6-5-2015
Vi leggerò una riflessione di Leopardi dove parla proprio della questione del potere.
Soleva considerar come una pazzia quello che dicono i Cappuccini per iscusarsi del trattar male i loro novizzi, il che fanno con gran soddisfazione, e con intimo sentimento di piacere, cioè che anch’essi sono stati trattati così. Ora l’esperienza mi ha mostrato che questo è un sentimento naturale, giacch’io giunto appena per l’età a svilupparmi dai legami di una penosa e strettissima educazione e tuttavia convivendo ancora nella casa paterna con un fratello minore di parecchi anni, ma non tanti ch’egli non fosse nel pienissimo uso di tutte le sue facoltà vizi ec. Siccome non per altro (giacchè non era punto per predilezione de’ genitori) se non perch’era mutato il genere della vita nostra che convivevamo con lui, anch’egli partecipava non poco alla nostra larghezza, ed avea molto più comodi e piaceruzzi che non avevamo noi in quella età, e molto meno incomodi e noie e lacci e strettezze e gastighi, ed era perciò molto più petulante ed ardito di noi in quell’età, perciò io ne risentiva naturalmente una verissima invidia, cioè non di quei beni giacch’io gli avea allora, e pel tempo passato non li potea più avere, ma mero e solo dispiacere ch’ei gli avesse, e desiderio che fosse incomodato e tormentato come noi, ch’è la pura e legittima invidia del pessimo genere, e io la sentiva naturalmente e senza volerla sentire, ma in somma compresi allora (e allora appunto scrissi queste parole) che tale è la natura umana, onde mi erano men cari quei beni ch’io aveva qualunque fossero, perch’io li comunicava con lui, forse parendomi che non fossero più degno termine di tanti stenti dopo che non costavano niente a un altro che si trovava nelle mie circostanze, e con meno merito di me, ec. Quindi applico ai Cappuccini, i quali trovando la sorte dei fratelli minori che sono i novizzi dipendente da loro, seguono gl’impulsi di questa inclinazione che ho detto, e non soffrono che si possano dire a se stessi essere scarso quel bene a cui son giunti poiché altri gli acquista con assai meno travaglio di loro, né che abbiano a provare il dispiacere che questi tali non soffrano quegl’incomodi ch’essi in quelle circostanze hanno sofferti.
Dice che nessuno tollera che altri possano ottenere quelle stesse cose ma con minore se non nessuna fatica, perché? Rispondere a questa domanda non è semplice, lui infatti non risponde, semplicemente espone questa cosa ma non risponde alla domanda se non dicendo che è la natura umana, che non è affatto una risposta. A questa domanda neppure Freud ha mai saputo rispondere in modo soddisfacente, eppure la questione, se posta in altro modo, diventa semplicissima. Se qualcuno ottiene qualche cosa con grande sforzo, ovviamente ciò che ha ottenuto gli pare degno e importante, se altri ottengono la stessa cosa rapidamente e senza nessuno sforzo tolgono importanza a quello che lui ha raggiunto, togliendo importanza a ciò che lui ha raggiunto tolgono importanza a lui, cioè lui diventa meno importante. Ciascuno si ritiene importante in base alle cose che fa, che dice, che ha dette, e se queste cose che ha fatte, che ha dette diventano meno importanti perché altri le ottengono con estrema facilità, allora diventa un problema per questa persona, perché si sentirà sminuita, e sentendosi sminuita dovrà recuperare il potere che ha perso sminuendo a sua volta quell’altro, in qualche modo come fanno i “cappuccini con i novizzi” ché li vessano, cercano cioè di umiliarli in modo da ricondurli in una condizione di controllabilità, di sottomissione. In effetti qui si apre la questione sulla quale stiamo lavorando da tempo, che è notevole ed è prioritaria, perché gli umani tengano così tanto al loro potere, che poi si configura di volta in volta come rispetto, come considerazione, come attenzione nei propri confronti, tutte queste cose appaiono irrinunciabili al punto da fare apparire ogni altra considerazione, ogni altro aspetto come secondario. È ciò che pilota, ciò che muove qualunque fantasia, come se tutto ciò che gli umani si trovano a fare, a pensare, a progettare, eccetera avesse questo unico obiettivo: raggiungere, mantenere e consolidare il potere. I modi in cui questo viene svolto sono stati descritti, articolati tantissimo, c’è una vastissima letteratura a questo riguardo, cito soltanto uno per tutti, Niccolò Macchiavelli, che fa una disamina precisa sui modi in cui è possibile ottenere il potere mantenerlo, difenderlo dai nemici, tuttavia nemmeno lui dice perché gli umani hanno la necessità di avere questo potere che, come dicevo prima, si configura di volta nel rispetto, la considerazione, l’attenzione eccetera, e addirittura in alcuni casi, per esempio nell’ambiente mafioso se uno manca di rispetto può anche rischiare la pelle, per dire di quanto la cosa sia importante. Noi siamo interessati a intendere perché per gli umani la cosa è così irrinunciabile, perché addirittura pilota tutta la loro esistenza da quando incominciano a parlare fin quando non smettono, e siccome nessuno ha mai detto perché avviene una cosa del genere occorre domandarsi come mai nessuno ha considerato questo aspetto. Questo aspetto ha dei risvolti e delle implicazioni, come se quasi non si potesse, considerando questo aspetto, non applicarlo anche immediatamente a se stessi e a ciò che si sta facendo trovandosi così di fronte a quella considerazione che faceva Nietzsche, e cioè che tutta l’attenzione, l’elaborazione, l’articolazione che gli umani hanno messo in atto per raggiungere la conoscenza, la verità eccetera, tutto questo di fatto non aveva nessun altro motivo se non quella “volontà di potenza” o come la definisce poi Heidegger “volontà di volontà”. Sta di fatto che nessuno si è mai posta questa domanda e soprattutto nessuno ha saputo mai dare una risposta che fosse soddisfacente, un motivo è che per intendere una cosa del genere occorre riflettere sul modo in cui funziona il linguaggio, se non si intende questo non c’è nessuna possibilità di potere non solo rispondere, ma di potere neanche approcciare una questione del genere, rimane soltanto “è così” “è la natura degli umani” e allora, riflettendo sul modo in cui funziona il linguaggio c’è l’opportunità di considerare che questa ricerca del potere appartenga non alla natura, ma appartenga strettamente alla struttura del linguaggio. Per questo dicevo forse l’altra volta che non c’è la possibilità di uscire da questo, è inevitabile questo esercitare, mettere in atto il potere: ciascuna volta in cui affermo delle cose, queste cose che affermo le impongo, volente o nolente, consapevole oppure no, come se fossero vere, perché se no non le direi, certo potrei porle come ipotesi ma qui bisogna fare attenzione perché molto spesso questa “ipotesi” di fatto, più che un utilizzo logico, strutturale, ha un utilizzo retorico nel senso che si dice che si pone come ipotesi ma poi in realtà la si pone come un dato di fatto, anche perché un’ipotesi che non è verificabile in nessun modo non è niente, un’ipotesi è tale perché è in attesa di verifica, se questa verifica non c’è e non è possibile farla rimane nulla. Ma affrontare la questione in termini di funzionamento di struttura del linguaggio ci porta su un’altra questione, perché ogni volta che si afferma qualche cosa, si afferma questa cosa come verità, e adesso dico in quale accezione, anche perché molte persone si rifiuterebbero di accogliere una cosa del genere e cioè che quello che affermano lo affermano come se fosse una verità, per cui merita, questo termine “verità” di essere precisato e qui, qui interviene di nuovo Heidegger che ha lavorato sulla questione della verità e come potete facilmente immaginare prende le distanze dal concetto di verità come correttezza, adeguamento eccetera, che è il modo più comune di considerare la verità, infatti dice qua adesso vi leggo queste poche righe da Segnavia: la “veritas” termine latino come “adæquatio rei intelectum” garantisce la veritas come “adæquatio intellectus ad rem”, veritas significa, nella sua essenza in generale, il concordare degli enti tra loro in quanto enti creati con il creatore, una sorta di accordo determinato dall’ordine della creazione. La “veritas” garantisce che c’è ci sia un accordo tra la cosa e il creatore che l’ha creata, questa è la garanzia che offre, ma questo ordine una volta sciolto dall’idea della creazione può anche essere generalmente e indeterminatamente presentato come ordine universale, al posto dell’ordine della creazione teologicamente pensato si fa innanzi la possibilità di una pianificazione di tutti gli oggetti ad opera della ragione universale, la quale si dà da sé la sua legge e quindi esige anche l’immediata intelligibilità del suo procedere, ovvero ciò che si ritiene logico. Che l’essenza della verità della proposizione risieda nella conformità dell’asserzione, lo si dà per certo, anche là dove con uno sforzo di una singolare inutilità si tenta di spiegare come debba essere realizzata questa conformità, essa viene già presupposta come essenza della verità, ciò significa che la verità della “cosa” consiste sempre nell’accordo della cosa data con il concetto razionale della sua essenza, nasce così l’impressione che questa determinazione dell’essenza della verità resti indipendente dall’interpretazione dell’essenza dell’essere di ogni ente, la quale a sua volta include una corrispondente interpretazione dell’essenza dell’uomo come portatore, realizzatore dell’intellectus. La questione della concordanza fra l’ente e la “sua ragione” potremmo dire, è un problema per Heidegger, perché in questo modo si sbarra la possibilità di accedere all’ente in quanto qualcosa che appare, che si manifesta a partire dall’orizzonte dell’essere, come direbbe lui, perché è questo che dice. La questione della verità in Heidegger è che per la prima volta nella storia del pensiero la nozione di verità viene posta in un altro modo, e cioè non come “adæquatio rei et intellectus” come l’adeguamento, la correttezza, ma pone una nozione diversa di verità, cioè sta dicendo che la verità non necessariamente deve essere intesa così, tutto il lavoro che fa intorno al termine greco ¡λήθεια va in questa direzione: cercare di inserire una nozione differente di verità, sta dicendo “guardate che non c’è solo questo nella verità, la verità non è soltanto questo, si può pensare la verità in un altro modo”, cosa che non era mai stata fatta prima. Ora però sorge un altro problema, un problema che sfugge anche a Heidegger in effetti, e che fa ritornare la questione della verità come adeguamento come se fosse un modo di pensare la verità metafisico certo, però praticamente ineludibile. Lui pone la verità, adesso ve la dico in due parole, dice che l’essenza della verità non è nient’altro che la verità dell’essenza, vale a dire l’essere, la verità per Heidegger corrisponde all’Essere, cioè questa ¡λήθεια di cui sta parlando, questo disvelarsi dell’essere che in qualche modo consente l’apparire delle cose, ché non è l’Essere che appare in quanto tale, l’Essere disvelandosi consente quella apertura nella quale appaiono gli enti, ecco però questa definizione che lui dà, adesso non stiamo a discutere sulla qualità della sua definizione, non ci interessa per il momento, però dicendo che la verità è questo sta compiendo un’operazione che è esattamente quella che cerca di eludere: dicendo questo lui dice “la verità è questo” quindi si trova nella necessità di dire o lasciare intendere che quella definizione che sta dando di verità è adeguata alla parola che la definisce, come dire che l’adeguatezza, la corrispondenza eccetera appare un elemento inevitabile nel parlare, letteralmente. La posizione che ha Heidegger rispetto alla verità può essere interessante, il fatto, come dicevo prima, di proporre o meglio di dire che c’è la possibilità di pensare la “verità” in un altro modo, la questione è che questo non toglie in nessun modo la verità come adeguamento, come correttezza, e quindi viene da pensare che questo modo, cioè la verità come adeguamento, questo modo della verità appartenga al funzionamento stesso del linguaggio. Ora una cosa ovviamente è immaginare che questo adeguamento della parola alla cosa consenta di accedere alla cosa stessa, di averne il controllo, cosa che non può verificarsi ovviamente, si tratterebbe anche di precisare, questo magari lo facciamo dopo, altro invece è utilizzare questa modalità unicamente allo scopo di potere costruire delle proposizioni e proseguire a parlare, perché se dovessimo togliere questa nozione di “verità” come conformità, come correttezza eccetera, cosa accadrebbe? Pensate a una parola e al suo significato, in questo caso il significato, l’uso del significato di un certo termine lo si intende come un qualche cosa che è corretto rispetto a quel termine, se non lo fosse sarebbe un problema perché se io definisco il tavolo come una superficie piana supportata da uno o più supporti, se questa definizione che do fosse non adeguata alla parola “tavolo” allora la parola “tavolo” non avrebbe un significato, non avendo un significato non sarebbe utilizzabile, non essendo utilizzabile né questa né, a questo punto, nessun altra parola, è chiaro il linguaggio cesserebbe di funzionare, quindi se io dico che “è vero che il tavolo significa una superficie piana supportata da uno o più supporti” sto usando la verità nell’accezione di adeguamento, di correttezza, il problema è che sono nella condizione, per potere continuare a parlare di dovere ricorrere a questa forma di verità, quella che i greci chiamavano ὀρθότης, appunto adeguamento, l’adeguarsi della parola alla cosa. Cosa vuole dire l’adeguarsi della parola alla cosa? Qui sorge un altro problema di grossissime proporzioni, un problema che era già stato rilevato da Aristotele a proposito di Platone. È l’argomento del “terzo uomo”, forse lo ricorderete, c’è l’uomo sensibile, uomo in quanto tale e poi, perché questo possa essere necessità dell’idea di “uomo”, senza questa idea l’uomo in quanto tale non sarebbe niente, bene, dice Aristotele, ma perché l’uomo in quanto sensibile possa essere connesso con l’idea, occorre che ci sia una sorta di appartenenza di una cosa all’altra, perché se non appartenesse in nessun modo non ci sarebbe nessuna possibilità di connessione tra le due cose, rimarrebbero svincolate e l’uomo in quanto sensibile non avrebbe mai la garanzia dell’idea dell’uomo, quindi tra le due cose occorre un terzo elemento che faccia da tramite, appunto il “terzo uomo”, c’è l’uomo sensibile, l’uomo in quanto idea e il terzo uomo che fa da intermediario. Però dice Aristotele fra il primo e quello di mezzo occorre di nuovo che ci sia un altro elemento in mezzo e così via all’infinito, ora questa argomentazione di Aristotele è vecchia di duemila e cinquecento anni, ovviamente può applicarsi con estrema facilità anche a ciò che dicevo prima della parola e del suo significato, dopo tutto entrambe queste cose, la parola e il suo significato sono enti, ma se così è, allora l’utilizzo del significato, anche nell’accezione di adeguamento, tecnicamente potrebbe apparire impossibile, nel senso che tra la parola e il significato ci deve essere un elemento mediano che consente quella connessione che Heidegger prima rilevava come non trovata da nessuno. In effetti non è reperibile, perché rimanda a una regressio ad infinitum, dunque questo condurrebbe ad affermare l’impossibilità di stabilire un significato qualsivoglia. Questa è una delle aporie che si incontrano appena si incomincia a riflettere sul modo in cui funziona il linguaggio, che è ricco di aporie o come dicevano gli antichi di “insolubilia” di cose insolubili. Queste difficoltà, chiamiamole così, sono tali da essere state considerate dai più come non risolvibili, infatti chiunque si sia trovato, come è accaduto nel caso della filosofia analitica, certo molto più recente di Aristotele, però anche in questo caso il problema non è stato affrontato ma semplicemente è stato aggirato, cioè ci si è mossi come se questo problema non esistesse. Ma una teoria, per esempio in ambito della filosofia analitica funziona lo stesso benissimo certo, però non è questo che interessa propriamente, il fatto che funzioni, anche perché affermare che qualcosa sta funzionando potrebbe comportare altri problemi di proporzioni bibliche, e cioè che cosa intendo quando dico che qualcosa funziona? Generalmente dico che fa quello che io mi aspetto che faccia, generalmente si intende così, un orologio dico che funziona quando dico che fa ciò che mi aspetto che faccia, cioè segni le ore, però questa verifica del funzionamento fa già parte del funzionamento di questa cosa, in realtà non verifica niente, è un po’ come il funzionamento di una dimostrazione come diceva Wittgenstein, quando ho completato una dimostrazione, lui si riferiva ad una dimostrazione logica, ma può essere qualunque cosa, anche il controllo del funzionamento di un programma per macchine, qualunque cosa, in realtà ciò che ho fatto, ciò che ho ottenuto alla fine è la consapevolezza di avere eseguito correttamente quelle regole che io stesso ho poste, niente più di questo. La questione della verità come adeguamento appare essere ineludibile nel discorso stesso, può però essere considerata, anziché come il modo per conoscere l’ente per quello che è, perché poi è di questo che si tratta, come una delle regole, delle procedure del funzionamento del linguaggio, che rimane sempre la questione più complessa da considerare e da approcciare, perché a questo punto è come se ogni cosa pensabile, dicibile eccetera fosse mossa unicamente da regole che la fanno girare e così via. Ma questo toglie importanza a tutto ciò che si fa, toglie importanza nel senso che, “importanza” mettiamola tra virgolette occorre precisarla, toglie “importanza” nel senso che non ha più quel valore che aveva fino a quando questa cosa era pensata come una “verità” diciamo “assoluta” per intenderci, e cioè come un qualche cosa che è quello che è, pensare che invece sia soltanto un modo per potere proseguire a parlare cambia le cose radicalmente, in modo tale da fare cessare di pensare al contenuto di ciò che si dice, di una teoria, di un discorso, di un argomentazione come qualcosa che abbia valore di per sé, ma semplicemente come la messa in atto di una struttura che ha come obiettivo unicamente il proseguire se stessa all’infinito. L’implicazione immediata di una cosa del genere è che posta in questi termini si potrebbe anche affermare che una teoria vale esattamente quanto qualunque altra, più ancora che una teoria vale esattamente quanto la sua contraria, e cioè qualunque discorso che si ponga come teoria o come teorizzazione di qualunque tipo, filosofica, scientifica o quello che vi pare è come se perdesse di valore, e perde di valore perché non può dire come stanno le cose, e se non può fare questo, se non può dire come stanno le cose il suo valore si dissolve, scompare perché diventa soltanto un racconto più o meno interessante di Cappuccetto Rosso, ma che ha la stessa validità, può essere più o meno divertente, può essere più o meno interessante, ma “interessante” qui in un’accezione particolare perché “interessante” in quanto coinvolge, perché mostra delle aperture, aperture in quanto possibilità di costruzioni, di invenzioni di altri racconti, i quali altri racconti non avranno di per sé in quanto tali nessun valore ovviamente, come tutti gli altri, ma sono semplicemente la messa in atto del linguaggio o più propriamente l’agire del linguaggio. Le considerazioni che possono muoversi da questa punto in poi sono notevoli, e per alcuni versi anche devastanti, perché ciò che rimane è il piacere di costruire cose, costruire nuove sequenze, costruire nuove cose per potere da lì costruirne altre ancora e così via all’infinito, perché se ogni cosa perde il suo valore, cioè perde la sua capacità di potere dire come stanno le cose non rimane che dovere considerarle come un racconto, un racconto come dicevo prima al pari di qualunque altro. Certo uno può pensare che un certo tipo di racconto sia differente da un altro perché produce effetti differenti, questo è possibile certo, ma su chi produce effetti differenti e perché? Di sicuro non nei confronti di qualcuno che è avvezzo all’interrogazione, all’articolazione del funzionamento del linguaggio, perché in questo caso qualunque racconto ha come dicevo prima la stessa validità di qualunque altro, quindi l’uso di queste argomentazioni può essere soltanto retorico, al fine cioè di persuadere qualcuno della validità di quello che sto dicendo, come dire che quello che sto dicendo è vero quindi deve essere creduto, deve essere accolto, deve essere preso in considerazione, considerato, apprezzato, seguito eccetera, eccetera perché è vero, è vero nel senso che mostra che le cose stanno così, esattamente quello che sto facendo in questo istante. La considerazione che si trae immediatamente è che non è possibile non farlo se si vuole parlare, se si vuole articolare, se si vuole interrogare, l’interrogazione stessa non può non procedere in questo modo, cioè non può non utilizzare la verità come adeguamento, come correttezza, non può non farlo, può però come dicevo prima sapere che cosa sta facendo, e quello che sta facendo è utilizzare il linguaggio al solo scopo di potere proseguire a costruire cose, ma il linguaggio di per sé non dice nulla di ciò di cui dice che è vero, dice soltanto “è vero” quindi puoi utilizzarla per costruire altre cose ma rimanendo sempre all’interno di questo chiamiamolo “sistema”, per usare i termini di De Saussure, sistema linguistico, cioè è vera una certa cosa all’interno del linguaggio, è vera all’interno del gioco che si sta facendo, ed è vera perché io la prendo e la uso come se fosse vera, come se fosse un universale, cioè vero sempre, vero assolutamente. È una questione molto sottile perché accade continuamente di trovarsi a considerare che sì, io faccio delle cose, le affermo, però so che non sono la verità assoluta certo, ma so anche che quello che quello che sto affermando lo sto affermando al solo, unico scopo di potere continuare a parlare. Questo rende le cose più semplici da una parte ma anche più complicate dall’altra, più semplici perché ogni cosa a questo punto si offre, si manifesta con una straordinaria semplicità perché è di fatto, come vorrebbe Heidegger “semplicemente quello che è”, cioè un elemento linguistico, né più né meno, certo con tutto ciò che questo comporta ovviamente, per esempio il fatto di essere quello che è perché connesso con altri elementi linguistici, ma comporta anche il non potere fare nessun affidamento su questo elemento per potere pensare che questo elemento definisca uno stato di cose, questo non lo può più fare, è una cosa che a questo punto viene abbandonata e allora perché qualcuno si chiedeva tempo fa, perché si continua a parlare? Apparentemente potrebbe non avere più alcun senso, possiamo anche considerare questo, certo, se l’unico senso che diamo al parlare è quello di stabilire come stanno le cose allora sì è vero, non ha più alcun senso parlare, in questo modo non ha effettivamente nessun senso ma la questione è che in ogni caso non è possibile smettere di parlare, per cui direi che il problema non sussiste, non sussistendo costringe comunque a parlare e costringe a parlare in questa maniera, affermando delle cose, ponendole “come se” fossero vere per potere proseguire. “Come se fossero vere”, è qui che si gioca la questione, perché uno può o credere che lo siano per davvero oppure sapere che sta soltanto costruendo un gioco il cui unico obiettivo è quello costruirne un altro. Mi sono trovato a considerare se esiste qualche cosa al di là di questo, perché potrebbe apparire anche insoddisfacente che tutto quanto sia soltanto questo, però si incappa, volendo fare questo, in altri problemi non meno complicati, e cioè la costruzione di un “motivo”, per esempio, posso inventarmi dei motivi per cui parlo, per cui costruisco una teoria, perché voglio per esempio intendere meglio quella cosa lì, ma una teoria fa questo? Per Heidegger per esempio no, non lo fa affatto, per la scienza sì, dipende dal gioco linguistico che io decido di fare, se io faccio un certo gioco linguistico, cioè accolgo come vere certe premesse allora giungerò a certe conclusioni che mi diranno che ciò che ho ottenuto in questa elaborazione teorica mi dice come stanno le cose, se muovo da altre premesse giungerò a una conclusione che mi dice che ciò che ho fatto è semplicemente, come direbbe Heidegger, “non rendermi conto di nulla e avere scambiato l’ente con l’essere” …
Ferruccio: qui si va sul gioco pirandelliano dei vari significati dati dal compromesso ciascuno parte dalle esigenze emotive che ha da …
Che gli umani cerchino il potere, che in tutti i modi vogliano imporre il potere e quindi la loro verità, perché imporre il potere significa questo “imporre la propria verità”, lo si sa da sempre, ma nessuno ha mai saputo perché, è qui che interviene una riflessione intorno al funzionamento del linguaggio, necessaria visto che è il linguaggio stesso a costruire questa struttura che chiamiamo “volontà di potenza”, o come dice Heidegger “volontà di volontà”, siccome è il linguaggio che costruisce tutto questo allora forse è da lì che occorre partire, è da lì che occorre considerare le cose per giungere, tenendo conto di tutto quello che ho appena detto, alla costruzione di un altro gioco linguistico, con la consapevolezza però che si tratta di un gioco linguistico, più o meno interessante. “Interessante” nell’accezione in cui ne parlavo prima e cioè di apertura verso altri giochi linguistici. Certo l’impatto di tutto questo potrebbe apparire drammatico perché praticare una cosa del genere comporterebbe la devastazione totale di tutto ciò che gli umani hanno pensato. Pensate a tutte le teorie che sono state costruite da tremila anni a questa parte, tutte queste teorie vengono qui ricondotte a quelle che appaiono essere e cioè giochi linguistici, costruiti perché non è possibile non costruire continuamente giochi linguistici, con la fantasia però di fare un’altra cosa, e cioè di descrivere uno stato di cose, uno stato di fatto, e questo non si può verificare perché non c’è nessuno stato di fatto …
Ferruccio: prima ha parlato dell’intuizione che Platone ha avuto sulla formazione del linguaggio della “cosa” … la questione del “terzo uomo” questa è una sindrome che non ho capito …
La questione del “terzo uomo” l’ho evocata per una difficoltà che era insita, come ha rilevato Aristotele, nel pensiero di Platone, ma che può applicarsi a moltissime altre situazioni dove c’è un qualche cosa, un ente che riceve il proprio significato, il proprio senso da un altro ente, perché poi la struttura è questa, e lì si può ripetere esattamente lo stesso discorso che fa Aristotele, e cioè non c’è nessuna possibilità che un ente possa costituire il significato di un altro se non c’è un terzo elemento che fa da tramite tra i due, cioè che li connette, il problema dice Aristotele è che a questo punto si innesca un processo all’infinito …
Beatrice: io consideravo che sono devastanti queste considerazioni laddove si rifletta sul funzionamento del linguaggio e su come il linguaggio non sia “toglibile” per pensare e fare qualsiasi cosa e quindi anche per esprimere, per parlare, per affrontare questioni di questo genere, per il discorso in cui ci troviamo, per il discorso occidentale è assolutamente impensabile, ma soprattutto non si deve pensare di giungere a queste considerazioni cioè al fatto che si parla per produrre linguaggio, non si può non considerare, non si può non concludere una questione di questo genere, gli umani hanno fatto delle costruzioni faraoniche a partire dai valori, e quindi togliere valore alle cose che si dicono perché queste cose non sono nient’altro che un gioco linguistico …
Qui torniamo alla questione da cui siamo partiti, è questo il motivo per cui i cappuccini vessano i “novizzi”, perché hanno il timore che i novizi possano togliere loro importanza, loro che sono lì da tempo, loro che sanno come stanno le cose, perché è poi di questo che si tratta, arrivano questi e vogliono fare tutto loro, ma perché una cosa del genere da così tanto fastidio? Perché dà così tanto fastidio che a qualcuno non venga riconosciuta quella importanza che immagina o crede debba essergli riconosciuta, perché?
Ferruccio: è l’invidia di un piacere …
Sì, la domanda riguarda a un certo punto perché c’è l’invidia, da dove arriva, perché i cappuccini invidiano i novizi o perché Leopardi ce l’ha con il cugino, arrogante, che sa tutto lui, perché dà così fastidio? Perché è insopportabile? Occorreva pure che qualcuno incominciasse a rispondere a questa domanda …
Intervento: quando lei ha letto questo scritto di Leopardi mi ha fatto venire in mente quello che diceva Freud proprio a proposito dell’invidia e del concetto di “giustizia” che è stato costruito dagli umani, sul quale concetto si basa tutta la ideologia degli umani, mi pare che gran parte delle ideologie siano costruite a partire dal concetto di “giustizia” e mi pare che abbiano tutte un solo significato cioè livellare, fare in modo che nessuno emerga …
Tutti i manuali di retorica sono indirizzati in questo senso, e cioè a mostrare come si fa a persuadere qualcuno e tutti i manuali di retorica hanno un’unica direzione per persuadere qualcuno: bisogna farlo sentire importante, bisogna dargli quello che vuole, e ciò che vuole è sentirsi importante, non vuole nient’altro, solo questo, se gli si dà questo allora lo si persuade, se gli si toglie questo ci si fa un nemico mortale …
Stefania: mi sembra che questo tuo discorso di questa sera … io lo vedo più su più piani, il primo piano il testo di Leopardi … ha mostrato che quello che si chiama “legame sociale” è fatto proprio di quella struttura lì … poi c’è la domanda “perché avviene questo? dopo di che mi sembra che tu abbia adombrato una possibilità di risposta, io è sulla risposta che ho dei dubbi mentre fino alla domanda sono assolutamente d’accordo seguo quel percorso lì, io penso che in questo momento tengo in tensione la domanda, tengo in tensione la domanda perché quel tipo di risposta che tu hai dato potrebbe anche essere una sorta di espediente, ovvero un espediente per sfuggire a questa questione lì descritta da Leopardi, allora io penso che tenere in tensione la domanda ciascuna volta in tutte le varie situazioni consente di non mettere la risposta e non otturare quindi perché ogni volta che dai una risposta otturi, no? Io penso che l’effetto che io percepisco rispetto a quello che tu hai detto è arrivare a una certa posizione di dissacra mento rispetto a se stessi, a una pretesa di verità che si vuole fare girare nella propria parola e nel proprio discorso … allora io penso che quel tipo di dissacramento, io stessa cerco di attuare innanzi tutto con me stessa, è un dissacramento che può anche essere ricercato per altre vie, questa è la ragione per cui a me piace mettere in tensione la domanda, non so se sono stata articolata?
La questione della risposta, incominciamo da qui, è importante perché può intendersi in molti modi, il modo in cui io rispondo, facciamo l’esempio proprio di questo caso qui, questa sera: la risposta che io ho fornito alla domanda del perché gli umani cercano il potere, è perché non possono non farlo, non possono non farlo perché sono fatti di linguaggio e il linguaggio funziona in questo modo, una risposta molto semplice e molto chiara, che chiude la questione? Sì e no, la chiude nel senso che dice che non c’è uscita dal linguaggio, in questo senso chiude la questione, certo non puoi uscire dal linguaggio qualunque cosa tu faccia, ma anche non chiude la questione perché apre a infinite altre domande, infinite altre questioni. Saputo questo in effetti potremmo anche dire che è ben poco sapere che gli umani cercano il potere perché sono fatti di linguaggio e il linguaggio funziona a quella maniera, questo potrebbe anche apparire incontrovertibile se vuoi entro certi limiti, è una risposta certo, una risposta che dice che non c’è uscita dal linguaggio e che aggiunge “il linguaggio funziona così quindi è impossibile non esercitare del potere parlando”. Occorrerebbe articolare meglio la questione perché così appare ancora un po’ equivoca, ma in ogni caso diciamo che non è possibile non farlo però è possibile tenere conto, sapere ciò che si sta facendo, e questo ha degli effetti ovviamente perché non hai più la necessità di imporre quello che stai pensando ad altri perché sai che non è né vero né falso ma è un gioco, se invece non lo sai è inevitabile, ma inevitabile proprio perché il linguaggio funziona così e cioè che tu imponga … Stefania: io parlo di espediente per il fatto che a me mi pare che nel passaggio tra pretesa di imporre e più modesta prospettiva di “porre” in questo iato stretto c’è tutto un percorso dove occorre lavorare anche su quei processi che io dico essere “fuori linguaggio” nel senso che …
Beatrice: è questa la questione, questi “processi fuori dal linguaggio” come fai ad affermare una cosa di questo genere?
Stefania: no, le cose di cui parlavamo questa necessità del fatto che sia riconosciuta la tua parola, l’invidia perché c’è questa “illusione” che l’altro goda più di te perché il capetto di turno ti detto una volta sei più bravo, no? sono i problemi “gravi” su cui qualsiasi cosa … su cui è il legame sociale, allora io penso che tra imporre e porre c’è tutto quel lavoro in mezzo, dove se non c’è una sorta di rivisitazione sul fatto che nel momento in cui ti prende l’impulso perché sei convinto, hai la fantasia che quell’altro goda più di te, tu sappia in qualche modo farci qualcosa con quella spinta che chiami … Innanzi tutto deve essere un pensiero e molto spesso … ed è fuori linguaggio perché molto spesso quelle cose non sono mica pensiero, sono cose che sono immediatamente agite ecco perché dico “fuori linguaggio” allora tra imporre e porre, tra imporre la propria parola, il proprio pensiero e porre qualcosa che può essere un contributo per arrivare a porre, c’è tutto un percorso dove c’è la questione dell’immaginismo personale, del senso di sé , del fatto che in genere ci si considera molto poco e c’è bisogno che ci sia qualcuno che confermi la tua potenza … Possiamo fare un elenco delle questioni che da che mondo è mondo attanagliano gli umani … questo a me sembra importante, nella mia esperienza sento di potere dire così.
Quando parlo di “imporre” non mi riferisco soltanto a “imporre la propria volontà su qualcuno”, anche certo ovviamente, ma a una questione più strutturale, e cioè imporre un significato mentre si parla, in questo senso parlo di imposizione, perché in quel caso non è che si pone qualche cosa, ma si impone un significato mentre parli, e non puoi non farlo, questa è un’altra bella questione che merita di essere elaborata …
Ferruccio: sì, tutte queste esperienze derivano da come questo primitivo linguaggio ha potuto articolare la persona … le esperienze di cui ha parlato la collega derivano da come, con il linguaggio, la persona fu articolata, fu determinata, diciamo con l’analisi andando a ripescare si può semplicemente sapere, si può sapere con il linguaggio, si può sapere che il linguaggio “mi fece” però effettivamente la prassi in un’analisi è quella lì … A parte quello “il linguaggio mi fece” ecco come abbiamo visto prima con Platone e Aristotele “il linguaggio mi fece”, il logos …
Beatrice: tutti i grandi pensatori hanno dato un’importanza straordinaria al linguaggio però nessuno o veramente pochi sono giunti a considerare che senza linguaggio la persona non ci sarebbe, il mondo non ci sarebbe, questo è determinante nel pensiero perché se uno dice che il linguaggio è importantissimo e poi immagina di poter entrare o uscire a piacere da una struttura allora non tiene conto di quello che afferma, questo è determinante, è determinante che per fare le cose ci vogliono le parole, ci vuole una struttura, un sistema che funzioni e che riconosca soprattutto queste parole in quanto portatrici di un significato, si crede che sia così per esempio, si crede che la cosa in sé esiste e questo è un significato …
Ferruccio: ecco poi c’è il problema della malattia del linguaggio, ciascuno di noi può esserci una malattia del linguaggio, del sapersi esprimere in modo più o meno corretto, incepparsi … sì insomma quello di cui parla Freud ecco questo può derivare da blocchi di memoria, possono derivare da un’esperienza antica effettivamente … cioè l’impatto psicologico sul linguaggio è veramente bello cioè dico “bello” per dire che è fondamentale …