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6 aprile 2022

 

Il Sofista di Platone di M. Heidegger

 

Come annunciato faremo alcune considerazioni intorno alle cose lette. Questo testo può leggersi in vari modi, può anche leggersi come un testo intorno alla volontà di potenza. Ma faremo alcune considerazioni a partire da alcune frasi che ritengo importanti. Δοξάζειν significa: essere di un certo punto di vista. Questo termine possiede un senso oscillante: esso oscilla a seconda del livello che Platone ha raggiunto nel proprio lavoro filosofico per quanto concerne la visione del senso vero e proprio dell’έπιστήμη. Quando egli non ha ancora raggiunto la sicurezza che dimostra nel Sofista (ad esempio, nel Teeteto), δοξάζειν non ha altro significato se non “essere di un certo punto di vista in merito a qualcosa”, ma in questo senso preciso: sono convinto di qualcosa; so che è così. Perciò nel Teeteto, alla domanda che cosa propriamente sia l’έπιστήμη, il sapere vero e proprio, Platone può rispondere /…/ Nella percezione sensibile, non c’è vero e proprio sapere, bensì nel δοξάζειν. Cioè, in ciò che credo di sapere. Infatti egli determina il δοξάζειν come un “avere a che fare con l’ente” da parte dell’anima, e precisamente: qualora essa stia puramente in se stessa e si rapporti puramente a se stessa. La cosa che qui mi interessava è questa: sono convinto di qualcosa, so che è così. Qui c’è la distanza tra il sofista e Platone. Il sofista dice “Tu credi di sapere”; Platone risponde “No, io so, so che è così”. Il sofista allora gli chiede “Come lo sai?” e Platone non può che aggrapparsi all’idea che l’ente possa manifestarsi da sé, senza linguaggio: solo così posso avere la certezza. Chiaramente, è una situazione paradossale; infatti, quasi tutto il testo di Platone è un testo sul linguaggio. Sin dall’inizio è un testo sul λόγος, quando parla dell’άληθεύειν, che è il mostrarsi di qualcosa; certo, ma si mostra come? Dove si mostra? Nel λόγος, nel linguaggio. Quindi, fin da subito Platone si è trovato a dovere confrontarsi con il linguaggio, ed è con questo che ha combattuto una battaglia strenua. Questa è la vera e propria gigantomachia, non è tanto fra realismo e idealismo, che è una banalità, ma è questo: ha dovuto combattere contro il linguaggio. Perché? Se so che cos’è qualche cosa allora so che è quell’altra, che è il suo significato. Vale a dire, per sapere che cos’è una certa cosa devo dirne un’altra, ma quest’altra non è ciò che io dico, è un’altra cosa. Quando lui si scontra con il fatto che il λέγειν è sempre λέγειν τί, cioè un dire qualcosa – e questo λέγειν τί è sempre un λέγειν τί κατά τίνός, un dire qualcosa in vista di qualche cos’altro – allora non può non constatare che una qualunque cosa è quella che è in vista di un’altra, ma è quell’altra, che la prima non è, che fa essere la prima quella che è. E questa è la posizione del sofista, che sa che ciascuna cosa è quella che è a condizione di non essere quella che è. Platone si avvicina alla questione ma la fugge, chiaramente, sennò dovrebbe acconsentire a tutto ciò che dicono gli eleati, e questo lo seccava moltissimo, anche se poi non riesce, di fatto, a negare quello che dicono gli eleati. Qui c’è tutto il problema – problema nell’accezione heideggeriana, cioè, come qualcosa che è da pensare – il problema del linguaggio e, quindi, della volontà di potenza. C’è il mio dire e ciò che il mio dire dice. Non li posso separare, ovviamente; se tolgo ciò che il mio dire dice dal mio dire, il mio dire non dice più niente. Non li posso separare, ma non sono la stessa cosa: il mio dire è un qualcosa; ciò che il mio dire dice è un’altra cosa. Il mio dire sarebbe l’ente fuori del linguaggio, che dobbiamo cogliere così com’è, ma come faccio a cogliere il mio dire così com’è, dal momento che il mio dire è, come Platone sa perfettamente, è sempre un λέγειν τί, è un dire qualcosa. È questo qualcosa che scombina i piani, cioè il λέγειν non può stare senza il τί, il mio dire non può stare senza ciò che il mio dire dice. Ma ciò che il mio dire dice non è il mio dire. Possiamo fare un esempio molto banale: se io dico A, non dico niente, devo dire che A è B, per es., – posso anche dire che A è A e non cambia niente. Dicendo che A è B dico di fatto che A è una cosa che A non è, perché è B. Come dire ancora che dico che una cosa è, a condizione di non essere quella che è. Questa condizione – che non sia quella che è – è la condizione perché io possa dire che cos’è quello che dico. Platone, arriva a dire questo, è acuto, un fine pensatore, però è ciò contro cui combatte, è ciò che vuole a tutti i costi eliminare; ma si accorge che non può eliminarlo e, infatti, tronca il discorso. Dicevo che qui c’è tutta la questione del linguaggio e della volontà di potenza, che sono fatti della stessa cosa. Quando dico, io “vorrei” che ciò che dico fosse una certa cosa, quella che è; solo che dicendola, questa cosa ne dice un’altra, se non altro per dire ciò che io sto dicendo, per dire che A è qualche cosa, quindi è B. In questa operazione mi trovo di fronte all’ente in quanto Uno, il Bene, il mio dire, di cui mi ritengo padrone assoluto, e ciò che invece il mio dire dice. Facendo così, questo Uno – che vorrei che rimanesse Uno, che rimanesse quello che è, che il mio dire fosse quello che è – invece mi trovo spostato, proprio per la necessità di dire quello che è, su un’altra cosa; allora, la volontà di potenza, che punta, come τέλος, come finalità, a fare del mio dire un ente a sé stante, indipendente e autosufficiente, si scontra immediatamente, dicendo quella cosa, con lo spostamento, si scontra con il fatto che il mio dire dice qualche cosa; e, allora la volontà di potenza si sposta su quell’altra cosa, che mi ha scombinato i piani, perché dall’Uno, che volevo mantenere come tale, siamo passati ai molti; ma anche i molti, quando li considero, li considero come Uno, e a questo punto penso di avere raggiunto l’unità: il primo è Uno, il secondo è Uno. Ma il secondo è, sì, Uno però è di nuovo una condizione di essere molti. E così sono preso in quella corsa infinita, inarrestabile, che Nietzsche chiama superpotenziamento, per cui giustamente diceva, anche se non aveva tutti i termini, che se mi fermo, immediatamente è un depotenziamento, perché se mi fermo ciò che dico non significa niente. Non posso fermarmi, devo dire ciò che il mio dire significa, cioè, dice. Il problema è che, facendo questo, avvio uno spostamento senza fine. E questo ci riporta in un cero senso al punto di partenza, e cioè ciò che dice il sofista è, come dicevo prima, che ciò che tu sai è ciò che credi di sapere. Platone ha allora cercato di distinguere bene ciò che so da ciò che credo di sapere: ciò che credo di sapere potrebbe anche non essere, essere falso, mentre ciò che so no. Il sofista gli dice “No, ciò che sai e ciò che credi di sapere sono la stessa cosa: sapere e credere di sapere sono lo stesso”. È questo il dramma: ciò che so e ciò che credo di sapere sono lo stesso e non abbiamo modo di separarli. Il credere di sapere è il porre un qualche cosa come in attesa di una verifica, verifica che non avverrà mai, perché ciò che so da che cosa è sostenuto? È la stessa cosa che abbiamo vista in Aristotele, poi in Platone, fino ad arrivare a Mendelson: che cosa sostiene tutto quanto? Ciò che credo di sapere. Ciò che so viene da ciò che credo di sapere, viene dalla chiacchiera, dal si pensa, dal si dice, dal si crede, dal si immagina, dal si suppone. È un altro modo per dire la stessa cosa, e cioè la certezza più assoluta ha come fondamento il credere di sapere: io credo di sapere che quella è una certezza assoluta, ma non lo posso dimostrare, perché ogni dimostrazione di per sé non dimostra niente al di fuori del gioco in cui è inserita, ovviamente. Ecco, quindi, la battaglia strenua di Platone nei confronti del linguaggio. Era come se volesse raggiungere una volontà di potenza totale, che era configurata dall’idea di cogliere l’ente così com’è e, quindi, non di credere di sapere come è l’ente ma sapere come è l’ente; non più il δοξάζειν ma l’έπιστήμη. Ma l’έπιστήμη può essere pensata come certezza soltanto se ciò che dico non fosse indissolubilmente legato con ciò che il mio dire dice. È questo il problema, il problema del linguaggio, in questa separazione, in questa divisione, in questo iato, in questa scissura che non è colmabile in nessun modo; se per assurdo si colmasse, il linguaggio cesserebbe di esistere all’istante e noi non saremmo. È questo che il linguaggio produce. La volontà di potenza si manifesta anche in questo modo: il mio dire produce, crea, fa essere qualcosa che prima non era, vale a dire, il τί del λέγειν, il qualcosa che il mio dire dice; il mio dire dicendo crea questo τί, il qualcosa, che da quel momento esiste. Ho creato qualcosa dal nulla. Quindi, la volontà di potenza a questo punto, quando ha creato il τί, vuole che il τί sia quello che è. Quindi, da una parte la volontà di potenza immagina che il dire, il λέγειν, sia l’Uno, ma, nel momento in cui verifica che questo Uno per esistere ha bisogno di molti, allora si accaparra i molti come Uno, solo che facendo così innesca un processo infinito e inizia la necessità di un superpotenziamento continuo: ecco perché le persone non smettono mai di parlare. Cosa che in alcune occasioni sarebbe anche interessante, ma non possono farlo, non possono cessare di parlare. Questo in qualche modo lo aveva intuito anche Spinoza, ma era proprio solo un’intuizione. Qui invece poniamo la questione in termini radicali: non possono cessare di parlare, appena smettono parte il depotenziamento istantaneo, perdono cioè potere, e quindi ecco che si affannano e aggiungono continuamente cose su cose. Perché? Per non perdere il superpotenziamento, per non perdere quindi il potere che il loro dire conferisce, potere sull’altro, potere sull’altro discorso, su qualcuno; potere che si manifesta nella possibilità di modificare l’altro, di modificare l’ente – altro come ente – che poi sia qualcuno, questo è irrilevante. Questa possibilità, e qui Aristotele aveva inteso bene, la δύναμις non esiste senza l’ἐνέργεια, senza l’atto: la δύναμις esiste in quanto esiste l’atto, cioè, il suo compimento, il τέλος. In fondo anche Aristotele ci era arrivato e poi Hegel prese buona parte da lì; infatti, per Hegel Aristotele era il supremo pensatore: la potenza non esiste senza l’atto, è solo con l’atto che la potenza diventa potenza, in questo percorso retroattivo. Percorso che, come dicevo, Hegel riprende: in sé, per sé e di nuovo in sé; che è un altro modo per dire che, se prendiamo il λέγειν τί, il mio dire dice qualcosa, ma è questo qualcosa che fa esistere il mio dire. Questo è un altro modo per formulare ciò che dicevo prima relativamente al problema del linguaggio, e cioè è questo qualche cosa che fa esistere il mio dire, non c’è prima. È per questo che non lo posso isolare; se lo isolo, non c’è, non c’è niente; perché possa esistere occorre che questa cosa che dico non sia quella cosa che dico, o meglio, che il mio dire non sia il mio dire ma sia un’altra cosa, cioè ciò che il mio dire dice. Ecco perché i sofisti puntavano proprio su questo punto, ed è su questo punto che Platone non può più giocare, perché è messo alle corde, e cioè il fatto che una qualunque cosa è a condizione di non essere: che non sia è la condizione perché sia. Poi, è come dire che A è B, quindi A non è A ma è B, quindi, A è qualche cosa che non è, ma la condizione perché sia è che sia B, e cioè che sia quello che non è. La volontà di potenza, dicevo, è ciò che fa sì che gli umani non possano cessare di parlare ininterrottamente, è l’unico motivo per cui parlano. Nietzsche questo lo aveva intuito, senza riuscire – non aveva forse gli strumenti – a porre la questione in termini ontologici e teoretici, ma lo aveva intuito: qualunque cosa si dica, in qualunque ambito, in qualunque tipo di relazione cosiddetta umana, che sia relazione amorosa, economica, politica, militare, sociale, in qualunque tipo di relazione ciò che accade è che ciò che si dice è soltanto il modo per potere manifestare la volontà di potenza, e il cosiddetto contenuto è solo il pretesto, non significa niente, assolutamente niente; può essere l’una o un’altra cosa, non cambia nulla, l’importante è che ci sia l’occasione per potere superpotenziarsi, per potere dire qualche cosa in forza del superpotenziamento o in virtù del superpotenziamento. Non posso non continuare a dire, non lo posso fare, è finita se mi fermo. Quindi, tutto è mosso dalla volontà di potenza. L’ho detto tante volte che questa espressione “volontà di potenza” non mi è mai piaciuta; anche la volontà irrinunciabile, la volontà di determinare, di dominare l’ente, non mi sembra molto meglio; però, finché non troviamo un’espressione migliore… Volontà di potenza sembra alludere a qualche cosa che le persone mettono in atto ma che potrebbero anche non fare, e invece no è qualcosa che nessuno può arginare: ogni volta che affermo qualcosa la metto in atto, necessariamente, come anche in questo istante in cui, affermando cose, metto in atto la volontà di potenza; volontà di potenza che si esprime nel cercare teoreticamente condizioni di affermabilità di alcune affermazioni. La teoria, come dicevamo, afferma cose su cose; anche nella dimostrazione si tratta di affermare cose su cose; l’approccio teoretico, invece, punta a cogliere le condizioni di affermabilità di quelle affermazioni. Ora, qualcuno potrebbe obiettare che nel cogliere le condizioni di affermabilità di certe affermazioni si compie una sorta di teorizzazione. Certo, da fatto, non si può togliere nessuna delle due, né la teoria né la teoresi, sono due momenti dello stesso, come stiamo vedendo continuamente, in tutte le cose che stiamo leggendo. Magari le leggiamo, come in Platone, nel tentativo di tenerle ben separate, di separare i buoni dai cattivi, come dice Platone: l’Uno e il buono, i molti sono il male, i cattivi. Separare i buoni dai cattivi in modo che sia chiaro da che parte bisogna stare, in modo che sia chiaro che se io dico che cos’è l’Uno, e cioè il Bene, occorre che tutti vadano in quella direzione. Non c’era la televisione, quindi, occorreva un sistema più sofisticato: mostrare l’ente così com’è. E se non si può mostrare l’ente così com’è allora è il sofista che dice, in effetti, qual è la direzione da seguire: il tuo sapere è credere di sapere, e viceversa. Non c’è nessuna distinzione né può farsi, non posso fare una distinzione; dovrei, ed è quello che ha tentato di fare Platone, riuscire a stabilire il sapere definitivo, l’έπιστήμη. Letteralmente, έπιστήμη è stare sopra, da sopra vedere il tutto, panottico. Ma questo non riesce. Tenere separate le cose. Che, poi, è stato anche l’“errore” di Severino. Lui ha colto bene la questione del concreto e dell’astratto, ma ha voluto tenerli separati. È lì che non è più riuscito ad andare avanti. Eppure conosceva Hegel alla perfezione, avrebbe potuto avere questa intuizione. Concreto e astratto sono due momenti dello stesso, non li posso separare, isolare, se tolgo l’uno tolgo l’altro; mentre lui pensava che un giorno… Chiaramente, a quel punto non c’è che il futuro in cui tutti gli astratti saranno diventati concreti e concreto sarà il Tutto. No, non succederà mai, perché se ne aggiungerà sempre qualcuno e, quindi, questo concreto non esisterà mai. Severino non è riuscito ad andare oltre questo punto, non poteva andare oltre se non si considera che sono due momenti dello stesso, come in effetti aveva colto Hegel. Mercoledì scorso ci siamo fermati senza leggere l’ultima pagina, che naturalmente era quella risolutiva. A pag. 649 dice Nel Cratilo Platone non aveva ancora sviluppato una visione precisa del λόγος. Tanto più positivo è il significato di questo dialogo. Qui c’è la vicenda della nascita della logica greca, la quale non possiede più per noi oggi quel carattere problematico che induce ala ricerca ulteriore, mentre lo aveva in Platone e Aristotele. Per noi essa è diventata una sorta di “patrimonio” che sottomette tutti i problemi vitali al dominio che più le compete. Questa era la fantasia della logica. Sappiamo perfettamente che la logica non ha nessun fondamento logico: questo già Hegel lo aveva colto. Così come ciò che chiamiamo scienza non ha né può avere alcun fondamento scientifico. A pag. 610. La δόξα viene a sua volta ricondotta alla διάνοια e con ciò al λόγος. La δόξα è άποτελεύτησισ διάνοιας, “il compimento di un διανοεῖν, di un λέγειν, di un rivolgersi ad alcunché; essa è cioè il richiamo compiuto, il saldo ritenere-qualcosa-per-qualcosa. È la definizione di sapere: un saldo ritenere-qualcosa-per-qualcosa, cioè, per quello che è. Se questo non è il sapere, viene difficile definire il sapere. Quindi, perché sia un saldo ritenere occorre che ciò che so non muti, perché se lo ritengo vuol dire che non cambia, quindi, deve essere quello che è. Dunque, l’essenziale nella δόξα è ancora una volta come nel διανοεῖν: prendere qualcosa per qualcosa, cioè la struttura dell’in-quanto. Sta parlando della δόξα ma in realtà sta definendo il sapere: prendere qualcosa in quanto qualcosa per quello che è. Ebbene, il λέγειν nel senso del διανοεῖν è un avere lì presente καθαύτό (in quanto se stesso) ciò a cui ci si rivolge. L’ente nel suo proprio quid, nel suo εἶδος, c’è, πάρεστιν, nel διανοεῖν. Nel pensiero l’ente è lì, è lì nel διανοεῖν, nel pensiero. Il διανοεῖν è dunque un vedere qualcosa, ma non con gli occhi sensibili. Esso è caratterizzato come un vedere nel senso di: ciò che in esso è visto è presente in quanto tale. Ciò che io penso è visto in quanto tale, ma nel senso che lo penso così. Ma l’ente può ben anche “essere presente tramite percezione sensibile”.  Questo essere presente di alcunché di percepito sensibilmente vien determinato come: φαίνεται; qualcosa si mostra nell’αίσθησις (percezione); si tratta in senso stretto di: φαντασία. Lui attribuisce questo termine φαντασία alla percezione sensibile: ciò che vedo, che tocco, è una φαντασία. Qui φαντασία non significa: fantasticare, mera immaginazione, bensì è riferito a ciò che in questa rappresentazione, in questa presentificazione, è presente; φαντασία è dunque sinonimo di λόγος nel senso di λεγόμενον. Qui c’è un’altra questione importante, quella della rappresentazione. Soltanto gli umani possono rappresentarsi le cose: soltanto gli umani hanno un futuro, soltanto gli umani possono desiderare, un animale non desidera. Per potere desiderare io devo rappresentarmi, cioè rendere presente ciò che presente non è, devo costruirlo, appunto devo rappresentarlo, rendermelo presente. Operazione che faccio quando ciò che io voglio rappresentare non è presente, ovviamente. Questo è ciò che fa il linguaggio, ma come fa? È semplice. L’ho detto prima, solo che parlavo di qualcosa leggermente differente. Letteralmente, producendolo: il λέγειν produce il τί. Il τί è qualche cosa che non c’era prima, diventa presente nel momento in cui io parlo e allora lo presentifico. Presentifico che cosa esattamente? Presentifico il λέγειν, non il τί; presentifico, rendo presente ciò che io sto dicendo. Soltanto con il τί il mio dire diventa presente a me che lo sto dicendo. Quando dice che φαντασία è dunque sinonimo di λόγος nel senso di λεγόμενον (detto) sta dicendo che ciò che è presente, in effetti, è il detto, è ciò che il mio dire produce, il τί, se volete. È questo che si produce ed è questo che mi consente di rappresentare, di rendermi presente ciò che non c’è. Però questa espressione ha, come pure in Aristotele, la caratteristica ambivalenza semantica che connota tutti questi termini indicanti atteggiamenti dell’άληθεύειν: λόγος, δόξα, θέσις, ύπόληψις (supposizione). Tutte queste variazioni semantiche intendono da una parte l’atto dell’άληθεύειν, dall’altra ciò che sta allo scoperto, in quanto tale. Platone interpreta la φαντασία come δόξα, precisamente come δόξα sul fondamento dell’αίσθησις. L’αίσθησις sarebbe la percezione. La percezione qui da dove arriva? Platone, dicendo la φαντασία come δόξα sul fondamento dell’αίσθησις, ci sta dicendo che c’è una percezione che funziona come fondamento della δόξα, cioè del mio sapere, in definitiva. Ma di questa percezione cosa dobbiamo dirne? Qui, in effetti, non dice in che modo dovremmo prendere questa αίσθησις, ma lo dice tra le righe: l’αίσθησις comunque non si dà senza il λόγος, perché se percepisco – qui la finezza del ragionamento di Platone – percepisco qualcosa, cioè l’αίσθησις è pure lei κατά τινός, in vista di qualcosa: se percepisco, quindi, percepisco qualcosa. La percezione, quindi, è tale presa in questo spostamento; tolgo il κατά τινός, l’in vista di, e tolgo la percezione. Per tornare alla questione della volontà di potenza, al punto in cui siamo abbiamo inteso perché gli umani non possono cessare di parlare ininterrottamente; quindi, sappiamo anche su quali basi la retorica può funzionare. E sappiamo anche perché per i Greci la vista era tra i cinque sensi il più importante: sì, certo, lo abbiamo sempre detto, perché offre una maggiore gamma di dettagli, di sfumature, ecc., quindi, più cose su cui dominare. E, quindi, la retorica che cosa fa? Offre su un piatto d’argento qualcosa su cui dominare: ecco perché è così efficace. Offrendo questo ente da dominare ottiene immediatamente quello che vuole, perché quell’altro ente, che è qualcuno in questo caso, si getta a capofitto sull’ente da dominare, perché non può non superpotenziarsi costantemente; quindi, ha bisogno di enti da dominare. Non è che cerca degli enti da dominare per nulla, ha la necessità continua, ininterrotta, di enti da dominare. E questa non è una scelta, è la struttura del linguaggio: se dico, dico qualcosa. Questo qualcosa, a sua volta, diventa un ente da dominare, ma come lo domino? Immagino che anche lui sia Uno, che anche il τί, finché è molti, sia Uno, ma per pensarlo come Uno deve necessariamente essere molti. Questo, torno a dire, è il problema con cui si è scontrato Platone e da cui non è uscito, cioè, per pensare una certa cosa devo pensare ciò che quella cosa non è o, come direbbero gli eleati, ciascuna cosa è in quanto non è. Il che è molto diverso da ciò che diceva Parmenide – l’essere è e il non-essere non è – perché lui lo dice, l’essere è pensare, quindi il non-essere è non pensare. In questo senso non è: se l’essere è il pensiero, il non pensiero non è, non esiste, è nulla, sarebbe il nihil absolutum. Non il μή ὅν di cui parla Platone, che è un ente, naturalmente, se ne sto parlando è un ente, è quello. Quindi, anche la percezione, che sembra la cosa più concreta, reale, come direbbero alcuni, di fatto non è fuori del linguaggio, perché se è percezione è percezione di qualcosa: come qualunque cosa, se è qualcosa, è per qualche cos’altro. Platone insiste continuamente su questo. Che è poi la sua maledizione: il λέγειν non esiste se non come λέγειν τί, come dire qualcosa.

Intervento: …

Infatti, ουσία, sostanza, essere, come termine, ci ricorda Heidegger, è solo la forma abbreviata di παρουσία, che è il manifestarsi. L’essere per il greco non è altro che ciò che si manifesta, che vedo. E, quindi, che cosa vuole Platone? Vuole che si creda a ciò che si vede, il sofista no, il sofista non vede, quindi, non crede, e questo è un problema. Credere a ciò che si vede è ciò che fa la retorica. Prima dicevo che la retorica offre su un piatto d’argento l’ente su cui dominare, un ente vero, autentico, immutabile. È su questa permanenza che posso dominare, perché se cambia continuamente, come lo domino? Tutta la dialettica, e poi la logica, hanno avuto questa funzione: fare credere che l’ente sia quello che è. E lo posso dimostrare: costruisco una bella prova logica, arrivo al teorema e, ecco, è così! Ma come già diceva Wittgenstein: e allora, che cosa abbiamo fatto? Niente, abbiamo fatto un bel giochino. Ora, questa battaglia, questa gigantomachia di Platone contro i sofisti, la ritroviamo nei tre dialoghi platonici che leggeremo da mercoledì prossimo: Eutidemo, Gorgia e Protagora. In questi dialoghi ciò che ci interessa è quali armi utilizza Platone per sconfiggere i sofisti. Questo era il suo unico, vero obiettivo, il suo τέλος, il suo compimento: eliminare definitivamente il sofista. Come? Questo è il problema. Con le argomentazioni? Non ci si riesce tanto. Quindi, come? Con la censura, esiste apposta: non dovete interrogarvi oltre, come fanno gli eleati. Questo lo dicono tanto Platone quanto Aristotele. Non si governa senza la censura, non c’è niente da fare, non si impone qualcosa senza la censura, cioè, senza proibire di pensare che possa essere altrimenti. Se uno incomincia a pensare che sia altrimenti, si trova di fronte a una serie di altre possibilità, di altre strade, di altri percorsi da compiere, e si distrae e non guarda più l’unica cosa che deve guardare. Questa è la portata politica e sociale, sarebbe interessante andare a guardare gli scritti politici, ma non si può fare tutto. La censura, quindi. Platone: tu non interrogherai oltre. Perché? Che cosa c’è oltre? Oltre c’è la chiacchiera, c’è l’πειρον, direbbe Anassimandro, l’indeterminato; c’è la possibilità che qualcuno si accorga che io posso determinare solo con l’indeterminato, e allora crolla tutto. Ma questo non si può fare.