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5 ottobre 2022

 

I presocratici di Diels-Kranz

 

Siamo ai sofisti minori. A pag. 1671. Prodico di Ceo, fu originario dell’isola di Ceo, della città di Iulide, filosofo della natura e sofista, contemporaneo di Democrito di Abdera e di Gorgia, discepolo di Protagora di Abdera. Morì ad Atene, condannato a bere la cicuta, in quanto corruttore dei giovani. A pag. 1675. Fr. 9. Tucidide imitò un poco – come dice Antillo – sia le parisosi (la simmetria delle parole in un periodo) e le antitesi di parole di Gorgia di Leontini, che erano di moda in quel periodo tra i Greci, sia l’accurata scelta di parole di Prodico di Ceo. Fr. 12. Cosicché, quando è il momento opportuno, bisogna dire: “Adesso prestatemi attenzione: infatti, questo non riguarda me più di voi”; e anche: “Sto per dirvi, infatti, una cosa terribile come non l’avete mai udita”, oppure: “così sorprendente”; così Prodico, quando gli ascoltatori incominciavano ad appisolarsi, diceva che stava per presentare loro “la lezione da cinquanta dracme”. Sono trucchi del mestiere. In effetti, qui nei sofisti non c’è più un vero e proprio pensiero teoretico; piuttosto, qui i sofisti si limitavano a insegnare, da una parte, a vincere nell’agone dialettico, dall’altra hanno avuto anche un merito, e cioè di essersi occupati delle parole, degli etimi delle parole, di come e quali parole utilizzare, e, quindi, fanno una sorta di analisi linguistica, potremmo dire che è stato il primo modo di pensare la linguistica. A pag. 1677. Fr. 16. In primo luogo occorre, come dice Prodico, imparare la correttezza delle parole, cosa che per l’appunto questi due stranieri (Eutidemo e Dionisodoro) ti stanno dimostrando. Poiché non sapevi che gli uomini usano “imparare” nel caso in cui uno, che in principio non aveva nessuna conoscenza riguardo a un fatto, successivamente ne acquista la conoscenza; però usano questo stesso termine anche nel caso in cui uno, che possiede la conoscenza, alla luce di questa “conoscenza” consideri questo stesso fatto, sia quando viene attuato sa quando viene detto. Si definisce meglio questo con il termine “comprendere” più che con “imparare”, ma talvolta si usa anche “imparare”. I sofisti hanno avuto questo merito di incominciare a fare attenzione alle parole, a che cosa significano e anche agli etimi delle parole, in modo da saperle utilizzare al meglio, distinguendo una cosa dall’altra, sempre al fine naturalmente di ottenere un consenso. A pag. 1679. Fr. 17. (Parla Nicia nel Lachete platonico). Ma, credo, la mancanza di paura e il coraggio non sono la stessa cosa. Credo anche che davvero che poche persone partecipino del coraggio e della prudenza, mentre sono davvero in molti a partecipare alla baldanza, alla temerarietà e alla mancanza di paura unite all’imprudenza. (Socrate). Non rispondere, Lachete; infatti, mi sembra che tu non ti sia accorto che, in realtà, questa sapiente teoria, egli (Nicia) l’ha presa da Damone, nostro amico; Damone si avvicina molto a Prodico, che è noto tra i sofisti per la capacità di distinguere in modo eccellente tali nomi. L’operazione che facevano i sofisti era anche quella di definire le parole nel modo, secondo loro, più corretto possibile. Questo ha una funzione anche nell’agone dialettico: uno dei modi per mettere l’interlocutore in difficoltà è chiedergli che cosa esattamente intende con la parola che sta utilizzando. C’è qualche possibilità che non lo sappia o non lo sappia bene; chiaramente, a questo punto il sofista ne approfitta per dire che sta parlando di cose che ignora totalmente; quindi, utilizza questa cosa per vincere l’agone. Fr. 19. Resta ancora da vedere se uno ha considerato una cosa come accidente di se stessa, intendendola come diversa, perché è diverso il vocabolo, come Prodico distingueva i piaceri in gioia, diletto e allegria… Uno parla del piacere: va bene, ma cosa intendi con piacere? Intendi gioia, diletto, allegria? Non è soltanto un modo per precisare le cose, piuttosto è un modo per mettere in difficoltà l’interlocutore, e cioè per metterlo nella condizione, per esempio, di non sapere più come proseguire, ecc. Prodico cercava di assegnare ciascuno di questi termini un significato proprio, come fecero anche gli Stoici, i quali definivano la gioia una esaltazione ragionevole, il piacere invece una esaltazione irrazionale il diletto un piacere che giunge attraverso le orecchie, l’allegria quella che si produce per mezzo delle parole. Questo è tipico di coloro che fissano schemi, ma non dicono nulla di valido. Questa è un’obiezione che fa Aristotele, il quale non ha neanche torto: se io definisco una cosa in un certo modo, non sto dicendo che quella cosa è quella cosa lì, ma la sto intendendo in questo momento in questo modo, per motivi miei: sto descrivendo enti di ragione, non enti di natura; la gioia non è un ente di natura. Abbandoniamo Prodico e passiamo a Trasimaco. A pag. 1695. Fr. 1. Trasimaco Calcedonio, sofista, originario di Calcedoni in Bitinia; costui, per primo, spiegò il periodo e la proposizione, e introdusse la impostazione attuale della retorica; fu allievo del filosofo Platone e del retore Isocrate; scrisse Discorsi deliberativi, un’Arte oratoria, Giochi (dialettici), Elementi di retorica. Ecco, quindi, l’attenzione verso la proposizione, come è fatta, come si deve costruire, come si deve dire, ecc. C’è qui una frase di Trasimaco di cui occorrerebbe tenere sempre conto quando si parla di diritto e di politica. A pag. 1705. Fr. 6a. Io (Trasimaco) sostengo … che il giusto non è altro che l’utile del più forte. In due parole ha detto di che cosa si tratta, tanto nel diritto quanto nella politica. Ma lo riprenderemo tra breve perché adesso c’è un’altra questione interessante. Passiamo a Ippia. A pag. 1711. Fr. 11. (Socrate e Ippia). Ippia, in nome degli dei, per che cosa ti lodano, e quali argomenti si compiacciono di udire (gli Spartani)? Non si tratta forse di quegli argomenti che tu conosci perfettamente, le nozioni relative agli astri e i fenomeni celesti? – Assolutamente no! Non possono sopportare queste cose. – Si compiacciono, forse, di ascoltare qualcosa riguardo alla geometria? – In nessun modo, dato che molti di loro nemmeno conoscono, per così dire, i numeri. – Sono molto lontani, quindi, dal sopportare una conferenza sui calcoli. – Molto lontani per davvero, per Zeus! – Forse accettano quegli argomenti che tu sai analizzare in modo più preciso di tutti, cioè riguardo al valore delle lettere, delle sillabe, dei ritmi e delle armonie? – Ma quali armonie e lettere, brav’uomo? – Ma, allora, che cosa che ascoltano da te con piacere e lodano? Dimmelo tu stesso, dato che io non riesco a trovarlo. – Sono, o Socrate, le genealogie degli eroi e degli uomini, le fondazioni delle città, come avvennero nell’antichità; e, in genere, essi ascoltano con sommo piacere tutta la storia antica, cosicché io stesso sono costretto, a causa loro, a imparare e a studiare tutte le questioni di questo tipo./…/ Dici il vero, ma io non pensavo che tu possiedi la mnemotecnica, quindi credo che gli Spartani a ragione si compiacciono di te, in quanto sia tante cose, e facciano con te come fanno i bambini con le vecchiette, perché raccontino loro piacevoli storie. Questo è ciò che gli Spartani, potremmo dire gli umani, vogliono ascoltare: piacevoli storie. Quali sono le piacevoli storie? Quelle che confermano il loro potere, e lo confermano attraverso il mostrare che le cose stanno proprio così come loro pensano che stiano e, quindi, consolidano un potere che credono di avere. Sono queste le piacevoli storie ed è questa la loro funzione. A pag. 1713. Fr. 14. So che una volta egli (Socrate) discusse anche con Ippia di Elide sul giusto, nel seguente modo. Ippia, infatti, che era giunto ad Atene già da qualche tempo, era presente mentre Socrate stava dicendo ad alcune persone come sia sorprendente il fatto che, se si vuole insegnare a qualcuno il mestiere del calzolaio, o del falegname, o del fabbro, o dell’auriga, non si ha incertezza su dove mandarlo per conseguire questo; dicono, poi, certuni che, per chi voglia rendere giusti sia un cavallo sia un bue, dappertutto c’è una gran quantità di insegnanti; se, invece, uno vuole imparare egli stesso il giusto, o fare imparare questo a un figlio o a un servo, non sa dove andare per ottenere questo. E Ippia, udite queste osservazioni, come per prenderlo in giro, disse: Tu, Socrate, stai ancora dicendo quelle stesse cose che io ti ho sentito dire tanto tempo fa? Al che Socrate ribatté. È ancora peggio di così, Ippia, non solo dico sempre le stesse cose, ma anche sugli stessi argomenti; tu, invece, forse per il fatto di essere di vasta cultura, non dici mai le stesse cose riguardo agli stessi argomenti. Certo – confermò – cerco sempre di dire qualcosa di nuovo. Forse – disse Socrate – anche riguardo alle cose che sai bene? Per esempio, a proposito delle lettere alfabetiche, se uno ti domanda quante e quali sono quelle del nome Socrate, tu cerchi di rispondere prima in un modo e poi in un altro? O, a proposito dei numeri, a chi ti domanda e due per cinque fa dieci, non dai la stessa risposta che hai dato in passato? Riguardo a questi argomenti – affermò –proprio come te, Socrate, anch’io dico sempre le stesse cose; riguardo al giusto, però, credo proprio di poter ora dire cose tali che né tu né nessun altro potreste contraddire. Qui c’è di nuovo la questione riguardo ad alcun concetti che risultano difficili da determinare. Con Ippia ci avviciniamo alla questione dei discorsi contrapposti, i δισσο λγοι. A pag. 1719. Fr. 9. È singolare che i poeti successivi a Omero abbiano chiamato “tiranni” i re anteriori alla guerra di Troia, mentre questo termine si è diffuso tardi tra i Greci, ai tempi di Archiloco, secondo quanto riferisce il sofista Ippia. Omero, in effetti, chiama “re”, e non “tiranno”, Echeto, che pure più di tutti fu nemico delle leggi. “Al re Echeto, rovina dei mortali” (Odissea, XVIII 84). Dicono, poi, che il nome “tiranno” deriva dai “Tirreni”: alcuni di costoro, infatti, furono dei terribili pirati. Vedete che qui c’è già una ricerca dell’etimologia da parte dei sofisti. Fa parte del loro lavoro conoscere gli etimi, conoscere la struttura delle proposizioni, ma tutto questo sempre finalizzato alla capacità di persuadere o di mettere in difficoltà, a seconda dei casi. Un altro sofista è Antifonte. A pag. 1725. Fr. 1. Antifonte di Atene, indovino, poeta epico e sofista: veniva chiamato “Cuoco di discorsi”. A pag. 1731. Fr. 6. Si dice che Antifonte di Ramnunte abbia composto tragedie, da solo e con il tiranno Dionigi. Mentre si dedicava alla poesia, compose un’Arte per non soffrire, quasi come una cura prescritta, dai medici agli ammalati. Allestita a Corinto una stanza vicina alla piazza, proclamò di essere in grado di curare coloro che avevano dolori con i discorsi e, conosciute le cause, consolava i sofferenti. Giudicando, però quest’arte inferiore a quanto egli meritava, si rivolse alla retorica. /…/ Antifonte, il quale era bravissimo nel persuadere ed era sopranominato Nestore, per il fatto di riuscire a persuadere su qualsiasi tema parlasse, teneva conferenze sull’eliminazione del dolore, sostenendo che nessuno poteva menzionare una sofferenza tanto terribile che egli non fosse in grado di eliminarla dalla mente. È l’esercizio che oggi si direbbe della psicosomatica. In effetti, già si accorgevano che molti, magari non tutti, malanni hanno a che fare con il pensiero, e cioè il pensiero costruisce delle scene che possono attrarre, spaventare, ecc. Una persona che ha una serie di acciacchi, di malanni, come sappiamo bene, se vede che la sua casa sta andando a fuoco, tutti i suoi acciacchi e malanni scompaiono all’istante. Perché? Perché la situazione in quel momento è talmente tragica che si dimentica di tutto il resto. Ma è un luogo comune, noto a tutti, che la persona può dimenticarsi di avere un certo dolore, come quando, per esempio, è preso da un discorso che lo interessa particolarmente, che gli piace, che insomma lo soddisfa.

Intervento: Allo stesso modo ha funzionato Lourdes… Il credere.

È sempre un sapere come stanno le cose: è questo che soddisfa. È questo che fa stare bene: avere il controllo delle cose; io controllo le cose e sto bene, non le controllo e sto male. Potrebbe anche dirsi che la questione sta tutta lì. Sappiamo che Freud l’ha fatta molto lunga, ma si potrebbe anche pensare che alla fine si tratti unicamente di questo: se una persona ha il controllo della situazione sta bene, è soddisfatto, quindi, sta bene; perde il controllo, sta male, soffre e incomincia ad avere tutti i malanni di questo mondo. A ag. 1733. Fr.1. (Dopo Crizai, 88 B 40) … Come anche Antifonte, nel primo libro Sulla Verità, in cui dice: “Dopo aver conosciuto questo, capirai che non c’è nulla che sia uno per lui (per il logòs), né fra le cose che vede con la vista colui che riesce a vedere il più lontano possibile, né fra quelle che conosce con il pensiero colui che riesce a conoscere il più lontano possibile”. Dice non c’è nulla che sia uno per lui (per il λόγος). Qui Antifonte ha avuto una intuizione straordinaria. Non c’è nulla che sia uno per il λόγος, perché il λόγος per dire l’uno deve già dire qualche altra cosa, quindi, non c’è nulla per il logòs che sia uno; ciò nonostante è soltanto attraverso il λόγος, cioè attraverso il linguaggio, che io posso dire o pensare l’uno, ma non esiste nel λόγος; lo posso pensare, certo, lo posso dire, ma per dirlo devo dire già altre cose, quindi, devo dire i molti; quindi, esiste e non esiste, è uno e molti. Qui i sofisti non avevano già più letto Eraclito; se l’avessero letto con attenzione, queste questioni sarebbero state poste anche in termini teoretici invece che poste soltanto in modo funzionale al piegare la volontà di qualcuno.

Intervento: Sarebbe stato interessante l’avessero fatto anche considerando la loro padronanza sul linguaggio…

Sì, ma questa padronanza che avevano sul linguaggio li ha distratti dal porre domande fondamentali intorno al linguaggio. È la questione, di cui dicevamo, della teoria e della teoresi. La teoria si limita a volere dominare l’ente, dicendo cose su altre cose, dicendo che cosa sono quelle cose lì; l’approccio teoretico è quello che, invece, considera le condizioni di affermabilità di ciò che una teoria afferma, e cioè a quali condizioni io posso pensare di dominare l’ente o posso volere dominare l’ente. A quali condizioni? Che ci sia il linguaggio, ovviamente, e che funzioni in un certo modo. L’approccio teoretico è un approccio che non ha avuto fortuna, quello teorico sì, perché questo non è nient’altro che l’applicazione banalissima della volontà di potenza: voglio dominare l’ente, quindi, voglio sapere che cos’è quella cosa lì, per sapere che cos’è la nomino e a questo punto so che cos’è. Non si è andati molto oltre questo livello di conoscenza, il nominare le cose, che poi sia un tavolo o un elettrone, non fa alcuna differenza. Quando nomino le cose immagino di possederle. Certo, avevano gli strumenti per andare oltre una cosa del genere, però a loro interessava solo la padronanza. A pag. 1741. Fr. 16. Il termine “aphékontos” (che giunge) è usato da Antifonte nel senso di “dièkontos” (che passa attraverso). Stava incominciando a dire che una stessa parola può essere modificata, per cui cambia il significato, ecc. Sono tutte analisi linguistiche in fondo, e lui qui ne fa molte, ma a noi, in effetti, non interessano. Passiamo a Crizia. A pag. 1779. Fr. 1. Il sofista Crizia, anche se abbatté la democrazia ad Atene, non fu malvagio per questo (infatti, il sistema democratico sarebbe caduto da sé, in quanto era così arrogante, da non ubbidire nemmeno ai magistrati legittimi); ma fu malvagio perché condusse apertamente una politica filospartana, consegnò i templi e lasciò distruggere le mura da Lisandro; a quegli Ateniesi che aveva bandito vietò di stanziarsi in una qualsiasi parte della Grecia, minacciando addirittura la guerra da parte di Sparta per chiunque accogliesse un ateniese esiliato. Superò in durezza e crudeltà i Trenta e si accordò con gli Spartani… Era uno cattivissimo, però ha avuto anche dei meriti. A pag. 1783. Crizia era per natura nobile e vigoroso; prendeva parte anche alle discussioni filosofiche, ed era considerato profano tra i filosofi e filosofo tra i profani. Fu anch’egli un tiranno, in quanto era uno dei Trenta. Fr. 4. Ma, disse l’accusatore Policrate: Crizia e Alcibiade, che frequentarono Socrate, hanno inflitto moltissimi danni alla città. Crizia tra tutti gli oligarchi fu il più ladro, il più violento e il più efferato; Alcibiade, poi, fra tutti i democratici, fu il più sfrenato, il più tracotante e il più violento. Io, se quei due hanno inflitto danni alla città, non li difenderò; spiegherò invece come fu il loro rapporto con Socrate. Questi due furono per indole naturale i più ambiziosi di tutti gli Ateniesi, in quanto voleva che tutto avvenisse per opera loro, e pretendevano di essere i più famosi di tutti… Anche qui viene detto in modo molto semplice, chiaro, quasi ovvio, qual è in fondo l’ideale di ciascuno: essere il più famoso di tutti. Cosa vuole la volontà di potenza? Essere la più famosa di tutti, cioè, avere tutti ai propri piedi, essere venerati, considerati, stimati, amati, al di là di ogni immaginazione. Passiamo ai Dissoi Logoi, Discorsi duplici. A pag. 1843. 1. Il bene e il male. Discorsi duplici vengono tenuti in Grecia dai filosofi riguardo al bene e al male. Alcuni, infatti, affermano che una cosa è il bene e un’altra è il male; altri, invece, asseriscono che sono la stessa cosa, e che ciò che per alcuni è bene per altri è male, e che per la medesima persona una cosa avrebbe talvolta un bene, talaltra un male. Anch’io mi pongo nel novero di questi ultimi: considererò la questione a partire dalla vita umana, a cui stanno a cuore il cibo, il bere e i piaceri erotici. Questi, infatti, per chi è malato sono un male, per chi è sano, invece, e ne sente bisogno, sono un bene. L’uso smodato di queste cose è un male per gli intemperanti, mentre per chi le vende e ne trae guadagno è un bene. La malattia per chi è malato è un male, per i medici è un bene. La morte per chi muore è un male, per i venditori di sepolture e i becchini è un bene. L’agricoltura, quando produce in abbondanza, è un bene per i contadini, mentre per i commercianti è un male. E qui riassume anche tutta la questione dell’economia: c’è una grande produzione di frutta e verdura, quindi, il prezzo cala, come si direbbe oggi i mercati soffrono, perché il profitto diminuisce. E, allora, cosa si fa? Si distrugge una parte del raccolto, in modo da tenere alto il prezzo. E questo è giusto, avrebbe detto Trasimaco, perché il giusto è ciò che conviene al più forte, e il commerciante è il più forte, perché ha più danaro e, quindi, ciò che lui fa diventa giusto. Oggi si parla di mercati e i mercati non sono altro che commercianti, perché, che si tratti di fichi o di azioni, si tratta sempre di compravendita, e cioè cercare di comprare al meno possibile e di vendere al più possibile. C’è qualche cos’altro che importi di più ai mercati? Non mi risulta. Il bene pubblico viene ignorato perché questa operazione, che i mercati compiono, diventa il giusto. Non può non funzionare così, ogni transazione economica è una partita che si conclude nel momento in cui ciascuno dei due contraenti è persuaso di avere tratto profitto. Ma è sempre una partita e, chiaramente, la conclusione della partita comporta, come direbbe Nietzsche, un superpotenziamento, evitando naturalmente il depotenziamento. Non c’è uscita da una cosa del genere, Marx lo aveva inteso: non c’è possibilità di venirne fuori in nessun modo. Cosa accade? Accade che, mano a mano, il commercio ha avuto sempre più potere, oggi ha il potere assoluto, sono i mercati che dominano su tutto. La preoccupazione principale non sono naturalmente i cittadini, dei quali non importa niente a nessuno, ma i mercati, tutto il resto non conta niente. Quindi, siamo governati da commercianti, con tutto ciò che questo comporta. Qui si tratterebbe di leggere alcune cose di Marx, che aveva inteso bene rispetto a questo funzionamento e, soprattutto, alla ineluttabilità di questo funzionamento, come se non ci fosse la possibilità di interrompere questo percorso. Che cosa ci dice tutto ciò? Già questi, e siamo al IV-V secolo a. C., incominciavano ad abbandonare la questione del pensiero, che era stata prioritaria per i grandi di cui abbiamo parlato – Parmenide, Zenone, Eraclito – dove ciò che importava era il pensiero. Già qui il pensiero tende a scomparire. Infatti, è evidente come rispetto al discorso duplice, come non può venire in mente Eraclito? Uno e i molti, uno è i molti. Ma per Eraclito questa duplicità è il modo stesso in cui ciascun ente si presenta, si mostra. Per i sofisti è una cosa diversa: questi due discorsi vengono tenuti separati, cioè, io posso certo dimostrare una cosa e poi dimostrare il contrario. È ovvio che posso farlo, ma ciò che non viene più considerato, e che era il pensiero di Eraclito, è che questi due discorsi sono lo stesso discorso. La tragedia di Zenone era proprio questa, e cioè che l’ente e il non-ente sono lo stesso. Certo, posso dimostrare che esiste l’ente come posso dimostrare che l’ente non esiste – che problema c’è? – ma il fatto è che in questa dimostrazione che io faccio, qualunque ente che interviene, cioè qualunque parola è al tempo stesso quella che è e il suo negativo: era questo che intendeva dire Eraclito ed è questo che è stato cancellato. E con questo è stato cancellato il pensiero, ormai importano altre cose. Che cosa importa veramente? Dominare, dominare l’ente, attraverso discorsi, certo, e qualunque altra cosa. Si tratterebbe di fare un discorso sull’economia. Non c’è un discorso sull’economia; è come nella scienza e diceva bene Heidegger quando diceva che la scienza non deve pensare.

Intervento: L’economia ambisce ad essere considerata come una scienza. Studia il fenomeno economico come se fosse un ente di natura. E, infatti, cerca le leggi naturali dell’economia.

Sì, quelle leggi che consentano di dominare l’ente. Nel caso dell’economia l’ente può essere l’interazione in una transazione, nel caso della fisica è la relazione tra enti in movimento, ma si tratta di trovare la legge, cioè qualche cosa che consenta di affermare che le cose stanno così e, quindi, le posso dominare.

Intervento: Le crisi sono necessarie al funzionamento dell’economia…

Non è forse la stessa cosa che dicevamo la volta scorsa, e cioè che per potere continuare a parlare è necessario non sapere che cosa si sta dicendo. C’è qualcosa di molto simile a quello che lei indicava come crisi rispetto a una situazione economica, accennando alla necessità della crisi. In fondo, la crisi non è nient’altro che il prendere atto che qualcosa non funziona così come doveva funzionare, ma solo a questa condizione tutto il resto può funzionare, e cioè che questa cosa non funzioni. Quindi, si tratterebbe di intendere bene la connessione, in questo caso, tra l’economia e la volontà di potenza. L’economia è uno dei modi della volontà di potenza, c’è poi la scienza, la matematica, ci sono i discorsi duplici, che sono anche quelli un modo di mettere in atto, di agire la volontà di potenza: io posso dimostrare che esiste l’ente e posso dimostrare che l’ente non esiste. Dove sta il genio in tutto ciò? Da nessuna parte, perché non c’è nessuna domanda intorno al perché posso fare questo, a che cosa me lo consente. Non sono certamente gli etimi, la composizione delle proposizioni, più o meno suasorie, non è questo, ma il fatto che all’interno di ciascuna parola c’è il suo negativo, che è simultaneo ed è la condizione perché funzioni la parola, perché la parola sia quella che è. Potremmo anche dire che ciò che nell’economia è inteso come crisi, come quel momento in cui occorre prendere delle decisioni, non sia nient’altro che lo scontrarsi con il linguaggio in quanto problema, con il problema del linguaggio. È il linguaggio che è in crisi, in una certa accezione, continuamente, e cioè che necessita di questa crisi, di questa voragine, per potere funzionare. Se non ci fosse questa voragine, questa distanza tra il dire e ciò che il dire dice, il linguaggio non funzionerebbe. Quindi, non è un problema a cui bisogna rimediare; no, per assurdo, se si potesse rimediare, si cancellerebbe il linguaggio. Così come nell’economia, se si potesse eliminare la crisi si cancellerebbe il concetto stesso di economia, il principio su cui oggi si regge, il suo funzionamento stesso.

Intervento: Lo scambio è una relazione…

Come si diceva nei Discorsi duplici, per il contadino un grande raccolto è un bene per il contadino e un male per il commerciante. Se vogliamo trarre qualcosa di interessante da questi sofisti è proprio questo, che nei Discorsi duplici si sottolinea, anche se loro non lo dicono, che in ciascuna cosa è presente la sua negazione. Nel caso del raccolto è chiaro che il commerciante, per mettere in atto il suo potere, deve mantenere alto il prezzo e, quindi, deve distruggere una parte del raccolto, così come si fa ancora oggi, Infatti, il petrolio, per esempio, si brucia. Cosa ci dice tutto questo? In una relazione c’è sempre uno scambio, ma uno scambio fatto in che modo nella relazione e tenendo conto della volontà di potenza? Lo scambio è un movimento, un passaggio da una cosa a un’altra. La questione dello scambio è davvero interessante.

Intervento: Ciò che lo scambio produce è il significato, cioè il prezzo. Qualcuno dei due contraenti vince ed è quello che impone il significato.

Questo è interessante perché a questo punto l’economia è una teoria del significato, nel senso che dà un significato, cioè dà un prezzo, un valore, alle cose. Dando un prezzo alle cose le significa, le fa diventare quelle cose lì: è questa la connessione con il linguaggio.

Intervento: Si stabilisce un prezzo, come quando parlando si stabilisce un significato.

Esattamente. Si stabilisce il prezzo, si stabilisce il significato. In fondo, era quello che voleva anche Peirce: quando si dibatte, la prima cosa da fare è stabilire che cosa intendiamo, qual è il significato che diamo a certe parole, qual è il prezzo che diamo. L’economia andrebbe riscritta a partire dalla volontà di potenza. L’economia è molto antica, così come la matematica. D’altra parte, economia e matematica sono strettamente collegate: non si può fare economia senza la matematica. Come faccio a sapere se ho guadagnato o perduto? Però, è la volontà di potenza che mette in moto tutto quanto. In fondo, dicevo prima, è una partita, una partita che si deve vincere. E quando si è in una partita non ci si preoccupa dell’altro, se non come un qualcuno che bisogna piegare. A pag. 1857. Dunque, le stesse cose sono e non sono. C’è una differenza rispetto a Eraclito, il quale diceva che le cose sono a condizione che non siano. E questo cambia tutto.