INDIETRO

 

 

6-4-2016

 

Con la logica pensata nel modo del greco antico, presocratico, non c’è la possibilità di costruire dei sistemi vero funzionali, che stabiliscano il vero o il falso. Questo è sorto dopo, molto dopo con la veritas romana, anche se i greci avevano il loro modo di pensare al vero o al falso simile al nostro, ma non proprio esattamente come il nostro, potremmo dirla così, che il loro sistema vero funzionale, che avevano anche loro ovviamente, era molto meno rigido, lasciava più aperture, più possibilità, era molto meno rigido di quanto possiamo pensarlo oggi, per questo motivo non era possibile per il greco antico costruire un computer, ammesso che avessero gli strumenti per farlo, non era pensabile una cosa del genere, un sistema vero funzionale così come l’algebra di Boole di cui parlavamo la volta scorsa. Dice Heidegger, pag 57: Secondo la definizione dell’essenza dell’uomo propria del pensiero occidentale egli è quell’ente che ha trovato la sua caratterizzazione nel λόγοn εκειν cioè nel possedere il discorso, colui che possiede il discorso, vale a dire nell’avere parola. L’uomo possiede la parola nel senso che ha lui e per quanto ne sappiamo solo lui accade di essere interpellato da ciò a cui si rapporta e di rispondere a questo appello nel dire, in modo tale che da per tutto ciò che appare viene al tempo stesso alla parola, anche se non risulta sempre espressamente pronunciato (sta dicendo che gli umani vivono all’interno della parola, dovunque si girino, parlino, pensino, quando si riferiscono a un qualche cosa comunque si riferiscono attraverso la parola, cioè sono immersi nella parola) Questo evento (di essere nella parola) secondo cui ciò che sempre appare o viene al tempo stesso dalla parola (tutto ciò che appare proviene dalla parola) è anche la ragione per cui l’uomo talvolta incontra anche l’indicibile (cioè per pensare l’indicibile, ciò che non può dirsi, occorre la parola, occorre il dire per pensare ciò che non può dirsi) l’indicibile non comparirebbe se tutto ciò che appare non fosse originariamente legato alla sfera del dire e della parola, ogni statua, ogni tempio, ogni suono di flauto non sarebbe niente se non potesse dimorare nella sfera della parola, (cioè sarebbe niente se non ci fosse la parola, anche la statua, il tempio nemmeno loro esisterebbero) Ora però da una riflessione che richiede solo coraggio nei confronti di ciò che è semplice e niente affatto profondità o erudizione emerge quanto segue: l’uomo che secondo la definizione della sua essenza ossia della parola ha perduto la parola di tutte le parole, in quanto pronuncia inavvertitamente la parola “essere” come se fosse la più insignificante di tutte le nullità anche se non la getta via perché non può gettarla via senza perdere il proprio essere. Immaginiamo l’attimo in cui venga sottratta all’uomo la possibilità di dire la parola “è”, la parola “essere” e di comprenderle, cerchiamo solo per un minuto di immaginare che cosa ne sarebbe dell’uomo, nessuna catastrofe che potesse capitare ai pianeti potrebbe essere paragonata con questo avvenimento che è il meno apparente di tutti gli eventi e che consisterebbe nel fatto che improvvisamente all’uomo verrebbe tolta la possibilità di rapportarsi all’ “è”, ma questa catastrofe è già operante da lungo tempo (lo diceva prima, quando l’uomo ha perduto la parola ha perduto la parola “essere”) è già operante da lungo tempo anche se nessuno è in grado di coglierne nella sua essenza, l’uomo storico si è spinto così in avanti che ha finito per dimenticare l’“è” e l’“essere” in quanto egli evita di riflettere su ciò che in questa parola viene nominato. L’indifferenza nei confronti dell’essere avvolge i pianeti /…/ L’uomo si lascia inghiottire nel flusso della dimenticanza dell’essere anche se in verità non si tratta mai di immergersi completamente in questo flusso, (perché dice se così fosse infatti la stessa dimenticanza dell’essere sarebbe già avvertita e conosciuta, invece) proprio questa dimenticanza dell’essere è dimenticata (non solo è dimenticato l’essere ma si è anche dimenticato di averlo dimenticato) e questo corrisponde certamente all’essenza stessa della dimenticanza per cui tutto ciò che essa abbraccia viene inghiottito come in un vortice (Ora quello che dice qui Heidegger certo è riferito all’essere, all’essere cioè a quella parola che si considera generalmente la più universale ma per questo la più vuota, perché comprende tutto e comprendendo tutto è come se non avesse alcuna determinazione, è la parola più universale, più generale di tutte le parole che si possono pensare. Però l’essere è anche il significato dell’ente che è appunto un significante, cosa vuole dire allora che l’uomo ha dimenticato l’essere e si è dimenticato anche di averlo dimenticato? Si è dimenticato dell’importanza del significato, diciamola così, “autentico” di ciò che si sta dicendo, dimenticando questo si dimentica di interrogare perché è come se a questo punto il significato non fosse più un problema, ma fosse già dato, già stabilito in quella sorta di incollamento tra significante e significato, di ente e di essere di cui parlava Husserl. La questione è che dimenticando l’essere, cioè dimenticando il significato autentico che interviene parlando non si interroga più nulla, è questo che sta dicendo, cioè ci si è dimenticati di interrogare le cose, ma continua:) Che cosa dicono i pensatori della metafisica, che attraverso Platone e dopo Platone sono diventati i custodi dell’essere dell’ente? (qui c’è una sorta di sarcasmo da parte di Heidegger) che cosa dice dell’essere dell’ente l’ultimo pensatore all’interno della storia della metafisica? Nietzsche dice: l’essere è l’ultimo fumo di una svaporante realtà. Non viene forse qui legittimata dalla metafisica stessa proprio la dimenticanza dell’essere? (se dico che è l’ultimo fumo di una svaporante realtà, lo delegittimo, lo svilisco, lo deprezzo, dico che è niente.) Certamente, allora vale forse ancora la pena di ricordarsi di ciò che è soltanto mero fumo? (allora se è così come dice Nietzsche perché ricordarsi dell’essere, cioè di qualcosa che è mero fumo? Non varrebbe la pena, abbandoniamolo al suo destino e chiuso il discorso) È sufficiente che l’uomo viva e operi vicino alla vita e vicino alla realtà, a che cosa gli servirebbe l’essere se gli basta già l’ente e il reale per riempire come si suol dire la vita? (perché interrogarsi intorno alle cose? nessuno si interroga su nulla ma tutti continuano a vivere, a fare le loro cose incessantemente, sta dicendo Heidegger “a che serve?”) ma con questa espressione si ammette chiaramente che esiste ancora un vuoto, in effetti con la metafisica di Nietzsche l’essere è diventato un semplice valore, ma questo essere screditato a mero valore, è per la metafisica di Nietzsche meno valido del divenire, vale a dire della volontà di potenza. (Sì, Nietzsche ha screditato l’essere ma è l’essere, ciò di cui parla Nietzsche, in effetti Heidegger non lo dice perché non gli fa comodo, l’essere di cui parla Nietzsche è l’essere appunto della metafisica, è l’essere di Platone, è l’essere di Aristotele, è l’essere della metafisica teologica, della patristica, è l’essere anche di Cartesio, anche di Hegel per cui gli è facile dire contro Nietzsche. Nietzsche ha posto l’essere in quel modo, metafisicamente, è vero che è screditato, l’ultima delle stupidaggini inventate dalla metafisica ma quando lui pone la volontà di potenza come l’essere, dicendo che la volontà di potenza è l’unica cosa, l’unico significato che esiste, allora la cosa è un pochino diversa): Poiché nella metafisica di Nietzsche l’essere dell’ente che per ogni metafisica è rimasto comunque ciò che doveva essere pensato, si è dissolto nell’ultimo fumo proprio per questo la metafisica di Nietzsche è in assoluto la fine di ogni metafisica. (Avendo eliminato ciò che costituisce il fulcro, il fondamento, la base di qualunque metafisica, eliminando quello ha eliminato la metafisica, ma attraverso un sistema metafisico, è questo che sta dicendo Heidegger, perché è l’ultimo metafisico ma rimane metafisico) Infatti in questo esito finale viene pronunciata una decisione sull’essere nei confronti della quale non ha più senso il rafforzamento delle posizioni metafisiche tradizionali o qualsiasi tentativo di rifugiarsi in un cristianesimo rimorto (al punto in cui è arrivata la metafisica non ha più nessun senso, dice qui Heidegger un ulteriore rafforzamento di posizioni metafisiche, con Nietzsche la metafisica è come se avesse raggiunto il suo culmine, dopo di che la metafisica non ha più senso, non ha più senso perché Nietzsche ha rivoltato il castello della metafisica. Vi ricordate l’esempio che faceva del castello? Ha immaginato di rovesciarlo, per cui quello che sta sopra diventa ciò che sta sotto e ciò che sta sotto diventa ciò che sta sopra, che è come vedere di che cosa realmente è fatto il pensiero degli umani, la loro volontà, i loro interessi, i loro desideri, i loro affetti eccetera, di che cosa sono fatti? Rivoltato il castello ecco che ciò che trova è ciò di cui veramente sono fatti gli umani, cioè la volontà di potenza. È questo che trova Nietzsche) Ma posto che potremmo venir collocati al cospetto dell’essere in un modo meno doloroso, posto che di colpo venissero sottratti all’uomo moderno il cinema, la radio i giornali eccetera comunque l’uomo certamente vorrebbe voler morire piuttosto che ricordarsi dell’essere (Ricordarsi dell’essere, così come lo pone Heidegger, significa ricordarsi che l’essere è il significato e che questo essere di fatto è qualcosa di vuoto, è quel significato che rende il significante impossibile da gestire, è quel vuoto che trapassa il significante squarciandolo, per cui il significante non è più quel qualche cosa di sicuro, la realtà, è come se mettesse in radicale discussione, interrogando l’essere, quindi il significato, mettesse in discussione la nozione stessa di realtà, per questo dice Heidegger “preferirebbe morire piuttosto che ricordarsi dell’essere” perché ricordarsi dell’essere significa rimettere in gioco, rimettere in questione interrogando appunto. A pag. 61 riprende un concetto importante per il pensiero greco, il concetto di φύσις che è tradotto in genere come “natura”, φύσις, fisica non è che la scienza della natura se vogliamo dirla tutta ma la φύσις come la pone Heidegger è il puro sorgere, φύσις e τέχνη, entrambi sono produzioni di qualcosa ma la φύσις è ciò che sorge da sé, la τέχνη è ciò che sorge per opera dell’uomo) La φύσις, il puro sorgere non viene compresa esattamente astraendo in primo luogo dal ristretto ambito di ciò che noi chiamiamo comunemente “natura” (se noi la poniamo come la natura non capiamo niente della φύσις come era pensata dal greco antico) né tantomeno può essere attribuita in un secondo momento in senso traslato a uomini e a dei quale loro tratto essenziale, la φύσις nomina piuttosto ciò in cui in primo luogo sorgono terra e cielo, mare e monti, alberi e animali, uomini e dei, tutte queste cose in quanto sorgono e si mostrano in modo tale che possono essere nominate come enti proprio in riferimento a questo ambito del sorgere. (quindi ciò che sorge, la φύσις, è tutto ciò che ci appare, tutto ciò che possiamo dire, tutto ciò che possiamo dire è φύσις quindi non natura, natura è un’accezione particolarissima e anche relativamente recente del termine φύσις) Solo nella luce della φύσις diventano visibili per i greci quelli che noi chiamiamo “processi naturali” nelle modalità specifiche del loro sorgere (il fiorellino che sorge, ma per il greco era soltanto perché c’è la φύσις, che è questa luce, che consente di vedere le cose. La questione della luce per il greco ma anche per l’uomo moderno è fondamentale, ricordatevi del Mito della caverna di Platone, ancora in Platone c’è la metafisica della luce e cioè la luce è quel qualche cosa che consente di vedere, che consente quindi alle cose di esistere, di apparire e anche altre cose naturalmente, però se non ci fosse la luce non ci sarebbe la possibilità dell’apparire, d’altra parte ancora Heidegger quando parla della Lichtung parla della radura che si illumina. Questa luce per Heidegger non è propriamente una metafisica della luce, anche se si potrebbe arrivare attraverso una serie di passaggi ad affermare questo, ma è l’essere, è la φύσις, l’essere in quanto φύσις, in quanto anche φύσις perché per Heidegger l’essere è anche λόγος, anche λήθεια e anche tante altre cose, ma in quanto φύσις è quella luce che consente l’apparire delle cose) al contrario la scienza della natura dell’età moderna esperisce ad esempio lo schiudersi del germe come un processo chimico che si trova inserito nel processo nella tensione risultante dell’interazione meccanica tra le sementi (il germe della piantina sorge per una reazione chimica di acqua, terra fuoco eccetera) della natura del terreno, la radiazione termica eccetera ora il modo di rappresentare proprio dell’età moderna vede in questo caso solo nessi meccanici di cause ed effetti all’interno di processi chimici che producono come conseguenza un particolare effetto, (per esempio il sorgere del fiorellino) la scienza della natura moderna, la chimica non meno che la fisica, la biologia non meno della chimica e della stessa fisica sono e restano fin che esistono mera meccanica, anche la meccanica è una dinamica delle forze, se così non fosse, come potrebbe altrimenti la moderna scienza della natura trovare la sua conferma nella tecnica? /…/ L’influenza della tecnica nell’applicazione della moderna scienza della natura non è però la prova a posteriori della verità della scienza, piuttosto la tecnologia praticata dalla moderna scienza della natura risulta possibile solo perché una moderna scienza della natura nel suo insieme, nella sua essenza metafisica è già un’applicazione della tecnica, dove però il termine “tecnica” indica qualcosa di diverso da ciò che semplicemente fanno gli ingegneri (qui tra le righe c’è una questione interessante. Dice che non basta che qualche cosa funzioni, come vuole la tecnica, perché questa cosa sia vera o perché esista, noi vediamo che qualche cosa funziona quindi diciamo che esiste in base a tutto ciò che abbiamo imparato, come dire che il fatto che qualche cosa funzioni nella scienza o nella tecnica lo vediamo come una prova della sua esistenza, la prova della verità di un qualche cosa e Heidegger dice che non è proprio esattamente così, dice che noi siamo portati a pensare una cosa del genere proprio perché :) la moderna scienza della natura nel suo insieme, nella sua esistenza metafisica è già un’applicazione della tecnica (quindi ciò che vediamo è già un’applicazione di qualche cosa che abbiamo già dato per acquisito, per esistente, per confermato, dopo di che, una volta che abbiamo fatto questa operazione allora ciò che la tecnica produce sarà altrettanto vero, altrettanto esistente della tecnica che abbiamo già stabilito essere qualcosa che esiste. Tuttavia “tecnica” indica qualcosa di diverso di ciò che semplicemente fanno gli ingegneri, perché qui si intende “tecnica” come ποίησις, come produzione di qualche cosa) Il famoso detto di Goethe secondo cui il vero sta solo in ciò che porta frutti è già nichilismo (“il vero è solo ciò che porta frutti” potrebbe essere il motto della moderna tecnologia, ciò che produce guadagno ciò che produce potenza e qui siamo in pieno Nietzsche, ciò che da potenza e consente il super potenziamento, questo è il vero) Un giorno dovremmo esaminare in modo più preciso quelli che noi consideriamo i classici, quando sarà finito il tempo di giocherellare con opere d’arte o con opere poetiche secondo moduli culturali e in un’ottica che è quella della storia dello spirito e così anche la concezione della natura di Goethe non è così diversa nella sua essenza da quella di Newton, come quest’ultima essa si basa sul fondamento della metafisica moderna in particolare di quella leibniziana che è presente da per tutto ancor oggi in ogni oggetto e in ogni procedimento, se esaminiamo l’embrione osserviamo che qualcosa di chiuso si apre e schiudendosi viene fuori, questa osservazione potrebbe essere considerata una rappresentazione antiquata e semi poetica, per la determinazione oggettiva e per la spiegazione del processo di germinazione nel senso moderno tali rappresentazioni sono quindi prive di importanza. (cioè il fatto di osservare a un certo punto che il germe si schiude e viene fuori il fiorellino) Il chimico agrario ma anche i fisici moderni non sanno cosa farsene della φύσις (in accezione greca) sarebbe stolto volerli persuadere di poter fare qualcosa con l’esperienza greca della φύσις (perché non gliene importa niente) l’essenza greca della φύσις non è affatto l’appropriata generalizzazione dell’esperienza dello schiudersi del germe, dello sbocciare della fioritura e del sorgere del sole che il nostro punto di vista considera ancora ingenuo essa (cioè la concezione greca della φύσις) essa è piuttosto l’originaria esperienza del sorgere e venir fuori dal nascosto e dal coperto, e rapporto con la luce il cui chiarore il germinare e la fioritura si mantengono nel loro sorgere e perciò solo in questo processo si può osservare il modo in cui il germe è nel suo germogliare e il fiore è nel suo fiorire (la differenza fondamentale, e questo ci interessa per quanto riguarda la logica, è che per il greco antico ciò che oggi verrebbe considerato semplicemente un modo di dire poetico poco interessante, molto superficiale, invece l’esperienza greca coglie questa esperienza del sorgere di un qualche cosa come un venire fuori dal velato quindi come λήθεια, un venire fuori di qualche cosa che a un certo punto si mostra, io osservo il germe, vedo che ad un certo punto viene fuori il fiorellino, questo venire fuori del fiorellino per il greco antico è qualche cosa che mi dice del sorgere stesso delle cose, di qualche cosa che è uscita dal velato ed è venuta fuori allo scoperto, per così dire, “è venuta in luce” quindi è diventata visibile. Il greco antico pensa questo non perché è più stupido, ma perché per il greco antico questo rimane ciò che è da interrogare, ciò che è da pensare, cioè come accade questo, cosa che per la fisica moderna è totalmente cancellata, questa domanda nessuno se la pone più, né gliela si può porre in realtà perché non è più di questo che si occupa, si occupa di calcoli, ogni cosa deve diventare calcolabile, calcolabile ci direbbe Nietzsche al fine del superpotenziamento, perché è sempre questo l’obiettivo. L’obiettivo della logica, così come della fisica, della biologia, della chimica è e continua a essere e non può non essere, e lo vedremo in dettaglio più avanti, non può non essere volontà di potenza, solo questo, è per questo che il moderno non vede più nel sorgere di qualche cosa un problema, problema nel senso che c’è qualcosa da interrogare, perché sorprende, qualcosa che domanda, non vede più tutto questo che il greco vedeva, non perché fosse più ingenuo, ma perché si poneva ancora delle domande intorno alle cose fondamentali, intorno a ciò che è inaugurale, a ciò che è iniziale in ogni dire. Di fatto non è tanto il domandarsi del sorgere del fiorellino, anche, ma tutto questo ricordiamocelo sempre va ricondotto a ciò che diceva all’inizio e cioè l’umano è fondamentalmente colui che parla, quindi questa interrogazione è un’interrogazione che va sempre rivolta alla parola, anche al fiorellino sì, ma soprattutto alla parola, è la parola che interroga, che continua a domandare, invece come diceva nelle pagine precedenti questa domanda l’ha cancellata, niente interroga più perché tutto è calcolabile, e questa è la tecnica) Se dunque nell’espressione in greco τ μή δνον πότε che significa che non è possibile che qualcosa non sorga, (questa è la traduzione più banale,) è nominato il non tramontare mai inteso come un sorgere sempre e se le parole φύσις, φειν φων non esprimono il sorgere allora con tutta probabilità ciò che viene nominato da Eraclito (siamo partiti da un detto di Eraclito) potrebbe essere definito dall’espressione τό ἀεί φον oppure concentrando tutto in una sola parola dall’espressione τ είφων (cioè l’eternamente vivente, quindi ciò che non tramonta, ciò che continua a sorgere, ciò che sorge sempre perché il non tramontare mai qui è inteso proprio come il sorgere sempre, che è la φύσις che sorge continuamente, che mostra il linguaggio che continua a produrre ininterrottamente cose, è nel linguaggio che le cose sorgono ininterrottamente senza soluzione di continuità) ma questo termine non si trova nel detto e non lo troviamo neppure nei frammenti di Eraclito al suo posto egli usa il termine είζον “l’eternamente vivente” al posto di φων troviamo ζον che è il participio del verbo ζÁn traduciamo facilmente questo termine con “vivere” infatti crediamo di sapere che cosa esso significhi vivere, come potremmo non sapere che cos’è dato che noi stessi viviamo e che secondo l’assunto fondamentale della metafisica dell’età moderna ci forniamo la rappresentazione dell’ente dunque dell’essere partendo dall’esperienza del nostro proprio io? (quindi come facciamo a non sapere cos’è la vita se noi stessi la pratichiamo costantemente?) così anche per Nietzsche tutto in sintonia con la sua epoca la vita è ciò che vi è di più noto (lo aveva rilevato anche quando leggevamo il Nietzsche appunto di Heidegger) ciò che vi è di più assolutamente ovvio poiché tutto viene compreso a partire dalla vita, tutto ciò che viene oggettivato risulta vissuto e il rapporto col mondo è perciò dato dall’esperire vivendo, tutto proviene dall’esperienza vissuta, “Esperienza vissuta e poesia” si intitola un famoso libro di Dilthey. Poiché anche Nietzsche pensa a partire dall’esperire vivendo, egli non esita a interpretare con “vita” la parola fondamentale di tutto il pensiero la parola “essere”. In una notazione che risale agli anni 85/86 Nietzsche scrive “L’essere, noi non abbiamo altra rappresentazione di esso che vivere!” come infatti può essere qualcosa che è morto? (può essere infatti “è morto”) Noi, vale a dire nell’epoca di Nietzsche forse già da molto tempo non abbiamo altra rappresentazione per dire “essere” fuori che “vivere” il problema è allora il vedere quale rappresentazione del “vivere” abbiamo noi, Nietzsche interpreta la vita come sappiamo come volontà di potenza, nella seconda parte di “Così parlò Zarathustra, nella sezione intitolata della “Vittoria su se stesso” viene enunciato per la prima volta il nesso tra vita e volontà di potenza, dice Nietzsche: Certo non ha torto nella verità colui che per raggiungerla lanciò la parola della volontà di esistere, questa volontà non esiste, (la volontà di esistere non c’è per Nietzsche, non c’è nessuna volontà di esistere) infatti ciò che non è non è, non può volere ma ciò che è nell’esistenza come potrebbe ancora volere l’esistenza se già esiste? Solo dove è vita è anche volontà ma non volontà di vita bensì, così ti insegno io (Zarathustra), volontà di potenza. Molte cose per il vivente hanno valore più della vita stessa, ma anche dal suo porre valori parla la volontà di potenza, poco prima di queste affermazioni nella stessa sezione si legge: Ogni volta che ho trovato un essere vivente ho anche trovato volontà di potenza e anche nella volontà di colui che serve ho trovato la volontà di essere padrone (è importante oltre che interessante quello che sta dicendo, in effetti la volontà di vivere in moltissimi casi non c’è, non c’è per esempio per il martire, l’eroe che sacrifica la propria vita per qualche cosa di più grande, ma facendo questo soddisfa la volontà di potenza) In tutto questo è implicito quanto segue: ciò che non ha il carattere della volontà di potenza non è essere, ma proprio in quanto non è pensato con i caratteri della volontà di potenza è mero fumo, in verità anche questo fumo è necessario per vivere, secondo Nietzsche esso è il vero che l’uomo deve dare a intendere a se stesso per potere vivere, vale a dire per potere esistere come volontà di potenza (è quell’inganno rispetto alla verità, la verità non c’è, però ce ne serviamo facendo finta che sia così per potere proseguire a vivere cioè per proseguire a esercitare la volontà di potenza. Per Nietzsche “vivere” è esercitare la volontà di potenza) ma noi vediamo anche quanto segue il richiamo al vivente e alla vita racchiude già sempre in se stesso una interpretazione della sua essenza, Nietzsche trova qualcosa di vivente solo laddove trova volontà di potenza, per dirla in modo più generalizzato si può affermare che egli trova il vivente laddove ciò che si incontra corrisponde già alla rappresentazione tradizionale di ciò che è vita, cioè volontà di potenza /…/ pag. 68: Quando Nietzsche dice: L’essere è l’ultimo fumo di una svaporata realtà, nel suo linguaggio e con il coraggio del pensatore metafisico, egli porta alle estreme conseguenze quella verità che tutta la metafisica considera ovvia, l’essere è il concetto più vuoto e più universale, è il più generale, è sempre più onesto far passare l’essere per mero fumo, proprio in quanto lo si considera la presunta astrazione di tutto ciò che è astratto, piuttosto che, nell’ambito dell’allontanamento dell’essere ormai compiuto, comportarsi come se si ponesse il problema dell’essere. (qui sta dicendo che è meglio, come fa Nietzsche, porre l’essere come il concetto più vuoto di tutti, piuttosto che fare finta di occuparsi dell’essere pensando chissà quali stupidaggini) Diciamo abbiamo tradotto, la locuzione quella di prima τ μή δνον πότε in modi diversi parallelamente al procedere della chiarificazione, innanzi tutto l’abbiamo tradotto con l’espressione “ciò che non tramonta affatto per sempre” poi siamo passati a evidenziare il significato puramente verbale dicendo “il non tramontare affatto per sempre” in seguito abbiamo unito le due particelle μή e πότε tra le quali si trova inserito il termine δνον (tramontare) in un’espressione del greco corrente μή ποτε dicendo “non tramontare mai” infine abbiamo conferito a questa espressione negativa una forma affermativa e abbiamo sostituito all’espressione τ μή δνον πότε tradotta con il “non tramontare mai” con l’espressione “il continuo sorgere” [das ständing Aufgehen]. In questa espressione tedesca abbiamo riconosciuto l’originario significato della parola greca “φύσις” che è anche la parola fondamentale del pensiero iniziale. (Vi ho letto questo per dirvi dell’operazione che ha fatta Heidegger per questa parola, cioè trasformazioni, travolgimenti per cercare di cogliere il senso più autentico, più antico in questo caso di questa frase greca τ μή δνον πότε che è giunto a tradurre con “il continuo sorgere” ma perché è arrivato a questo? Perché “il continuo sorgere” lui lo connette con la φύσις, la φύσις è il continuo sorgere, potremmo dire senza andare troppo lontani che è il linguaggio il continuo sorgere, l’unica cosa che continua a sorgere incessantemente e quindi a interrogare) pag. 71: dal procedimento con cui abbiamo chiarito la traduzione della locuzione eraclitea τ μή δνον πότε (vi leggo solo l’ultima formulazione) “un continuo sorgere” (in realtà qui è messa negativo, “ciò che non cessa di tramontare”) dunque ciò che abbiamo tradotto, chiarito è il risultato in primo luogo dell’espressione “non tramontare mai” equivale all’espressione “sorgere continuo” (appunto della φύσις) tὸ ¢eὶ fÚon . Al posto di questa espressione che non è presente in Eraclito possiamo dire τό ἀείφον “il vivere continuo”, un’espressione che lo stesso Eraclito usa nel frammento 30, nuovamente ci troviamo di fronte a una parola fondamentale ζον, ζÁn “vita”. Attraverso tutta la storia del pensiero occidentale in un solo istante e già all’inizio di questo pensiero questa parola chiave mostra la vicinanza essenziale tra vita e essere, da ultimo Nietzsche ha enunciato queste equivalenze tra essere e vita, (avevamo visto prima tra l’essere e la vita) e lo ha fatto pensando ed esperendo la vita come volontà di potenza, così alla parola “essere” viene tolto il ruolo fondamentale della filosofia, (l’ha considerata non più come qualche cosa che è ancora da interrogare, questo in Nietzsche, interrogare l’essere ma come la volontà di potenza) Il termine “essere” rimane la denominazione di ciò che significa stabilità (nel pensiero comune funziona così, anche nel pensiero filosofico tranne rare eccezioni l’essere è quello che è, ciò che è stabile, fisso, identico a sé, l’essere della metafisica) quest’ultima viene pensata nel senso della metafisica moderna come sinonimo di sicurezza e assicurazione ma ora la stabile sicurezza vale a dire l’essere non è la stessa volontà di potenza, non è la vita stessa bensì è semplicemente una condizione che la vita pone a sé stessa, la volontà di potenza può solo volere ciò che vuole e deve volere, vale a dire deve volere maggiore potenza e quindi accrescimento di potenza dopo essersi assicurata un livello di potenza raggiunto il quale si compie il passo successivo oltre di esso (ogni volta che si raggiunge un livello di potenza, se questo non lo aumento immediatamente questo diventa un decrescimento, devo continuamente aumentare la mia potenza. L’idea del super potenziamento è una delle cose più attraenti per gli umani, è difficile rinunciare all’idea di potere acquisire sempre maggiore potere) Ciò che ogni volta viene assicurato ossia l’ente e l’assicurazione che ogni volta si ha ossia l’essere (cioè l’ente è ciò che viene assicurato, dà la sicurezza che quella cosa sia quella cosa: è l’essere) visti nella prospettiva della volontà di potenza rimangono semplicemente qualcosa di transitorio, rimangono ciò che è soltanto per essere superato e che proprio per questo deve essere ridotto in fumo nel fuoco della volontà di potenza (per questo Nietzsche dice che l’essere non è altro che fumo, perché questa volontà di potenza, questo essere deve essere super potenziato, quindi deve essere sempre in divenire, quindi l’essere di fatto è qualcosa che è fumo perché non ha un suo statuto, non ha una sua stabilità, la stabilità la cerca naturalmente, fortissimamente, ma appena la trova deve superarla ché altrimenti non è più stabilità, un potere che se non viene continuamente incrementato si perde) in verità il pensiero più alto di questa metafisica (si sta riferendo a Nietzsche) si ammette ancora il ricordo dell’essere infatti se la volontà di potenza si manifesta come la realtà del reale (la volontà di potenza come realtà del reale, badate bene) e proprio in quanto tale deve rimanere determinante allora la vita, vale a dire il continuo divenire deve assumere il carattere fondamentale dell’essere e proprio questo divenire vale a dire la volontà di potenza deve essere voluto come essere (cioè la volontà di potenza è ciò che si vuole come il significato ultimo delle cose, e quindi ciò che è ricercato è sempre il significato ma in quanto volontà di potenza, la volontà di potenza è il significato delle cose, Nietzsche poi dice questo.) All’inizio di una annotazione più lunga intitolata “Ricapitolazione” Nietzsche afferma “Imprimere al divenire il carattere dell’essere, questa è la suprema volontà di potenza” (sì certo perché pone al divenire qualcosa che è continuamente diveniente, ciò che ritorna nel nulla e che viene dal nulla. Poi riprenderemo questo perché c’è in effetti una questione che riguarda Severino con tutto ciò, porre l’essere come il divenire per Severino è una contraddizione, è la follia, perché il divenire dice che qualcosa è ma anche non è, e per Severino questa è la follia. Qui c’è una notazione in più perché imprime al divenire il carattere dell’essere, non dice che il divenire è l’essere ma gli imprime questa cosa con estrema, assoluta e totale volontà di potenza: cioè io impongo al divenire di essere (è il tentativo di controllare il divenire) sì che è un po’ diversa da come la pone Severino lì non c’è nessun imprimere qualche cosa) La forma più alta di volontà di potenza (qui è Heidegger che parla ma si riferisce a Nietzsche ovviamente) è quella che vuole il divenire ma che al tempo stesso vuole rendere stabile questo divenire come essere.