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6-1-2016

 

Derrida, Della Grammatologia, pag. 54 “La semiotica non dipende più da una logica, la logica secondo Peirce non è che una semiotica, la logica nel suo senso generale non è, come credo di aver dimostrato, che un altro nome per la semiotica “semiotiche” la dottrina quasi necessaria o formale dei segni (la semiotica si intende comunemente come la dottrina dei segni, da σημεον, che è appunto il segno) La logica nel senso classico, la logica propriamente detta (la logica aristotelica tanto per intenderci) la logica non formale diretta dal valore della verità occupa in questa semiotica solo un livello determinato e non fondamentale, come in Husserl il livello più basso la fondazione della possibilità della logica o semiotica rispondente al progetto della grammatica speculativa di Thomas Darfurt abusivamente attribuito a Duns Scoto, si tratta di elaborare in entrambi i casi una dottrina formale delle condizioni cui un discorso deve soddisfare per avere un senso, per volere dire, anche se è falso o autocontraddittorio (comunque dice qualche cosa. Se io dico che il cerchio è quadrato dico una cosa falsa secondo la logica tradizionale, però ha un senso) cioè la morfologia generale di questo volere dire (Bedeutung) è indipendente da ogni logica della verità (la morfologia, cioè la forma di queste proposizioni è indipendente dal fatto che siano vere o false) Ciò che inaugura il movimento della significazione è ciò che ne rende impossibile l’interruzione, la cosa stessa è un segno (questo è Derrida a proposito di Peirce, quindi è in ciò che inaugura la stessa significazione che è ciò che renderebbe impossibile che il linguaggio si arresti, è proprio ciò stesso, sta dicendo, che lo rende possibile, e per Derrida sappiamo che ciò che lo rende possibile è la “differance”, la barra, la scrittura) Secondo la faneroscopia o fenomenologia di Peirce (Peirce la chiamava “faneroscopia”) la manifestazione stessa non rivela una presenza essa fa segno (questo è importante perché se qualcosa mi si manifesta non vuol dire che c’è una presenza, vuole dire soltanto che c’è un segno) Si può leggere nei Principles of fenomenology che l’idea di manifestazione è l’idea di un segno (qui che c’è già uno spostamento in Peirce) non c’è dunque fenomenalità che riduca il segno alla rappresentazione per lasciare infine la cosa significata brillare nello splendore della sua presenza (sta dicendo che non c’è fenomenologia che tenga e che riduca il segno, che lo riduca nell’accezione husserliana, ridurre l’atto di percezione al punto tale da potere rendere la cosa semplicemente presente, per cui qui dice non c’è nessuna fenomenologia che riesca a fare questo, cioè riesca a togliere il segno, che era il progetto di Husserl in definitiva, togliere il segno cioè togliere una mediazione tra l’io e la cosa) la cosiddetta “cosa stessa” è già da sempre un “representamen” sottratto alla semplicità dell’evidenza intuitiva (un representamen sarebbe il segno, il differimento, quindi anche la cosa stessa è già sempre un segno, è già da sempre scritta come segno) il representamen funziona soltanto suscitando un interpretante che diventa a sua volta segno e così all’infinito, l’identità a sé del significato si sottrae e si sposta incessantemente, il proprio del representamen è di essere sé e altro, di prodursi come struttura di rinvio, di distrarsi da sé. Il proprio del representamen è di non essere proprio perché è in quanto differito cioè assolutamente prossimo a sé (il proprio del representamen è di non essere proprio, cioè assolutamente prossimo a sé nel senso che è prossimo a sé ma è anche differito) ora il rappresentato è già da sempre un representamen cioè un differimento (cita la definizione del segno di Peirce: “qualunque cosa che determina qualche cos’altro, il suo interpretante, determina qualche cos’altro, si riferisce a un oggetto il quale esso stesso si riferisce allo stesso modo, cioè il representamen si riferisce a un oggetto il quale si riferisce a un’altra cosa, l’interpretante diventa a sua volta un segno e così all’infinito” cioè il representamen deve rappresentare qualche cosa, questa cosa a sua volta è un segno che avrà a sua volta un differimento su qualche altra cosa e così via all’infinito, e poi aggiunge: “se questa serie di successive interpretazioni giungesse alla fine vuol dire che c’è un problema con il segno, che non è più un segno) Quando c’è un senso sono solo segni, pensiamo solo attraverso segni (questo è Peirce. Il segno è un differimento da una cosa a un’altra quindi dice) il che fa precipitare la nozione di segno nello stesso momento in cui, come in Nietzsche, la sua esigenza è riconosciuta nell’assoluto suo diritto (come dire che questa cosa viene riconosciuta come tale o meglio è la nozione di segno che precipita nello stesso momento in cui compare di diritto, perché necessariamente ci deve essere un segno ma nel momento in cui il segno appare scompare nel suo differirsi, è sempre questo movimento, un “divenire”) si potrebbe chiamare gioco l’assenza di significato trascendentale come illimitatezza del gioco (cioè non c’è una fine a questo gioco, non c’è il significato trascendentale, quello che voleva Platone, l’idea nell’iperuranio che rimane lì immobile ed è sempre quella che è) cioè come scuotimento dell’ontoteologia e della metafisica della presenza, non è sorprendente che il colpo dato da questa scossa (cioè il fatto che ciascuna cosa rinvia a un’altra, se io rinvio al significato, il significato metafisicamente è quello che è, e invece ci sta dicendo, sempre sulla scorta di Peirce che il significato a sua volta rinvia a qualche altra cosa, a sua volta è un segno e non c’è un arresto di questo gioco, è infinito. Diceva prima “l’interpretante diventa a sua volta un segno e così via all’infinito”. L’interpretante non è la persona per Peirce, ma è il trovarsi presi in una interpretazione, ciò che fa sì che si possa interpretare qualcosa) non è sorprendente che il colpo dato da questa scossa traguardando la metafisica fin dalla sua origine si lasci nominare come tale nell’epoca in cui rifiutando di legare la linguistica alla semantica (cioè alla teoria del significato) espellendo il problema del meaning (del significato) fuori dalle loro ricerche certi linguisti americani si riferiscono incessantemente al modello del gioco. Qui bisognerà pensare che la scrittura è il gioco nel linguaggio (cioè la scrittura è esattamente questo movimento di rinvio continuo, questo differire, questa differance incessante, senza fine) Il Fedro condannava precisamente la scrittura come gioco paidiά ed opponeva questa puerilità alla seria e adulta gravità spoudή della parola, questo gioco pensato come l’assenza del significato trascendentale non è un gioco nel mondo come l’ha sempre definito per contenerlo la tradizione filosofica e come lo pensano anche i teorici del gioco (quelli come Bloomfield per esempio che rinviano alla semantica, alla psicologia eccetera) Per pensare radicalmente il gioco bisogna anzi tutto esaurire seriamente la problematica ontologica e trascendentale, attraversare con pazienza e rigore la domanda sul senso dell’essere (potremmo dire sul senso del significato a questo punto, tenendo conto anche della connessione che abbiamo fatto tempo fa tra l’essere e il significato, tra l’ente come significante e l’essere come significato) sull’essere dell’ente e sull’origine trascendentale del mondo, della mondanità del mondo, seguire effettivamente fino alla fine il movimento critico delle domande husserliane e heideggeriana, conservare loro la loro efficacia e leggibilità (quindi non si può fare un lavoro del genere se non si segue la via di Heidegger almeno del domandare intorno al senso dell’essere e al senso del significato, potremmo dire a questo punto il senso del senso, che però non è la posizione di Ogden e Richards, è tutt’altra cosa) siamo dunque all’entrata in gioco del divenire immotivato del simbolo, riguardo a questo divenire la posizione del diacronico e del sincronico è anch’essa derivata (sta dicendo che non c’è un’opposizione naturale tra sincronia e diacronia. La sincronia non è nient’altro che la variazione della parola nel momento in cui si sta parlando, tutte le variazioni che intervengono, le modificazioni possibili, la diacronia è invece nel tempo, oggi rosso lo diciamo “rosso” in italiano, i latini dicevano “ruber” per esempio) Parlare di immotivazione della traccia ha un suo motivo anche se immotivata perché dire che non è motivata significa che non c’è un qualche cosa alla quale può essere ricondotta (cioè non c’è la traccia della traccia, è, per usare un termine caro a taluni, “originaria”, non c’è qualcosa prima, questa è l’immotivazione della traccia) l’immotivazione della traccia deve allora essere intesa come un operazione e non come uno stato (questo lo dice per salvarsi anche lui dalla metafisica, perché se pone questa immotivazione come un dato di fatto, come uno stato di cose, si ricade nella metafisica cioè diventa una cosa anche questa, cioè anche la traccia diventa una cosa, un ente tra gli altri) come un movimento attivo, una demotivazione (“demotivazione” togliere il motivo a qualche cosa, togliere il motivo significa togliere la sua origine, nel senso di causa, qualcosa è motivata se ha una causa ma se questa cosa è immotivata vuole dire che non ha una causa individuabile, determinata metafisicamente, infatti lui parla di funzione) e non come una struttura data ma la cosa in atto quindi scienza dell’arbitrarietà del segno, scienza dell’immotivazione della traccia, scienza della scrittura prima della parola e nella parola, la grammatologia coprirebbe così il campo più vasto all’interno del quale la linguistica disegnerebbe per astrazione lo spazio che le è proprio, con i limiti che Saussure prescrive al suo sistema interno e che bisognerebbe riesaminare prudentemente in ciascun sistema, parola, scrittura (parola, scrittura enunciato, contenuto, espressione e contenuto tutte queste varie dicotomie. Sta dicendo che verrebbero decostruite rendendosi conto che sono immotivate) pag. 62 Noi crediamo che la scrittura generalizzata non sia solamente l’idea di un sistema da inventare di una caratteristica ipotetica o di una possibilità futura pensiamo al contrario che la lingua orale appartenga già a questa scrittura ma ciò suppone una modifica del concetto di scrittura che per il momento non facciamo partecipare (sta dicendo che occorre ripensare la nozione di scrittura perché quella che c’è non è sufficiente) vorremmo piuttosto suggerire che la pretesa derivazione della scrittura per quanto reale e massiva possa essere è stata possibile solo a una condizione (il fatto che la scrittura sia derivata dalla parola) che il linguaggio originale, naturale eccetera non sia mai esistito (è un’affermazione abbastanza forte) non sia mai stato intatto e intoccato dalla scrittura, che esso sia sempre stato una scrittura (cioè il linguaggio naturale non è mai esistito, è sempre stato una scrittura, ma precisa) “archi scrittura” di cui qui vogliamo indicare la necessità e delineare il nuovo concetto e che continuiamo a chiamare “scrittura” solo perché comunica essenzialmente con il concetto volgare della scrittura (cioè non ha trovato un termine migliore) questo non ha potuto imporsi storicamente per la dissimulazione dell’archi scrittura, per il desiderio di una parola che schiaccia il suo altro e il suo doppio e lavora a ridurre la sua differenza (tutta questa operazione non si è mai potuta fare prima, dice Derrida, per il desiderio che ha la parola di schiacciare il suo doppio, il suo altro, cioè la sua rappresentazione, il suo essere segno, cioè ridurre la sua differenza, la famosa riduzione di Husserl nella riduzione trascendentale) se persistiamo a chiamare “scrittura” questa differenza è perché nel lavoro di repressione storica la scrittura era per situazione destinata a significare e della differenza è più temibile (è l’immotivazione potremmo dire) essa era ciò che più da vicino minacciava il desiderio della parola viva cioè di essere tutta, ciò che l’intaccava da dentro dal suo cominciamento e la differenza, lo proveremo progressivamente, non si pensa senza la traccia, questa archi scrittura benché il suo concetto sia chiamato in causa dai tempi dell’arbitrarietà del segno (dice che era già implicito in De Saussure tutto questo, che però De Saussure non l’ha esplicitato) della differenza non può né potrà mai essere riconosciuta come oggetto di una scienza, essa è precisamente ciò che non può essere ridotto alla forma della presenza (questo è il motivo per cui a suo parere, Derrida, la decostruzione non può essere ricondotta a una metafisica, perché non si tratta di un oggetto e questa differenza, questa traccia non è riconducibile alla forma della presenza, ed è la metafisica della presenza ciò su cui si è impiantato tutto il discorso occidentale da Parmenide fino adesso secondo Derrida, quindi scardinare, distruggere questo concetto metafisico della presenza della cosa, questa è l’operazione propriamente di decostruzione che mette in atto Derrida. Perché dice che non c’è la metafisica della presenza? Perché la parola che dice la cosa, dicendo la cosa la rende presente, non ho nessun altro modo per rendere presente una cosa se non dirla ma questa parola “naturale”, l’ha detto prima, non è mai esistita, ecco il problema, quindi non c’è mai stata una presenza, è stata un’invenzione della metafisica certo ma questa presenza, questa metafisica della presenza di fatto è un qualche cosa che non c’è. Ha incominciato a giustificare questa parola cioè la “scrittura” nel senso di “archi-scrittura” e decostruire il concetto ordinario di scrittura, della scrittura come qualcosa di morto, mentre la parola, dicevamo, è viva perché fa apparire le cose nell’immediato, la scrittura no) quanto al concetto di esperienza esso è qui molto imbarazzante come tutte le nozioni di cui ci stiamo servendo, esso appartiene alla storia della metafisica e non possiamo utilizzarlo che in forma barrata (questo è il marchingegno che si inventa per potere continuare a usare parole perché altrimenti non ce ne sono altre, però indicando che questa parola è problematizzata non va presa nell’accezione tradizionale del termine perché è un problema e quindi la barra, dunque perché dice che questa esperienza è un problema?) perché l’esperienza ha sempre designato il rapporto a una presenza, (senza presenza non c’è esperienza, che cosa esperisco?) che questo rapporto abbia o no la forma della coscienza, dobbiamo tuttavia con quella sorta di contorsione e di contenzione con cui il nostro discorso è obbligato (sta dicendo che per potere andare avanti ogni tanto deve operare qualche torsione nel linguaggio se no non gli riesce) esaurire le risorse del concetto di esperienza prima e al fine di raggiungerlo per decostruzione nel suo ultimo fondo (quindi vuole decostruire il concetto di esperienza) è la sola condizione per sfuggire a un tempo all’empirismo e ai critici ingenui dell’esperienza, così per esempio l’esperienza da cui la teoria, dice Hjelmslev, deve essere indipendente non è il tutto dell’esperienza, essa (l’esperienza) corrisponde sempre a un certo tipo di esperienza fattuale o regionale (esperienza dei fatti oppure “regionale” rispetto a qualche cosa di particolare: storica, psicologica, sociologica eccetera, dunque vi rileggo) essa corrisponde sempre a un certo tipo di esperienza fattuale o regionale che dà luogo a una scienza essa stessa regionale e come tale rigorosamente esterna alla linguistica (sta dicendo che l’esperienza così come viene intesa generalmente, e cioè come una metafisica della presenza, è ciò che interessa la scienza per esempio, la scienza sorge sulla metafisica della presenza quindi sull’esperienza. In realtà qui sta dicendo che l’esperienza appare come una metafisica della presenza) nulla di tutto ciò nel caso dell’esperienza come archi scrittura (qui parla alludendo a una accezione diversa dell’esperienza, non quella della metafisica della presenza) il mettere fra parentesi le regioni dell’esperienza o la totalità dell’esperienza naturale deve scoprire un campo di esperienza trascendentale (qui sta utilizzando il metodo di Husserl, mettere tra parentesi la mondanità cioè la particolarità delle cose per trovare un campo di esperienza trascendentale, cioè un campo di esperienza che non sia vincolato al divenire, al modificarsi delle cose che sono qui e adesso) questa (operazione) non è accessibile nella misura in cui dopo avere, come fa Hjelmslev, isolato la specificità del sistema linguistico e messe fuori gioco tutte le scienze estrinseche e le speculazioni metafisiche e si ponga la questione dell’origine trascendentale del sistema stesso come sistema degli oggetti della scienza e correlativamente del sistema teorico che lo studia, in questo caso di quel sistema oggettivo e deduttivo che vuole essere la glossematica (sta dicendo che il sistema, cioè la lingua, non più posta come l’oggetto della scienza in quanto tale ma lui si pone la domanda sulla scorta di Hjelmslev di quale sia eventualmente il fondamento metafisico di una speculazione intorno al linguaggio, cioè quali sono le presupposizioni che bisogna avere stabilite per incominciare a parlare di linguaggio, questo per dirla in modo spiccio. Poco dopo dice a proposito dell’archi traccia di questo concetto, questa barra) questo concetto è contraddittorio e inaccettabile nella logica dell’identità chiaramente perché l’archi traccia è un differire e non può essere identico a sé se esiste in quanto differito su altro, la traccia non è solamente la sparizione dell’origine (nel senso che se, come diceva prima, la parola naturale non è mai esistita, questo significa che la parola che sarebbe l’origine di qualche cosa non è mai esistita, e comporta come conseguenza la sparizione dell’origine perché la parola sarebbe l’origine della scrittura, ma questa parola che non è mai esistita non c’è e quindi questa origine scompare. Quando voglio dire qualche cosa, ciò che voglio dire, l’origine di questo mio dire, questo voler dire è sempre differito. Io per esempio spiego a Beatrice quello che volevo dire ma poi dovrei spiegare ciò che ho utilizzato dicendo quello che volevo dire e così via all’infinito, come diceva Peirce, questo movimento è infinito per cui l’origine, quello che veramente ho voluto dire non si trova mai, è sempre differito, è sempre spostato, la stessa cosa che accade con la “cosa”, con l’esperienza, con la percezione) la traccia non è solamente la sparizione dell’origine, qui essa vuol dire nel discorso che teniamo e secondo il percorso che seguiamo, che l’origine non è affatto scomparsa, che essa non è mai stata costituita che come effetto retroattivo di una non origine, la traccia che diviene così l’origine dell’origine (questo discorso lo facevamo qualche tempo fa rispetto al secondo elemento che è quello che fa esistere il primo, e qui lo dice in modo molto chiaro, non è che è scomparsa perché prima c’è stata, è un modo improprio perché in realtà non è mai stata costituita, non c’è mai stata questa prima cosa se non come “effetto retroattivo” da una non origine perché questo elemento originario, la parola, non essendoci mai stata non può costituire un origine, quindi tutto ciò che segue è un qualche cosa che ha un origine ma che non ha un origine, è originata da ciò che lo precede ma questo qualcosa che lo precede non esiste senza quello che lo segue) /…/ pag. 70: Noi dunque ammettiamo la necessità passare per il concetto di archi traccia (dobbiamo fare i conti con questo concetto) questa necessità come ci conduce oltre il “dentro” del sistema linguistico? In che cosa l’itinerario che va da De Saussure a Hjelmslev ci impedisce di delimitare la traccia originaria? Nel fatto che il suo passaggio attraverso la forma è un passaggio attraverso l’impronta e il senso della differenza in generale ci sarebbe più accessibile se l’unità di questo doppio passaggio ci apparisse più chiaramente. (il problema che sta sollevando qui è quello di stabilire il concetto di archi traccia) però questa necessità ci conduce dentro il sistema linguistico (ché l’archi-traccia ha a che fare con il segno, è la barra: dall’arbitrarietà del segno e cioè dall’impossibilità di arrestare il segno nella sua corsa furibonda oppure Hjelmslev della semiosi infinita o anche Peirce) come possiamo stabilire il concetto di archi traccia se tutte queste cose ci dicono, ci stanno dicendo che non è possibile stabilire alcunché? (dice: Nel fatto che il suo passaggio attraverso la forma è un passaggio attraverso l’impronta. L’impronta è qualche cosa che qualcosa lascia e poi scompare. Quando si cammina si lascia l’impronta, ma non c’è più chi ha lasciata l’impronta, c’è solo l’impronta che segna, che dice di un passaggio presumibilmente, ora dice) nell’un caso e nell’altro bisogna partire dalla possibilità di neutralizzare la sostanza fonica (il suono, la sostanza fonica, la voce) da un lato l’elemento fonico, il termine, la pienezza chiamata sensibile non apparirebbero come tali senza la differenza o l’opposizione che danno loro forma (anche questa cosa come la sostanza fonica, la sostanza sonora procede anche quella, nonostante che sia un qualcosa di sensibile, di reale, di concreto tutto quello che volete, procede da una differenza, la forma del significante procede dalla differenza tra quella forma e tutte le altre forme, vi ricordate De Saussure che diceva che il significante è tale per una relazione differenziale con tutti gli altri significanti, la stessa cosa per il significato) Tale è la portata più evidente dell’appello alla differenza come riduzione della sostanza fonica. Ora qui l’apparire e il funzionamento della differenza suppongono (rispetto a ciò che dicevo prima) una sintesi originaria che nessuna semplicità assoluta precede (dice: guardate che questa differenza non è riducibile a un qualche cosa di semplice che la precede, che sta da qualche parte, all’unità da cui tutto quanto ha avuto un motivo, da cui tutto ha potuto procedere, no dice questo toglietevelo dalla testa. Tale dunque sarebbe la traccia originaria, qualcuno potrebbe immaginare che la traccia sia proprio questo, cioè l’elemento da cui tutto è partito e che è un qualche cosa, sarebbe la semplicità assoluta da cui poi si è dipartita la complessità eccetera) Senza una ritenzione nell’unità minimale dell’esperienza temporale, senza una traccia che ritiene l’altro come altro nel medesimo, nessuna differenza compirebbe la sua opera e nessun senso apparirebbe (sta dicendo che senza una differenza che non precede da nulla, la differenza è lì nel segno ed è il motivo stesso del segno, ed è ciò che consente il movimento del segno quindi la temporalità, nel senso che prima c’è questa cosa e poi c’è quest’altra. Cioè sta dicendo senza una traccia che ritiene l’altro “come altro nel medesimo”. Ritorna qui un problema che poi lui non risolve perché in effetti neanche lui risolve la questione dell’alterità e dell’identità dice: “il problema di questa differenza sta che l’altro sta nel medesimo” l’alterità sta nell’identità, perché questa differenza in quanto tale, questa archi traccia comporta un’identità perché è quella che è, ma questa archi traccia è la differenza stessa, è la differenza tra significante e significato, ciò stesso che consente al segno di essere quello che è, cioè di essere l’altra identità, perché è segno se c’è differenza: il segno è identico, è quello che è, se c’è differenza, per via di una differenza. Avevamo considerata la questione con Severino, Derrida non la considera a fondo, però pone la questione quanto meno) qui dunque non si tratta di una differenza costituita, (già stabilita a priori, cioè una differenza che qualcuno ha già messo come una cosa) prima di ogni considerazione di contenuto del movimento puro che produce la differenza, la traccia pura è la differenza (ma la traccia pura per essere quella che è, per essere un’identità, quindi identificabile come traccia pura, per potersi dire come traccia pura deve essere differenza) essa, la traccia pura o differenza, non dipende da alcuna pienezza sensibile, udibile o visibile, fonica o grafica al contrario ne è la condizione, qualcosa che non si dice, che non ha voce ma tuttavia è la condizione del dire. “Benché non esista” benché non sia mai un ente presente fuori da ogni pienezza, la sua possibilità è di diritto anteriore a tutto ciò che si chiama segno, significato, significante, contenuto, espressione eccetera tutte le varie formulazioni, concetto o operazione, motrice o sensibile (cioè non esiste, non è un ente presente, eppure è la condizione di tutto ciò che chiamiamo segno) questa “differance ” non è più sensibile che intellegibile (non è né l’una cosa né l’altra) ed essa permette l’articolazione dei segni fra di loro all’interno di uno stesso ordine astratto di un testo fonico o grafico per esempio fra due ordini di espressione /…/ questa differenza ancora è la formazione della forma (il formarsi della forma, quella forma, ma è la formazione della forma) ma essa è d’altra parte l’essere impresso dell’impronta, non è neanche propriamente l’impronta l’essere impresso dell’impronta (questa cosa che lascia qualche cosa ma lasciando l’impronta svanisce) Si sa che Saussure distingue fra immagine acustica e il suo obiettivo, egli si attribuisce così il diritto di ridurre nel senso fenomenologico della parola le scienze dell’acustica, della fisiologia /…/ L’immagine acustica è la struttura dell’apparire del suono che non è nient’altro che il suono che appare (questa è l’impronta, il suono che appare) è l’immagine acustica che chiama il significante riservando il nome di significato non alla cosa beninteso, ma al concetto, nozione di cui indubbiamente infelice diciamo all’idealità del senso, proponiamo di conservare la parola “segno” designare il totale e di sostituire concetto e immagine acustica con significante e significato. L’immagine acustica è l’inteso, non è il suono inteso ma l’essere inteso del suono (quindi non è il suono che io percepisco ma il fatto che io stia percependo un suono, l’essere inteso del suono, l’impronta)l’essere inteso è strutturalmente fenomenale (cioè riguarda il fenomeno) e appartiene a un ordine radicalmente eterogeneo a quello del suono reale nel mondo (cioè sta dicendo che l’ “essere inteso” non ha a che fare con il suono fisico, è l’impronta che il suono fisico lascia su di me in quanto intendo qualche cosa, la parola “penna” non è questa, come dicevamo tempo fa, non è la sonorità “penna”, il suo suono, ma è l’impronta che questa parola lascia in me. Qui c’è abbastanza Husserl tutto sommato) L’immagine acustica, l’apparire strutturato del suono, la materia sensibile vissuta e informata della differenza, ciò che Husserl chiamerebbe la struttura ãlh /morf» cioè materia/forma distinta da ogni realtà mondana, De Saussure la chiama “immagine psichica” (significante) quest’ultima non è il suono materiale, la cosa puramente fisica ma l’impronta psichica di questo suono, la rappresentazione che ce ne dà la testimonianza dei nostri sensi (i nostri sensi percepiscono un suono, ma in seguito a questo avviene una rappresentazione, cioè questa parola “penna” si imprime in quanto qualche cosa che necessariamente ha un significato, perché non c’è significante senza significato) essa è sensoriale e se ci vien fatto di chiamarla materiale è solo in questo senso è in opposizione all’altro termine dell’associazione …