono casuali. La noia c’è, è qualcosa di specifico, e tuttavia è sempre circondata da quelle fortificazioni esterne nelle quali, nelle nostre ininterrotte considerazioni, continuiamo a restare impigliati. Heidegger vuole cogliere l’essenza della noia. A pag. 129. … resta però da considerare che tale guardare-l’ora non è lo scacciatempo. Non si trova sullo stesso piano del contare gli alberi o del camminare su e giù. Non è un mezzo e la via dello scacciatempo, bensì solamente il segnale del fatto che vogliamo scacciare il tempo, o, più precisamente, del fatto che tale scacciatempo non può avere l’esito che ci si aspetta, che la noia ci tormenta ancora e sempre di più. Per quanto guardi l’orologio il treno non arriva. Il guardare-l’ora è l’impacciata manifestazione del fallimento dello scacciatempo e dunque del crescente venir-annoiati. Per questo continuiamo a guardare l’ora – cosa che tuttavia non è un puro movimento meccanico. Per constatare che cosa? soltanto che ora è in generale? No, in sé ciò non ci interessa affatto; quello che vogliamo constatare è quanto sia ancora lungo il tempo fino al momento della partenza del treno, se il tempo fino all’arrivo del treno trascorrerà rapidamente, cioè se dobbiamo ancora e sempre continuare a lottare contro la noia che emerge servendoci di questo far trascorrere il tempo singolarmente privo di scopo e senza esito. A pag. 131. Per il nostro problema preminente, che cosa sia propriamente il venir-annoiati, risulta allora quanto segue: il venir-annoiati è un peculiare paralizzante esser-colpiti dal corso esitante del tempo e dal tempo in generale, un esser colpiti che a suo modo ci opprime. …  È però evidente che questo esser-colpiti-dal-tempo è una pressione particolare che la potenza del tempo esercita su di noi e a cui siamo legati. Ciò significa: il tempo può opprimerci a volte in un modo e a volte in un altro, oppure lasciarci in pace. In fondo ciò è connesso alla capacità di trasformazione che gli è propria. È allora evidente che il venir-annoiati e la noia in generale sono totalmente radicati in questa misteriosa essenza del tempo. Più ancora: se la noia è uno stato d’animo, il tempo e il modo in cui essa è i quanto tempo, vale a dire il modo in cui si temporalizza, svolgono un ruolo peculiare dell’essere-in-uno-stato-d’animo dell’esser-ci in generale. Quindi, la noia è uno stato d’animo e il tempo il modo in cui essa è. Vediamo di metterla in termini più semplici. Heidegger dice: se la noia è uno stato d’animo, il tempo è il modo in cui essa è in quanto tempo, vale a dire il modo in cui si temporalizza. Ora, la noia ha a che fare con il tempo, noia intesa anche come la intenderà dopo, come qualcosa che appartiene radicalmente all’esser-ci, come lo stato d’animo che occorre avere per approcciare correttamente la questione metafisica, e per approcciare correttamente la questione metafisica occorre il tempo. La noia è come se ponesse l’accento sul tempo, ma un tempo che temporalizza, cioè che può farmi accorgere di ciò che sta accadendo a me in questo momento. È questo che Heidegger vuole intendere: che cosa mi accade in questo momento, in cui sono annoiato, cosa mi sta succedendo. Questa è la temporalizzazione del tempo che la noia sottolinea; è un modo con cui la noia sottolinea la presenza del tempo. A pag. 134. Quanto poco vorremo contestare che questo essere-tenuti-in-sospeso faccia parte del venir annoiati…  È evidente, dice, che questo venir annoiati è un essere tenuti in sospeso da parte dell’ente, che non si manifesta nel modo in cui io voglio che si manifesti. Non ancora, così come dicevamo prima rispetto alla stazione, non mi si manifesta così come voglio che sia, cioè, non come stazione con il treno in arrivo ma come stazione senza treno, cosa di cui non so cosa farmene. …altrettanto poco insisteremo sul fatto che l’essere-tenuti-in-sospeso costituisca da solo la noia. Questa è già una prima forma di noia che Heidegger individua: l’essere tenuti in sospeso da parte dell’ente, ente che o non si manifesta o che si manifesta non nel modo in cui voglio che si manifesti. E qual è il modo in cui voglio che si manifesti? Il modo dell’utilizzabile. Badate bene, la stazione senza il treno non è l’utilizzabile, non è l’utilizzabile che io voglio utilizzare, quindi, il mio progetto rimane in sospeso. Nello scacciatempo, infatti, cerchiamo nel contempo di trovarci un’occupazione. Cioè, trovare altri utilizzabili, ma nel caso che fa lui della stazione non c’è nessun altro utilizzabile così importante quanto l’arrivo del treno; però, cerco degli utilizzabili, contare gli alberi della strada, leggere gli orari dei treni, ecc. Ma come? Per esempio quando, nonostante sia caduta una bella neve farinosa sul Feldberg, continuiamo a lavorare? No, nello scacciatempo cerchiamo un’occupazione; ma, certamente, non come quando, in un rifugio alpino, uno spacca la legna, l’altro va a prendere il latte e noi, per dare una mano in qualche modo, andiamo a prendere dell’acqua. Nell’occupazione che cerchiamo con lo scacciatempo non ci interessa tanto la cosa di cui ci occupiamo, e neppure il fatto che ne venga fuori qualcosa, e che in tal modo siamo d’aiuto agli altri. Non ci interessa né l’oggetto né il risultato dell’occupazione, bensì l’essere occupati in quanto tale e soltanto questo. Heidegger sta dicendo qualcosa di più importante di quanto lui stesso immagini, perché sfiora talvolta la questione della volontà di potenza mai affrontandola in modo deciso. Di fatto, perché io cerco un’occupazione? Lui ha inteso, sì, perché l’ente, di cui mi stavo occupando prima, mi lascia in sospeso; quindi, voglio fare qualche cosa ma cerco di sostituire l’utilizzabile con altri utilizzabili, che però non interessano, non li voglio, ma non posso non cercare altri utilizzabili, cioè, non posso non fare qualcosa. Quante volte avrete sentito cose simili: “non posso stare qui con le mani in mano”, ecc. Non posso non trovare un’occupazione, ed è la volontà di potenza che fa intendere anche il perché gli umani hanno sempre bisogno di fare qualcosa, di trovarsi sempre un’occupazione, comunque, quando non ne hanno una a portata di mano. Lui si chiede perché cerchiamo di essere occupati, e cosa si risponde? Unicamente per non cadere nell’essere-lasciati-vuoti che emerge con la noia. Ma essere lasciati vuoti significa essere lasciati vuoti dall’ente utilizzabile. Non c’è un ente utilizzabile ed è per questo che devo cercarne altri, uno qualunque.

Intervento: Si sente depotenziato…

Esattamente. Dunque è a questo che vogliamo sfuggire, e non all’essere-tenuti-in-sospeso? Dunque è l’essere-lasciati-vuoti l’elemento essenziale della noia? È ancora qualcos’altro dall’essere-tenuti-in-sospeso, e tuttavia fa parte come questo del venir-annoiati. Ma cos’è questo esser-lasciati-vuoti? Che cosa è lasciato vuoto? In quale senso? Cerchiamo di eliminare l’essere–lasciati-vuoti per mezzo di un essere-occupati. Questo è quello che facciamo. Tale essere-occupati con qualcosa è un modo e una maniera determinata di come noi, per esempio, abbiamo commercio con le cose. Qui sono possibili atteggiamenti diversi: le lasciamo stare oppure le modifichiamo, le mettiamo in ordine o le annotiamo come sono. L’essere-occupati porta nel nostro commercio con le cose una certa molteplicità, direzione, pienezza. Ma non soltanto: siamo presi dalle cose, se non addirittura perduti in esse, spesso persino storditi da esse. Il nostro fare e lasciar fare è assorbito da qualcosa. Ho bisogno di avere un utilizzabile da utilizzare, qualunque esso sia; questa è la volontà di potenza. Se ci procuriamo qualcosa che ci occupa, difficilmente abbiamo tempo per altro. Siamo completamente presso tale cosa, e lo siamo a tal punto che proprio il tempo che impieghiamo e che consumiamo per essa non esiste più… Quando uno fa una cosa che gli piace tantissimo, il tempo non esiste. Essere-lasciati-vuoti oppure essere-colmati si riferiscono al commercio con le cose. L’essere-lasciati-vuoti viene eliminato se delle cose sono a disposizione e sussistono. Il treno dell’esempio non sussiste e non è a disposizione, è un ente che non è a disposizione e non sussiste, che dovrebbe essere lì perché la stazione diventi un utilizzabile, ma finché non arriva il treno la stazione non è un utilizzabile; per questo mi lascia vuoto e in sospeso. A pag. 137. Le cose ci lasciano in pace, non ci disturbano. Ma neppure ci aiutano, non traggono a sé il nostro comportamento. Ci abbandonano a noi stessi. Ci lasciano vuoti perché non hanno niente da offrire. Lasciar-vuoti significa: non offrire nulla in quanto sussistenti. Essere-lasciati-vuoti vuol dire non ricevere nulla in offerta da ciò che sussiste. Perché ciò che sussiste non mi dice niente: la stazione sussiste ma non è l’utilizzabile che io voglio utilizzare, che il mio progetto vuole utilizzare. Quel particolare ente, quel particolare utilizzabile, non sussiste, non c’è e mi lascia vuoto. E, infatti, sono in attesa estenuante. Ma cosa dovrebbe offrirci quella misera e sperduta stazione, cosa dovrebbe offrirci di più di ciò che deve fare in quanto edificio pubblico: mettere a disposizione i biglietti e concedere riparo e possibilità di sosta? Ma proprio questo è ciò che offre. Proprio questo le chiediamo, quando stiamo facendo un’escursione o un viaggio. È l’unico uso legittimo che possiamo farne - è ciò che ci richiede. Come possiamo dire che non offre nulla? Anche la stazione è un ente che offre delle cose; eppure, dice, la stazione ci annoia. Come può lasciarci vuoti, cioè annoiarci? Oppure la stazione ci annoia perché ci offre proprio ciò che da essa ci attendiamo, e al tempo stesso non lo offre, cosicché fuggiamo via, sulla strada? Cosa ci attendiamo dalla stazione? Che sia una stazione e basta? No, bensì di poterla usare come stazione… Anche la stazione è storica, non esiste di per sé. Ci sono infinite stazioni, perché ci sono infiniti stati d’animo in cui io mi approccio alla stazione. Dice, che cosa chiediamo? Che sia una stazione e basta? No, bensì di poterla usare come stazione, cioè di poter, in tale stazione, salire immediatamente su un treno e andar via il più presto possibile. È una buona stazione proprio se non ci costringe a sostarvi. La stazione si nega a noi in quanto stazione e ci lascia vuoti perché in essa il treno non arriva ancora, cosicché il tempo fino ad allora si rivela lungo ed esitante. Dunque non offre ancora ciò che propriamente dovrebbe. Ma, per fare ciò, deve appunto essere una stazione, e sussistere come tale per poterci far aspettare. A quale scopo, infatti, ha una sala d’attesa. La questione è questa: questo ente, questo utilizzabile, per poterlo utilizzare deve rispondere a certi requisiti, che sono quelli stabiliti dal mio progetto; se non risponde a questi requisiti non è utilizzabile, e io sono lasciato in sospeso, in attesa, sono lasciato vuoto. Questa è una delle condizioni della noia.