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6 marzo 2024

 

Aristotele Fisica

 

Da tempo stiamo costruendo una scuola di sofisti, di sicuro non una scuola di psicoanalisi, cosa che peraltro oggi non avrebbe alcun senso, perché la psicoanalisi, non solo non esiste più, ma perché la psicoanalisi è uno degli ultimi prodotti del neoplatonismo. Non l’ultimo. L’ultima produzione del neoplatonismo è quella cosa che oggi viene chiamata intelligenza artificiale. Ecco perché a noi interessa il neoplatonismo e, terminata la Fisica, ci dedicheremo a Plotino, il principale autore, e poi tutti gli altri, perché il neoplatonismo, con tutto ciò che esso produce, ha sempre la stessa struttura: la separazione dell’uno dai molti e, quindi, stabilire il bene e il male, il giusto e lo sbagliato, ecc. Tutto questo ci dice subito che una certa dottrina, essendo prodotta dal neoplatonismo, una dottrina che quindi divide il bene dal male, l’uno dai molti, è una dottrina religiosa. Perché non ci interessa una dottrina religiosa? Perché non pensa; non pensa perché, tenendo separato l’uno dai molti, deve escludere ciò che è da pensare, cioè, i molti che determinano l’uno. Prendete, per esempio, quella cosa che comunemente si chiama ideologia. L’ideologia è la rappresentazione del neoplatonismo, una rappresentazione della separazione del bene dal male: la mia idea è quella giusta, io so che cosa è bene e cosa è male. Nell’ideologia permane fortemente l’idea che il bene stia da una parte e il male da quell’altra; non importa da che parte, purché siano distinte, e questo è irrinunciabile in tutto il pensiero religioso, quindi, in tutto il pensiero. Duemila anni di cristianesimo non sono passati invano, nel senso che hanno lasciato il segno. Nella Fisica Aristotele critica i suoi predecessori, ma non critica per quello che vedevano (il fuoco, l’acqua, l’aria, ecc.), questo è irrilevante, ma il fatto di tenere separate le cose. Lo dirà tra poco e poi arriverà, a mano a mano, verso la fine, dove parlerà del movimento, a indicare l’έντελέχειᾳ, che non è altro che l’Aufhebung di cui parlerà Hegel, come l’integrazione di δύναμις e ἐνέργεια, in quanto non c’è l’uno senza l’altro, sono simultanei, si coappartengono. È questo che insegna Aristotele e questo è forse uno dei motivi per cui è stato eliminato nel modo più sottile, più subdolo, e cioè è stato interpretato dai neoplatonici in modo tale da far apparire anch’egli un platonico, lui che non c’entra assolutamente niente con il platonismo.

Intervento: l’Isagoge di Porfirio…

Isagoge, introduzione. Deve introdurci lui, Porfirio, alle Categorie, non è che possiamo addentrarci noi per i fatti nostri. È un po' come è accaduto per la Bibbia, che non si poteva leggere ma occorreva leggere i testi che davano la giusta, corretta interpretazione della Bibbia. Dunque, che cosa fa Aristotele? Incomincia a porre la questione e, naturalmente, come fa sempre, incomincia a suddividere. 184a. Poiché in ogni campo di ricerca di cui esistono principi o cause o elementi, il sapere e la scienza derivano dalla conoscenza di questi ultimi – noi, infatti, pensiamo di conoscere ciascuna cosa solo quando ne abbiamo ben compreso le prime cause e i primi principi e, infine, gli elementi -, è evidente che anche nella scienza della natura si deve cercare di determinare anzitutto ciò che riguarda i principi. È naturale che si proceda da quello che è più conoscibile e chiaro per noi verso quello che è più chiaro e conoscibile per natura: perché non sono la medesima cosa il conoscibile per noi e il conoscibile in senso assoluto. Questo è chiaro. Per noi appaiono comprensibili un sacco di cose che, se si interrogano, si mostrano tutt’altro che comprensibili. Perciò è necessario procedere in questo modo: da ciò che è meno chiaro per natura ma più chiaro per noi a ciò che è più chiaro e conoscibile per natura. A noi risultano dapprima chiare e3d evidenti le cose nel loro insieme; e solo in un secondo momento l’analisi ci consente di individuarne gli elementi e i principi. Perciò bisogna procedere dall’universale al particolare: infatti alla sensazione si presenta come più immediatamente conoscibile l’intero, e l’universale è, in un certo senso, l’intero, perché esso contiene molte cose come parti. 185a. Il modo più appropriato di cominciare, poiché “essere” si dice in molti sensi, sta nel vedere cosa vogliano dire quelli che sostengono che tutte le cose sono uno: se, cioè, questo tutto sia sostanza o qualità o quantità, e ancora se questo tutto sia una sostanza, come un uomo o un cavallo o un’anima… /…/ Qualora, invero, il tutto sia e sostanza e qualità e quantità (siano pure queste separate o non separate tra loro), ne risulterà una molteplicità di esseri. Qualora, al contrario, il tutto sia o qualità o quantità (ci sia o non ci sia la sostanza), si cadrà nell’assurdo, se per assurdo si deve intendere ciò che è impossibile. Ci sarebbe una infinità di “essere”. Niente altro, infatti, è separabile tranne la sostanza, giacché tutte le cose si dicono in riferimento alla sostanza che fa loro da sostrato. Qui ribadisce il fatto che la sostanza non è altro che ciò che se ne dice e che è inseparabile: non è che c’è la sostanza da una parte e ciò che se ne dice dall’altra, sono la stessa cosa. 185b, 5. Inoltre, poiché anche lo stesso “uno”, come l’essere, si dice con molti significati, bisogna esaminare in che senso dicono che il tutto è uno. Qui sta facendo un’obiezione rispetto a tutti quelli che sostengono che l’uno e l’essere sono due cose diverse, mentre per Aristotele sono la stessa cosa. Questa distinzione tra l’uno e l’essere è ciò che permetterà a Plotino – che si rifà a Platone, per cui l’uno è l’Idea – di costruire tutta la sua piramide. Si dice, infatti, uno sia il continuo sia l’indivisibile sia ciò che ha una sola definizione e per cui vi è un solo concetto, come liquido inebriante e vino. /…/ Se, poi, per definizione gli enti sono una sola cosa, come vestito e indumento, bisognerà allora accettare il discorso di Eraclito: saranno, infatti, la medesima cosa bene e male, e non-bene e bene, come saranno identici bene e non-bene, e uomo e cavallo, e non si potrà sostenere che gli enti sono uno, bensì che sono nulla, e quantità e qualità saranno una sola e medesima cosa. Qui Aristotele dice che se questa cosa è uno allora sarà la medesima cosa essere secondo il bene e secondo il male, e così si definirà il buono e il non buono. È un’obiezione che, in effetti, lascia il tempo che trova, però, era un problema di Platone. Ad esempio, l’idea della virtù, come contiene in sé l’idea della non virtù? Questo qualcosa che si aggiunge, come funziona? Lì Platone non se l’è cavata molto bene. Rimanevano, quindi, perplessi i pensatori di un passato più vicino a noi, del fatto che risultava loro che l’uno e i molti fossero identici. Perciò taluni soppressero la parola “è”, come fece Licofrone; altri trasformarono la locuzione, dicendo non “l’uomo è bianco”, ma “biancheggia”, e non “è in cammino”, ma “cammina”, per evitare che l’uno fosse i molti qualora aggiungessero il verbo “è”, in quanto l’uno e l’essere avrebbero avuto significato univoco. Ma, intanto, quelli erano perplessi, ed erano costretti ad acconsentire che l’uno è i molti, come se non si potesse concedere che lo stesso oggetto sia uno e molti, senza essere per questo in contraddizione con se stesso. Eppure, in realtà, c’è l’uno in potenza e l’uno in atto! Ecco, qui, in queste due righe, c’è già l’anticipazione di tutto il libro. Aristotele sta dicendo quello che pensa lui, quasi come se non si potesse ammettere che l’uno e i molti sono la stessa cosa. Senza essere per questo in contraddizione con se stesso: purché non si separino, non sono contraddittori, sono due momenti dello stesso; non si contraddicono perché, se si contraddicessero, uno cancellerebbe l’altro, così come il particolare negativo cancella l’universale affermativo. 186a, 20. Aristotele ce l’aveva in modo particolare con Parmenide. Si può anche capire il motivo, ma, in effetti, è una cosa risaputa che Aristotele non andava per niente d’accordo con Parmenide. Anche contro Parmenide si procede con gli stessi criteri, benché ve ne siano altri più appropriati. E la confutazione si fa sia perché egli erra nelle sue premesse, perché stabilisce di parlare dell’uno in senso assoluto, mentre poi ne parla in molti sensi;… Questa è l’obiezione che Aristotele fa a Parmenide. Aristotele pensava che Parmenide considerasse l’essere in senso assoluto. Anche Aristotele ha scordato quella frase: “essere è lo stesso che pensare”. …è incoerente nelle conclusioni, perché, se pur si prendessero in esame solo le cose bianche, pur significando “bianco” un solo essere, non di meno le cose bianche sarebbero molte e non una:… Qui Aristotele ha pensato che Parmenide dicesse che l’essere è uno, mentre Parmenide non dice questo, perché per Parmenide l’essere è pensare e il pensiero è fatto di miliardi di cose. 186b. quindi, l’essere in quanto tale non sarà inerente ad altro, giacché esso non apparterrà affatto all’essenza di questa tal cosa, a meno che non si ammetta che l’essere stia a significare molte cose e che, quindi, ciascuna cosa in particolare è pure un certo essere. L’essere non sarà mai un qualche ente: sembra di leggere Heidegger e la sua differenza ontologica, per cui l’essere è sempre stato inteso come un ente e mai come l’essere. Però, qui non è Heidegger ma Aristotele. Ma si è supposto che l’ente stia ad indicare una sola cosa! Se, dunque, l’essere in quanto tale non è accidentale a nulla, ma le altre cose sono accidentali rispetto ad esso, perché, poi, l’essere in quanto tale dovrebbe indicare l’essere piuttosto che il non-essere? Sono tutte obiezioni che hanno sempre la stessa direzione, cioè, sono obiezioni alla supposizione che l’uno sia separato dai molti. 186b, 15. Questi, infatti, se non sono essere in sé, risulteranno accidentali o all’uomo o a qualche altro soggetto. Quindi, ciò che è per sé produce cose che sono per sé. Questo ci verrà utile più avanti. Certuni hanno dato il loro assenso ad entrambe queste dottrine: sia a quella secondo cui tutto è uno, se l’ente significa una sola cosa, dicendo che il non-essere è; sia a quella ricavata dalla dicotomia, ponendo grandezze indivisibili. Quindi, da una parte ci sono quelli per cui l’essere ha un solo significato, ma in questo modo ammettono che ci sia il non-essere; dall’altra parte, ci sono quelli che pongono delle grandezze indivisibili a partire dal principio della dicotomia, per cui l’essere è fatto di grandezze indivisibili, di tanti punti, potremmo dire. Ma è ovviamente falso pretendere che, se l’essere indica l’uno e non è possibile nello stesso tempo la contraddizione, non vi sia affatto il non-essere. Nulla, infatti, vieta che il non-essere, in senso assoluto, non sia, ma, come un certo non-essere, sia. Qui c’è ancora il fraintendimento di Parmenide, il quale pone, sì, l’essere in senso assoluto ma nel senso di pensare, e allora, sì, c’è il non-essere, cioè, il non-pensiero, che è una contraddizione in termini. D’altra parte, l’asserire che, tolto l’essere, a meno che non si ponga qualche altra cosa, il tutto sia uno, è un’assurdità. Infatti, non si può avere nozione del puro essere che non sia un determinato in sé. E, se è così, nulla allora vieta che gli esseri siano molteplici, come già dicemmo. Qui Aristotele sta affrontando un problema: per comprendere l’essere devo porlo come uno. Ma è uno? No, non lo è, l’essere non è uno, ma devo porlo come uno per pensarlo. Sta qui la questione che incomincia ad affrontare Aristotele, che poi risolverà con la nozione di entelechia, di Aufhebung. Su questo problema i naturalisti si dividono in due correnti. Alcuni, infatti, ponendo l’essere in quanto uno, come sostrato corporeo, cioè o come uno dei tre elementi o come un altro più denso del fuoco e più raro dell’acqua, fanno nascere le altre cose per rarefazione e condensazione, dando origine così al molteplice (e queste due cose sono contrarie, come generalmente l’eccesso e il difetto o, come dice Platone, il grande e il piccolo; se non che Platone pone gli elementi come materia e l’uno come forma, mentre quelli pongono l’uno, che fa da sostrato, come materia e i contrari come differenze e forme); altri, invece, sostengono che le contrarietà vengono tratte fuori dall’uno in cui sono implicite, come asseriscono Anassimandro e quanti affermano che gli enti sono uno e molti, ad esempio Empedocle e Anassagora; infatti, costoro dalla mescolanza traggono fuori per divisione anche le altre cose. Ma questi due ultimi differiscono tra loro, in quanto l’uno stabilisce una periodicità, l’altro un corso unico e, inoltre, il secondo considera infinite le particelle simili e quelle contrarie, mentre il primo ammette soltanto i cosiddetti elementi. Qui prosegue nella questione, ma le critiche cha fa vertono sempre intorno al problema dell’uno e dei molti, e cioè che cosa pensavano gli antichi pensatori intorno all’uno e ai molti. Il porre, per esempio, il fuoco all’origine non riguarda il fuoco in quanto tale ma l’idea di un principio. Ora, per alcuni questo principio è ciò che viene separato dai molti, ed è questo che Aristotele critica. Pare, poi, che Anassagora abbia considerato infiniti i principi, perché egli suppone che sia vera la comune opinione dei naturalisti, che, cioè, nulla deriva dal non-essere (perciò essi dicono: “erano insieme tutte le cose” e “divenire una tal cosa, vuol dire alterarsi”, mentre altri parlano di concrezione e discrezione);… Questa idea, non è del tutto errata, che le cose procedano per aggregazione e disgregazione o, come dicevano i greci, per σύνθεσις e διαίρεσις, unione e separazione, e che le cose, in effetti, siano già presenti, è come se fosse quasi un primo abbozzo di un pensiero intorno al funzionamento del linguaggio: nel linguaggio c’è necessariamente già tutto. In fondo, anche Democrito pensava una cosa del genere: tutti gli atomi che si aggregano e si disgregano formano che cosa? Lui non poteva ancora dirlo, ma questi elementi formano parole, formano discorsi. Si aggregano e si disgregano nelle forme indicate da Aristotele negli Analitici primi. …inoltre, Anassagora prende spunto dal fatto che i contrari si generano reciprocamente. Ma, in tal caso, si deve ammettere che precedentemente coesistevano. Se, infatti, tutto ciò che si genera, necessariamente nasce o da enti o da non-enti, e se di queste asserzioni è impossibile quella secondo la quale le cose si generano da non-enti (su questo punto sono d’accordo tutti i naturalisti), essi reputarono, quindi, che dovesse necessariamente verificarsi l’altra asserzione, che, cioè, le cose si generano da elementi che sono e preesistono, ma che non sono da noi percepiti per la piccolezza della loro mole. Si generano da cose esistenti e inerenti l’una nell’altra: questo è il principio del sillogismo (A inerisce a tutte le B, B inerisce a tutte le C, ecc.), è il principio di inerenza di Aristotele. A quel tempo si pensava alle cose, ma queste cose… Certo, sappiamo bene che per i greci l’essere è in definitiva ciò che appare così come appare, ma queste cose sono le parole. Di questo Aristotele aveva accennato nelle Categorie, dicendo che la sostanza non è niente altro che praedicamenta, cioè, le cose che se ne dicono; quindi, la sostanza è qualcosa che si dice, non è altro che questo. Da ciò deriva la loro affermazione che il tutto è mescolato nel tutto, perché essi vedevano che tutto diviene da tutto; ma essi aggiungono che gli oggetti appaiono differenti e sono chiamati in guise diverse tra loro in base a ciò che sovrabbonda per numero nella mescolanza degli infiniti elementi. Non aveva torto Teofrasto, sembra quasi un continuo riferimento a Democrito, con questi elementi che si mescolano. In modo casuale? Difficile trovare una causa specifica. A meno che uno non trovi una causa precisa e specifica dell’esistenza della Via Lattea: perché esiste la Via Lattea? Secondo costoro, infatti, l’intero – ad esempio, il bianco, il nero, il dolce, la carne e l’osso – non esiste allo stato puro, ma pare che la natura di ciascuna cosa sia ciò che questa cosa possiede in massima parte. Come dire che la cosa è fatta di quella cosa lì e infinite altre, la parola è quella lì ma è fatta di infinite altre, ogni parola è l’universo, un universo che esplode ogni volta che viene detta. Dunque: se l’infinito, in quanto infinito, è inconoscibile, esso rispetto al numero e alla grandezza è inconoscibile come quantità, rispetto alla forma è inconoscibile per qualità. È un primo abbozzo della distinzione tra infinito potenziale e infinito attuale, secondo la quantità e secondo la qualità. Se, d’altronde, i principi sono infiniti sia per numero sia per forma, è impossibile conoscer ciò che da essi risulta: perché noi stimiamo di conoscere il composto, solo quando sappiamo da quali e quanti elementi esso risulta. Per parlare di qualcosa, per poterla pensare, devo determinarla, devo finirla, chiuderla, e allora posso parlarne, pensarne, ecc., sennò non posso fare niente, come diceva Teofrasto, è la distruzione del pensiero. 188a, 10. E, in conclusione, viene ad essere assurdo quell’Intelletto quando si mette a tentare cose impossibili, se è vero che esso vuole separare, facendo, però, ciò che è impossibile fare sia rispetto alla quantità sia rispetto alla qualità: rispetto alla quantità, perché non vi è una grandezza minima; rispetto alla qualità, perché le affezioni sono inseparabili. Qui le affezioni si possono intendere in tanti modi, ma le affezioni sono le variazioni e sono infinite. Dice viene ad essere assurdo quell’Intelletto quando si mette a tentare cose impossibili, se è vero che esso vuole separare, come faccio a distinguere, dice; facendo, però, ciò che è impossibile fare sia rispetto alla quantità sia rispetto alla qualità: rispetto alla quantità, perché non vi è una grandezza minima, quindi, posso continuare a distinguere all’infinito; rispetto alla qualità, perché le affezioni sono inseparabili, ma è anche vero che per parlare occorre fare quella operazione lì. Aristotele lo dice negli Analitici secondi: noi dobbiamo definire per potere costruire un sillogismo, quindi, per potere pensare, ragionare. 188b, 25. Fin qui, dunque, anche la maggior parte degli altri pensatori si è trovata d’accordo, come dicevamo prima. Tutti, infatti, sebbene pongano senza criteri razionali gli elementi e quelli che essi chiamano principi, parlano, comunque, di contrari, quasi costretti dalla stessa verità. Ma sono in contrasto tra loro, perché alcuni prendono ciò che viene prima, altri ciò che viene dopo; alcuni ciò che è più conoscibile secondo il pensiero, altri ciò che è più conoscibile secondo la sensazione… Sempre gente che separa. 189a, 10. Ma che, comunque, i principi debbano essere contrari, resta ormai chiaro. ἒν πάντα εἰναι: è la stessa cosa. Rimarrebbe ora da trattare se i principi siano due o tre o anche più. Non è possibile che essi siano uno solo, perché i contrari non sono mai uno solo, e neanche è possibile che essi siano infiniti, perché in tal caso l’essere non sarebbe intelligibile e perché una sola coppia di contrari vi è in ogni singolo genere e la sostanza è un solo genere, e anche perché è possibile partire da principi finiti; ed è preferibile da principi finiti, come fa Empedocle, anziché da infiniti. Anche egli, infatti, crede di poter produrre tutti quanti quegli oggetti che Anassagora produce da principi infiniti. Inoltre, i contrari, reciprocamente, sono gli uni prima degli altri e derivano anche gli uni dagli altri, come il dolce e l’amaro, il bianco e il nero, mentre i principi devono per sempre permanere. E da ciò, pertanto, risulta chiaro che i principi non debbono essere né uno né infiniti. Ma poiché sono finiti, è anche logico ammettere che non siano solo due, giacché non si saprebbe, in tal caso, spiegare come mai mediante un procedimento naturale la densità possa produrre la rarità come un “qualcosa”, o come la rarità possa produrre la densità. Similmente avviene di qualsiasi altra coppia di contrari, giacché l’amore non racchiude l’odio o produce qualche determinazione di questo, né questo di quello, ma entrambi producono una terza e ben diversa cosa. Introduce il terzo elemento: una realtà che sia terza rispetto ai due. Cosa sarà mai questa realtà terza rispetto ai due? Bisogna aspettare un po' prima di scoprirlo, ma ve lo anticipo: è l’entelechia, è questo il terzo elemento che unisce i due. 189b, 10. E pare che sia antica anche questa opinione, che, cioè, l’uno, l’eccesso e il difetto siano i principi degli enti, ma non allo stesso modo, perché i più antichi dicevano che i due contrari agiscono, mentre l’uno patisce, e, invece, alcuni tra i più moderni affermano piuttosto che l’uno agisce, mentre i contrari patiscono. 190a, 12. Stabilito ciò, se consideriamo bene una cosa che già dicevamo, è necessario porre anche questo a proposito di tutto ciò che diviene: che, cioè, il diveniente sia sempre un sostrato, e questo, se anche è uno per numero, non è uno per forma (e tengo a dire che “per forma” e “per concetto” sono espressioni identiche). Occorre fare attenzione alle parole di Aristotele. Ogni diveniente richiede un qualche sostrato, se anche è uno per numero, non è uno per specie, dove “per specie” si intende la medesima cosa che “per definizione”. Cioè, torna a dire che, sì, è uno come genere, ma si dice in tanti modi. È come se, di nuovo, dicesse che è uno e molti. 190b, 28. Ma il sostrato è uno in quanto al numero, due in quanto alla forma (infatti, l’uomo e l’oro e, insomma, la materia sono numerabili; e ancora più l’oggetto particolare, e non per accidenti il diveniente si genera da esso: la privazione, invece, e la contrarietà sono accidenti). Appunto per questo si deve affermare che i principi sono per un verso due, per un altro tre. Per un verso essi sono i contrari, come quando si dice il musico e l’a-musico, o il caldo e il freddo, o l’armonico e il disarmonico, ma per un altro verso, no, perché è impossibile che i contrari patiscano reciprocamente. Non si tolgono i contrari; non è che si influenzino l’uno con l’altro, ma l’uno dipende dall’altro, l’uno è la condizione di esistenza dell’altro. Ma ci si libera anche da questa difficoltà, perché vi è un’altra cosa, il sostrato, il quale non è affatto un contrario. Sicché, in un certo senso, i principi non sono più numerosi dei contrari, ma, per così dire, due in quanto al numero; ma poiché la loro essenza sussiste come diversa, essi sono non più due, bensì tre:… Oggi potremmo dire che è la relazione ciò che permane. …infatti, diversa è l’essenza per l’uomo e per l’a-musico, o anche per l’informe e per il bronzo. È stato, così, stabilito quanti sono i principi delle cose naturali sottoposte al divenire, e in che senso essi sono tanti; ed è chiaro che necessariamente qualcosa soggiace ai contrari, e che i contrari sono due. Ma ciò che Aristotele indica come sostrato, l’autentico sostrato, in effetti, non è altro che la relazione tra i due. Ma, in un altro senso, questo non è necessario, giacché anche uno dei contrari sarà sufficiente a produrre il cangiamento con la sua assenza o con la sua presenza. La natura, poi, che soggiace è conoscibile per analogia. Come, infatti, si trovano il bronzo in rapporto alla statua o il legno in rapporto al letto o, in genere, (la materia e) l’informe prima che acquistino forma in rapporto a qualche altra cosa che abbia la forma, così essa stessa si trova in rapporto alla sostanza e al particolare e all’ente. Aristotele nel De generatione et corruptione giunge a considerare che la materia senza la forma non c’è, la materia è sempre materia signata, materia formata. Essa, dunque, è un principio, benché non sia né una né ente, come il particolare; ma è l’unica di cui ci sia la forma, anzi è il contrario di questa, ossia la privazione. Che, dunque, i principi siano in un senso due, in un altro più, è stato detto nelle pagine precedenti: in un primo tempo si disse soltanto che i contrari sono principi; in un secondo tempo si mise in rilievo la necessità che qualche altra cosa soggiaccia e che i principi siano tre: e da ciò ora risulta chiarita quale sia la differenza dei contrari e come i principi si trovino in rapporto tra loro e che cosa sia il sostrato. Il sostrato è quella cosa che è necessaria perché ci siano i due. Il sostrato è la materia? No. Se noi incominciamo a pensare questo sostrato come la relazione, come entelechia, lo anticipiamo, perché è quello che dirà alla fine.