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6-3-2013

 

Una qualunque cosa, se è qualcosa, appartiene alla parola, ma si tratta di dire perché una qualunque cosa appartiene alla parola. Ciò che è rilevante in tutto ciò è che questa affermazione è sostenibile perché è la premessa da cui muove tutto il resto, in quanto tutto ciò che dirò non è altro che una derivazione di questo asserto. Tutto ciò che per gli umani costituisce la realtà, e con realtà intendiamo in accezione più ampia, come la totalità delle cose che ci sono in quanto ci sono. Il modo per mostrare questo è che una qualunque cosa, perché sia qualcosa per me, occorre che questo qualche cosa rinvii a qualche cos’altro, e cioè perché per me qualche cosa sia qualche cosa occorre che rinvii a qualche cosa, cioè significhi qualche cosa, significhi qualcosa cioè letteralmente signum facere. Perché per me dunque qualche cosa sia qualche cosa occorre che rinvii almeno al suo significato. Dunque questo qualche cosa deve significare per me qualche cosa, in caso contrario non significherebbe niente, ma se non significasse niente per me sarebbe niente. Se chiedessi a Eleonora: “Eleonora, tu lo vedi quello?”, tu mi risponderesti: “quello cosa?”, e se io continuassi a chiedere a Eleonora se vede quello, lei giustamente continuerebbe a chiedermi che cosa deve vedere, perché “quello” finché non le dico che cosa deve vedere non lo vede; quando le dico che cosa deve vedere, solo allora lo vede. A questo punto può essere ripreso ciò che diceva Cesare, e cioè la questione della realtà. Affermando che la realtà c’è comunque, per potere affermare questa cosa, a meno che non sia ovviamente un atto di fede, devo sapere di che cosa sto parlando, e cioè sapere che cosa c’è, per sapere che cosa c’è dunque occorre che sappia che cos’è. A questo punto il problema si sposta su che cosa debba essere questa realtà. È la difficoltà che gli umani hanno incontrato da sempre, non soltanto nello stabilire che cosa sia la realtà, ma nello stabilire che cosa sia una qualunque cosa, è in generale la famosa domanda degli antichi “ti es ti”. C’è una sorta di impossibilità di fronte a questo, cioè dire che cos’è qualche cosa; poi c’è la questione del criterio che viene utilizzato, che non dice che cosa sia questo quid di cui si sta parlando. Ora, se un discorso quindi non può dire nulla intorno a che cos’è una certa cosa, allora di che cosa parla? Perché è questa la domanda fondamentale: di che cosa parla un discorso? Se non ha un riferimento a un qualche cosa che è fuori dal discorso, cioè la realtà, allora il discorso non potrà che parlare di altri discorsi. Questa considerazione ha delle implicazioni: se si tiene conto che un discorso non può in nessun modo parlare, descrivere, dire, che cosa sia di fatto un qualche cosa, allora continua a dire delle cose, ma queste altre cose sono altri discorsi, sono altre parole che produce a partire da qualche cosa che non può dire, non può descrivere, non può cogliere, precisare eccetera. Apriamo una parentesi: queste considerazioni hanno indotto Verdiglione a formulare una parte della sua teoria. Che ci sia qualche cosa che non si riesce a cogliere, a definire, a comprendere letteralmente, cioè dire in definitiva che cos’è, ecco questo è ciò che nella teoria di Verdiglione innesca l’atto di parola, come dice lui, questo qualche cosa che non può comprendersi funziona come un punto di provocazione, alla lettera “pro vocare”. Un punto di provocazione, ed è appunto ciò che sorge dal fatto che l’oggetto, questo quid, questo ente che dovrebbe essere compreso invece non si riesce a comprendere e quindi il modo in cui interviene l’oggetto, l’ente, è come un punto di provocazione e cioè avvia la parola. Tutto questo non è del tutto scorretto, ma non è sufficiente. Ciò che interviene segue a un’idea, una costruzione che è stata fatta in seguito, mi sto riferendo alla teoria di Verdiglione, in seguito a un’idea che è balzana, e cioè il fatto che sia possibile dire che cos’è un qualche cosa, e cioè che la metafisica possa riuscire; è da lì che muove, e tutto ciò che lui ha detto è una critica alla metafisica, corretta per molti versi. Il problema che si è incontrato in questo caso è che questo punto di provocazione, per potere reggere all’interno di questa teoria, doveva costituire anche l’impossibilità che un qualche cosa sia identico a sé, se c’è questo punto di provocazione, il sembiante, questo punto di provocazione lui lo trae dal fatto che è impossibile dire che cosa una qualunque cosa di fatto sia. La presenza di questo punto di provocazione impedisce che la cosa, l’oggetto, sia identico a sé, perché gliene manca un pezzo, quale pezzo? Quello che dice che cos’è per esempio, quindi non è tutto, è semplice. È perché reperisce il sembiante che giunge a considerare che non c’è la possibilità di stabilire un’identità…

Intervento: tutto questo serve a Verdiglione per affermare che la metafisica ha fallito e quindi non si può trovare l’altra parte del che cos’è…

Sì, decretare la fine della metafisica, quindi di tutto il discorso occidentale. Se tutta la metafisica ha fallito e io sono contro la metafisica allora quello che io dico è vero. Ma vi dicevo che una qualunque cosa, proprio perché non si riesce a cogliere, comporta la presenza di un’impossibile, un’impossibile appunto a definirsi. Prima questione: questo quid, questo che, che non possiamo comprendere, esiste di per sé? Esiste cioè fuori della parola? Ovviamente no, almeno nella teoria di Verdiglione, quindi esiste nella parola, però se esiste nella parola allora effettivamente c’è qualche problema a individuarlo perché rinvia continuamente a un’altra cosa, rinvia al suo significato, il quale significato rinvia a ciascuno dei significati di cui è composto il significato, e così via all’infinito. Dunque non posso dire di fatto che cosa sia, non lo posso fare, ma se non posso dire che cos’è in nessun modo, come faccio a sapere che non posso comprenderlo? È una domanda legittima, tecnicamente non potrei né dire che è comprensibile né dire che è incomprensibile, perché nel momento in cui ne parlo, proprio perché ne parlo, questo elemento è già altro da sé. Ma se nel momento in cui ne parlo è altro da sé, allora di che cosa sto parlando? Sto parlando di quella cosa? No, perché è altro da sé, quindi non posso, tecnicamente, neppure parlarne. Verdiglione la risolve così: “è vero, non posso dire una cosa, infatti la dico senza poterla dire, la cosa si dice. Cioè dico comunque perché le cose si dicono e non posso non dirle, il linguaggio non si ferma, quindi la parola è sì, differente da sé, e cioè non la posso fermare, non la posso individuare, ma questo non significa che non si dica. Non sono io che la dico, è la parola che si dice, si dice perché è connessa con un’altra parola che, non essendo chiusa, delimitata, inesorabilmente dà un avvio, uno sbocco su un’altra parola. Questo è quanto si afferma nella sua teoria, che è un buon escamotage. Può costituire un problema il fatto che la parola si dica, e in effetti è da lì che siamo partiti, e cioè dalla questione che verte intorno alla domanda: come faccio a sapere tutte queste cose, visto che le affermo e che le dico? Qui la risposta di Verdiglione è già un pochino meno persuasiva in effetti, dice lui: “non lo so propriamente, non c’è un sapere sulle cose ma degli effetti di sapere”, perché non può negare completamente il sapere, se no diventa arduo proseguire ad affermare certe cose. Effetti di sapere dunque, del sapere si produce come effetto lungo questo muoversi, questo movimento delle parole, però una volta che questo sapere si è effettuato, o continua ad effettuarsi altrimenti, e quindi non è mai un sapere, è sempre un’altra cosa e quindi non so di fatto, e quindi non so che cosa sto dicendo, oppure nel momento in cui si effettua è un sapere. Questo non ha soluzione, non ha soluzione perché, e qui sta la questione centrale in tutta la teoria di Verdiglione, e cioè il fatto che si parte dall’idea che comunque un qualche cosa sia quello che è: per potere dire che A non è A, occorre che A, almeno la prima, sia quello che è, se no sto dicendo che A no è che cosa? Come dire che si inventa che un qualche cosa è quello che è, per poi costruire un’argomentazione che mostra l’impossibilità che qualche cosa sia quello che è. Questa è la contraddizione più forte in tutta la teoria di Verdiglione: non si può sapere, però ci sono effetti di sapere, perché non può negare completamente il sapere, ma a questo punto si trova in una situazione difficile: se non sa quello che sta dicendo allora può dire qualunque cosa e il suo contrario, quindi varrebbe la proposizione che afferma che qualunque cosa è perfettamente comprensibile, a questo punto sarebbe legittima. Non può fare una cosa del genere perché è una contraddizione, nonostante sia poco incline ad accogliere il concetto di contraddizione, ma vi dicevo, questa è la principale contraddizione in tutta la teoria di Verdiglione, cioè la necessità di pensare che qualcosa sia quello che è, per potere poi dire che quella cosa non è quello che è. È un problema in ambito teorico, e infatti persiste in tutta la teoria di Verdiglione, se continua a essere impiantata in questo modo. È un problema per altro è presente anche nella semiotica, non è che abbia inventato tutto lui, l’ha ripreso soprattutto dalla semiotica e da Hjelmslev, vi ricordate il problema delle semiotiche infinite, di continui rinvii infiniti che inducono a considerare anzi a concludere che non c’è la possibilità di arrestare il processo? Se io dico che non è possibile arrestare questo processo, questo processo di cui sto parlando, se ne sto parlando tuttavia ci sarà pure, sarà un qualche cosa. L’idea di formulare una teoria che sia basata su un rinvio continuo da una cosa a un’altra funziona fino a un certo punto, a un certo punto si arresta, si arresta quando si applica lo stesso criterio, lo stesso principio alla teoria stessa. Allora, se applico lo stesso principio, lo stesso criterio alla stessa teoria, questa teoria non può essere enunciata in nessun modo, e non c’è per altro nessuna possibilità di venire fuori da una cosa del genere. Le argomentazioni che conducono ad affermare che qualunque cosa, proprio perché è nella parola, non può che rinviare ad altre parole è un’argomentazione forte, difficile a negarsi, però se applicate le sue conclusioni alla stessa argomentazione produce un empasse irresolubile, un blocco del sistema. Ecco perché grazie ad alcuni signori come Alan Turing, Von Neumann e altri, abbiamo trovato il modo per cui una cosa del genere è risolvibile. Una qualunque cosa è quello che è non per sua virtù, né per decreto divino, né per natura, lo è per un comando che dice “tu sei questo”, cosa che non è né provabile né dimostrabile, non posso dimostrare la validità di un input, è un comando, cosa devo dimostrare? È questo il modo in cui è possibile uscire da un empasse che blocca tutto. In effetti mi sono trovato di fronte a questa difficoltà, che non aveva soluzione, e allora ecco il motivo per cui “incominciamo a partire da ciò che non può non essere, se diciamo tutte queste cose, e cioè quella struttura che ci consente di dirle, e da lì siamo partiti e non ci siamo più fermati a tutt’oggi. Questa soluzione è l’unica che appare possibile per una cosa di questo genere, che se no non ha nessuna soluzione. Il sistema si blocca, basta farlo girare su se stesso e si blocca tutto, non può andare avanti, non può affermare le cose che afferma per i motivi che lui stesso ha affermato, mentre questa nuova scienza che è sorta, che è più giovane della psicanalisi, l’informatica, ha trovato la soluzione, senza saperlo, non era questo il suo obiettivo, aveva tutt’altra cosa in mente, aveva in mente di costruire macchine che eseguissero operazioni, però ha trovato delle cose notevoli senza accorgersene, e a tutt’oggi non se ne è accorta, e cioè che il linguaggio che hanno costruito per fare funzionare le macchine non è altro che una riproduzione semplificata del linguaggio che fa funzionare gli umani. Era questo l’uovo di colombo, e funziona appunto attraverso delle istruzioni, dei comandi, e quindi non c’è più la possibilità che qualche cosa sia quello che è, ma non possa essere quello che è perché è un elemento linguistico: è soltanto un’istruzione, un comando, e dire che è quello che è, è un altro comando che mi consente di usarla per quella in un certo modo. La teoria di Verdiglione è un discorso, elaborato anche bene in alcuni punti, per chiedere a qualcuno “dimostrami che puoi sapere che una qualunque cosa è quello che è”, nessuno può farlo, non c’è riuscita la metafisica in tremila anni e come sappiamo non c’è riuscita non perché ci fossero uomini di tempra, di polso, ma perché non era possibile. Potremmo anche dire a questo punto che ha costruito una teoria faraonica assolutamente per niente, è servita, perché è servita anche a me per riflettere su molte cose, però di fatto non è nient’atro che una richiesta di dimostrare che una certa cosa è quella che è, aggiungendo che non può essere quello che è; intanto perché dovrebbe essere quello che è? Come impianto di pensiero non serve assolutamente a niente, ciò che giunge a dimostrare, a mostrare attraverso passaggi molto complessi non significa niente perché quella cosa non è mai stata quello che è né può esserlo in nessun modo, e per nessun motivo.