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5 agosto 2020

 

Scienza della logica di G. W. F. Hegel

 

Ci sono ancora delle cose che meritano di essere dette intorno al sillogismo. Come sapete, Hegel distingue tra il sillogismo formale e il sillogismo compiuto. Il sillogismo è quello che ciascuno utilizza parlando e attraverso il quale ciascuno costruisce i propri pensieri, le cose in cui crede, le cose che preferisce, le cose che persegue. Tutte le proprie convinzioni, di qualunque tipo, sono costruite da sillogismi formali. Anche perché, come vedremo fra poco, il sillogismo compiuto non consente questa operazione. Naturalmente, il sillogismo formale non può togliersi, non è che, come sempre accade in Hegel, qualcosa non è bene e quindi va abbandonato, qualunque cosa continua a esistere; cioè, Hegel non intende dire che non si deve giudicare, non è così ingenuo, e il giudizio non può non farsi continuamente. Anche agli scettici, con la loro epoché, la sospensione del giudizio, è sfuggito che anche la sospensione del giudizio è un altro giudizio e questo avrebbe potuto indurli a considerare che il giudizio non si toglie, perché il giudizio non è che l’affermare qualche cosa a partire da qualche altra; come si fa a evitare una cosa del genere? Se si parla non la si evita. Però, si può intendere meglio il modo in cui questo funziona. Facciamo l’esempio più banale, quello del sillogismo degli apostoli: Pietro e Paolo sono apostoli, gli apostoli sono dodici, Pietro e Paolo sono dodici. È un sillogismo valido. Il problema del sillogismo formale è che possono venire prese delle determinazioni particolari a seconda della necessità, e la necessità è quella di confermare quello che io voglio imporre. Se modifico questa determinazione particolare, se cioè dicessi “Pietro e Paolo sono apostoli, gli apostoli sono morti, Pietro e Paolo sono morti”, a questo punto non fa una grinza. O anche quell’altro che faceva Hegel: “Tutti i cristiani sono uomini, tutti gli ebrei non sono cristiani, nessun ebreo è un uomo”. Ma può farsi anche l’altro sillogismo, cioè: “Tutti gli ebrei sono uomini, nessun cristiano è un ebreo, nessun cristiano è un uomo”… (Rivolto a un uditore arrivato in ritardo) Stavamo riprendendo la questione del sillogismo perché è interessante vedere come le persone costruiscono i loro pensieri, perché di fatto i sillogismi costruiscono i pensieri, costruiscono quelle cose che chiamiamo giudizi. Nel sillogismo formale, così lo chiama Hegel, che cosa accade? Accade che si tratta di elementi astratti, cioè non fanno parte di un tutto, ma vengono presi astrattamente come se fossero separati. A questo punto io posso, in effetti, utilizzare le determinazioni particolari che mi piacciono di più e, quindi, costruire qualunque tipo di sillogismo valido, naturalmente. Facevo prima l’esempio di Pietro e Paolo apostoli - Pietro e Paolo sono apostoli, gli apostoli sono dodici, Pietro e Paolo sono dodici. Però, se sostituiamo tutto questo con “Pietro e Paolo sono apostoli, gli apostoli sono morti, Pietro e Paolo sono morti” a questo punto abbiamo soltanto modificato una determinazione particolare e il sillogismo è sempre valido, è sempre lo stesso, non è cambiato niente. Posso, dunque, utilizzare tutte le determinazioni particolari che ritengo più opportune, cioè quelle che mi servono per confermare quello che io voglio venga confermato. Il sillogismo formale, e questo Hegel lo dice chiaramente, non ha nulla a che fare con la verità, anche se il fatto che sia logicamente valido induce a pensare che sia anche vero, nel senso che ciò che qui funziona da contenuto non è il contenuto propriamente ma è la forma: la forma è valida, quindi, il sillogismo è vero e, quindi, anche quello che dice è vero. In effetti, lungo questa via si può giungere a considerare che tutte le proprie convinzioni, la propria fede, ha la forma di un sillogismo formale. Può essere una fede politica, religiosa, calcistica; qualcuno potrebbe dire che è quasi un’eresia accostare una fede calcistica a una fede politica; tuttavia, la struttura è la stessa, e se questo qualcuno incominciasse a interrogare tutte le premesse da cui muove, per esempio, la sua fede religiosa, politica, ecc., giungerebbe a un certo punto a considerare che la premessa da cui muove non è sostenibile, o, quanto meno, è sostenibile quanto la contraria. Questo ovviamente mette in seria discussione il pensare degli umani in generale, visto che sappiamo che pensano così, cioè, pensano attraverso sillogismi formali e, come dicevamo, non possono non farlo. Come dicevo prima, non si può sospendere il giudizio, come volevano gli scettici, perché questa sospensione è un altro giudizio, non posso uscirne fuori; così come non posso cessare di affermare cose: se parlo continuo ad affermare cose. La cosa importante è incominciare a tenere conto di questi aspetti, e cioè che ciascun giudizio che viene formulato è riconducibile alla formula degli apostoli, di Pietro e Paolo che sono dodici. Uno può dire: non sono dodici. Beh, anche lì è da vedere, perché in fondo anche questa affermazione potrebbe essere sostenuta. Come sappiamo, qualunque cosa può essere sostenuta se inserita in una narrazione sufficientemente lunga e articolata; si può sostenere tutto e il contrario di tutto. Questo Hegel lo sapeva, e sapeva quindi bene che tutti i giudizi, che vengono formulati attraverso il sillogismo formale, non hanno nulla a che fare con la verità.

Intervento: …

Parlare di procedimento sillogistico è già dire che è razionale. Parlare di una razionalità fuori dal sillogismo è una contraddizione in termini. Dicevo, dunque, che il modo di pensare è quello del sillogismo formale, cioè: la forma è valida, quindi, il sillogismo è vero e, quindi, quello che afferma è vero, e ci si attiene a questo, alla fede politica, alla fede religiosa, a quella calcistica, per cui l’affermare che la Juventus è meglio del Torino ha una validità universale. Parlate con uno juventino sfegatato e vi confermerà quanto vi ho appena detto. La stessa cosa vale per la fede politica. Per esempio, una persona che è di destra non leggerà mai un quotidiano di sinistra perché questo quotidiano dirà delle cose che vanno a incrinare un bagaglio di certezze che non deve essere messo in discussione. Naturalmente, la stessa cosa vale per una persona che è di sinistra. Questo perché queste convinzioni procedono da sillogismi formali e, quindi, conducono inesorabilmente a queste conclusioni, conclusioni che non hanno nessuna validità all’infuori della forma del sillogismo. Ma siccome Hegel non ha voluto fermarsi alla forma de sillogismo, ha incominciato a considerare l’eventualità che anche il sillogismo non sia fuori della dialettica, che poi, in definitiva, non sia fuori del linguaggio, e che ogni costruzione fatta dal sillogismo, in effetti, è una costruzione fantasmatica. Come direbbe Borges, è un animale fantastico, cioè: ogni giudizio, di qualunque tipo, che ciascuno costruisce è un animale fantastico, è una cosa che si è costruita lui, non ha alcuna ragion d’essere all’infuori del fatto di essere all’interno di un sistema formale, di una formalizzazione. È questo che ha interessato Hegel rispetto alla prova ontologica dell’esistenza di Dio di Anselmo d’Aosta, perché fu la prima prova ontologica – Il Proslogion è stato scritto intorno al 1070 -, la prima prova che non muovesse dalla fede, dalla rivelazione, dagli scritti, ecc., ma unicamente da se stessa, cioè dal pensiero; non può che partire da lì, dal pensiero. A pag. 185. Presso Anselmo, col quale appare la prima volta il pensiero, altamente notevole, di questa prova, si tratta certamente in prima linea solo di questo, se un contenuto sia soltanto nel nostro pensiero. È chiaro che Anselmo non voleva che fosse soltanto nel pensiero ma anche in re, nella cosa, nella realtà. Le sue parole sono queste: “Certe id quo maius cogitari nequit, non potest esse in intellectu solo. Si enim vel in solo intellectu est, potest cogitari esse et in re: quod maius est. Si ergo id, quo maius cogitari non potest, est in solo intellectu; id ipsum, quo maius cogitari non potest, est, quo maius cogitari potest. Sed certe hoc esse non potest”. Di sicuro ciò che non può essere pensato come nulla di più grande, non può essere solo nell’intelletto. Per Anselmo l’idea di Dio è questa: è ciò di cui non si può pensare nulla di più grande. Però, dice, io lo penso, certo, ma è solo dentro la mia testa, nell’intelletto, o è anche nella cosa, in re? Questa è la domanda che si pone, e questa è la risposta che si dà: se fosse solo nell’intelletto e non nella cosa, allora il fatto di essere nell’intelletto e nella cosa sarebbe maggiore dell’essere solo nell’intelletto; quindi, dicendo che è solo nell’intelletto ciò di cui non si può pensare nulla di più grande, in realtà, si contraddice, perché posso pensare qualcosa di più grande, basta che dica che è nell’intelletto ma anche nella cosa. Questo era il problema. Ma poi prosegue: “Questa cosa, dunque, esiste in modo così vero che non si può pensare che non esista. Infatti, si può pensare che esista qualcosa che non si può pensare non esistente… Chiunque può farlo: io penso una cosa che non esiste. … ma questo è maggiore di ciò che non si può pensare esistente. Dunque, se ciò di cui non pensarsi nessuna cosa maggiore può essere pensato non esistente, ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore non è ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore, e ciò è contraddittorio; dunque, qualcosa di cui non può pensarsi una cosa maggiore esiste in modo così vero che non può pensarsi come non esistente. E questo sei tu, nostro Signore, ecc. Vi leggo anche una notazione del traduttore: Lo schema della dimostrazione è il seguente: 1) “ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore” può essere pensato non esistente, oppure, non può essere pensato non esistente (questa premessa è evidente, infatti, è una disgiuntiva, le cui parti sono contraddittorie e, dunque, una delle due parti è vera); 2) ciò che può essere pensato non esistente è minore di ciò che non può essere pensato non esistente (questa premessa segue dal fatto che possono essere pensate non esistenti le cose che a volte esistono e a volte non esistono, e invece, non può essere pensato non esistente ciò che sempre esiste); 3) dunque “ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore” non può essere pensato non esistente; se fosse pensato non esistente non sarebbe “ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore”. Tutto questo ha interessato Hegel perché, come dicevo prima, è il primo modo per approcciare la questione dell’esistenza a partire dall’intelletto, cioè dal pensiero. In questo caso è come se si facesse procedere l’esistenza dall’essenza, che è esattamente il contrario di quelle che, per esempio, pensava Sartre. A pag. 185. Le cose finite, secondo le determinazioni nelle quali noi qui ci troviamo, consistono in questo: che la loro oggettività non è in accordo col pensiero di esse, cioè con la loro determinazione universale, col loro genere e col loro fine. Le cose finite, con le determinazioni che hanno, non si accordano con l’universale, che ovviamente invece non ha fine, è infinito. Cartesio, Spinoza ed atri hanno espresso questa unità più oggettivamente; ma il principio della certezza immediata o della fede la presenta piuttosto secondo la maniera soggettiva di Anselmo: cioè che con la rappresentazione di Dio è inseparabilmente congiunta la determinazione del suo essere nella nostra coscienza. L’esistenza di Dio, comunque la si voglia pensare, è inseparabilmente connessa con il nostro pensiero. Quando il principio di questa fede concepisce anche le rappresentazioni delle cose esterne finite nell’inseparabilità della coscienza di esse e del loro essere, perché esse nella intuizione son congiunte con la determinazione dell’esistenza, questo certamente è esatto. Vedete come Hegel incomincia a insistere sull’inseparabilità di essere e di esistenza, cosa che peraltro aveva già posto in precedenza: essere e esistenza sono i due momenti del concetto. Ma sarebbe la maggiore assurdità, se si dovesse intendere che nella nostra coscienza l’esistenza sia congiunta con la rappresentazione delle cose finite allo stesso modo che con la rappresentazione di Dio: si dimenticherebbe che le cose finite sono mutevoli e passeggere, cioè che l’esistenza è congiunta con esse solo transitoriamente; che questa congiunzione non è eterna; ma separabile. Anselmo ha perciò a ragione, trascurando questa connessione che s’incontra nelle cose finite, dichiarato ciò soltanto come perfetto, che è non meramente in modo soggettivo, ma è insieme in modo oggettivo. Deve essere oggettivo, deve essere universale per funzionare. Se io lo applico alle cose che incontro e che mutano continuamente, il discorso non funziona più. Ma il difetto dell’argomentazione di Anselmo, – difetto che del resto è partecipato da Cartesio, da Spinoza, nonché dal principio del sapere immediato, - è che questa unità, la quale è enunciata come il perfettissimo, o anche soggettivamente come il vero sapere, – vien presupposta, vale a dire è presa solo come unità in sé. Questa unità, che potremmo dire di essere e essenza, è una unità che viene presupposta: io presuppongo che ci sia una unità di pensiero tra il mio pensiero e Dio, che queste due cose facciano uno, ma è una conclusione che presuppongo, non è una cosa che procede dalla struttura, potremmo dire così, del linguaggio. A questa unità, che perciò è astratta… Ponendoli in una presupposizione, rimangono due elementi astratti, separati. …vien contrapposta la diversità delle due determinazioni, come è accaduto da un pezzo contro Anselmo, cioè, in effetti, la rappresentazione e l’esistenza del finito vien contrapposta all’infinito, perché, com’è stato notato, il finito è una cosiffatta oggettività, che non è adeguata al fine alla sua essenza e concetto, ed è diversa da esso; – o è una rappresentazione, un qualcosa di soggettivo, che non involge l’esistenza. Se io tengo separato il finito dall’infinito, è chiaro che questa separazione impedirà comunque al mio pensiero, che è finito, di accedere all’infinito, vale a dire, non potrò mai conoscere Dio, e quindi non potrò dimostrare la sua esistenza con il mio pensiero. Questa obiezione ed opposizione si toglie solo col mostrare che il finito è un non vero; che queste determinazioni sono per sé unilaterali e nulle; e che l’identità, per conseguenza, è quella nella quale esse stesse trapassano e in cui sono riconciliate. È in fondo la critica alla religione. La religione fa questo: coglie l’assoluto, l’intero, ma non si accorge che questo assoluto, che questo intero, sono qui, in questo momento, mentre parlo. Se io le separo da me, allora a questo punto sono costretto a sistemarle da qualche parte, l’iperuranio, il paradiso, quello che vi pare. Ma sarà sempre una separazione, sarà sempre un modo di pensare l’intero che non è qui e adesso, non è quindi linguaggio ma qualcosa che deve essere poso altrove. Tempo fa dicevo che è per questo che si è inventato Dio: Dio come ciò che sta al posto del linguaggio, al posto dell’intero. Se io faccio quello che Hegel suggeriva di fare, cioè, portare Dio qui, nel senso che tutte le cose che io attribuisco a Dio sono io stesso, allora molte cose diventano complicate. Governare, gestire le cose, pensare una verità: tutte queste cose diventano straordinariamente complicate perché diventano momenti del linguaggio. A questo riguardo qui si affaccia naturalmente la questione del sillogismo compiuto. Fino ad ora abbiamo parlato del sillogismo formale, ma sappiamo che Hegel ha in mente il sillogismo compiuto. Il sillogismo formale è quello che illude di raggiungere la verità, per il motivo che dicevamo prima: il sillogismo è formalmente valido, quindi è vero e quindi ciò che dice è vero; costruendo, peraltro, un altro sillogismo formale. Come si passa, invece, dal sillogismo formale al sillogismo compiuto, e cioè dal giudizio squinternato, potremmo dire per sua essenza, a un qualche cosa che invece ritorna alla struttura del linguaggio? Il giudizio formale non tiene conto del linguaggio, nel senso che per potere formularsi il giudizio formale i tre momenti del sillogismo devono essere mantenuti separati, astratti e non concreti, in un tutto. Solo così si costruisce un giudizio formale, che, come dicevo prima, non può non farsi; si può però accorgersi di ciò che si sta facendo, e questa è l’unica cosa che è possibile fare. Per intendere il passaggio dal sillogismo formale a quello compiuto dobbiamo rileggere il paragrafo 192, che abbiamo già letto ma che occorre rileggere. Il sillogismo è stato preso secondo le differenze, che esso contiene; e il risultato generale del decorso di questa è, che in esse ha luogo il sopprimersi di queste differenze e dell’esteriorità del concetto a se stesso. Il sillogismo formale suppone che la premessa maggiore e la conclusione siano due cose esterne l’una all’altra, estrinseche. E cioè: 1) ciascuno dei momenti stessi si è mostrato come la totalità dei momenti, epperò come sillogismo intero: essi sono per tal modo identici in sé;… Qui incomincia a delineare quello che lui chiama sillogismo compiuto, cioè quel sillogismo dove non c’è più la separazione dei vari momenti, ma ciascuno dei momenti si pone come il sillogismo intero. …2) la negazione delle loro distinzioni e della mediazione di esse costituisce l’esser per sé;… Prima, dice, ciascuno dei momenti stessi si è mostrato come la totalità dei momenti, quindi, come sillogismo intero, come sillogismo in sé. Ma sappiamo che per passare dall’in sé al per sé, al significato reale, occorre che ci sia il per sé, e che perché ci sia il per sé occorre che l’in sé ponga se stesso come altro; quindi, negare questo altro e ritornare sull’in sé, che a questo punto diventa in sé e per sé. L’in sé è soltanto la prima parte, è l’immediato apparire di qualche cosa, ma, per dirla in modo molto rapido, questo apparire di qualche cosa non si sa che cosa sia se non c’è il per sé, se non c’è il significato; solo quando c’è il per sé, il significato, so che cos’ho di fronte. …cosicché un solo e medesimo universale è quello che si trova in queste forme, ed è posto anche come loro identità. Dice: un solo e medesimo universale è quello che si trova in queste forme; queste forme sono le tre forme del sillogismo aristotelico: deduzione, induzione, abduzione, che lui chiama anche analogia, ma sono la stessa cosa. In questa idealità dei momenti, il sillogizzare raggiunge la determinazione, di contenere essenzialmente la negazione delle determinazioni, attraverso le quali si passa;… Vengono negate le determinazioni, così come viene negato l’altro rispetto all’in sé – l’in sé che si vede come in sé, ma come altro, in quanto c’è una distanza a questo punto. Occorre sempre tenere conto che questa distanza di cui parlo non è altro che il linguaggio; è il linguaggio questa distanza tra l’in sé e il per sé, per usare le parole di Hegel, o tra il significate e il significato, per usare quelle di de Saussure. …con ciò, di essere una mediazione col negar la mediazione, e un connettere il soggetto non già con un altro, ma con l’altro negato, cioè con se stesso. il sillogismo accoglie le proprie determinazioni in quanto altre, ma poi le nega, in quanto queste altre determinazioni non sono altro che il soggetto stesso del sillogismo – il sillogismo è fatto di un soggetto, di un predicato e di un medio. Questo soggetto che cosa fa? Considera tutte le determinazioni, cioè il suo significato, e le annulla, le cancella. Perché le cancella? Perché inesorabilmente se, parlando, dico qualche cosa, questo qualche cosa ha un significato; ma se io immagino, penso, suppongo di separare ciò che dico dal suo significato allora annullo quello che dico, perché quello che dico rimane senza significato. È chiaro che sto facendo un’ipotesi per assurdo. Quello che dico è unito al suo significato, non può essere separato in nessun modo, non esiste se lo annullo: ecco perché non può essere separato. Per Hegel questo non è altro che il ritorno del per sé sull’in sé, del significato sul significante, che a questo punto diventa significante, diventa qualcosa, sennò è niente. Infatti, dice, con l’altro negato, cioè con se stesso: il soggetto del sillogismo ritorna a se stesso. Dopo avere negato le determinazioni che sono altro dal soggetto, e sono altro da lui perché sono la sua determinazione, ma il soggetto per potersi determinare deve prendere queste determinazioni e riportarle a sé; allora il soggetto è determinato, coì come il significante è determinato come significante. Torniamo alla Scienza della logica, a pag. 798. Con ciò si è ora tolto il formalismo del sillogizzare… Quello che mantiene separati i momenti del sillogismo. …e insieme la soggettività del sillogismo e del concetto in generale. Cioè: trasforma la soggettività in oggettività, ed è quello che diceva già nella Fenomenologia: soggetto e oggetto diventano lo stesso, non c’è più separazione; rimane una distinzione ma anche una inseparabilità. Questa formalità o soggettività consisteva in ciò, che quello che mediava gli estremi era il concetto come determinazione astratta… Nel sillogismo formale il medio è un astratto, ed è per questo che posso cambiarlo come mi pare; è come se fosse separato dagli altri e, quindi, posso farne quello che voglio: posso mettere gli apostoli, gli ebrei, ecc., quello che mi pare, senza nessun problema, il sillogismo è sempre valido, perché, come sappiamo bene, è sufficiente che il sillogismo non sia autocontraddittorio. …e questa determinazione era perciò diversa da quelli di cui era unità. Sta dicendo che questi momenti del sillogismo formale sono, sì, astratti, ma sono tuttavia momenti di una unità. Intende in questo modo il sillogismo come unità, non come tre momenti separati ed estrinseci. Al contrario nel compimento del sillogismo, dove l’universalità oggettiva è insieme posta come totalità delle determinazioni formali, la differenza del mediante e del mediato è scomparsa. Nel sillogismo compiuto, ci sta dicendo in modo preciso, la differenza del mediante e del mediato, tra il medio e gli estremi, è scomparsa, è tolta, per il processo di cui parlavamo prima, e cioè per il fatto che il soggetto, di fronte all’oggetto, si pone come altro da sé. Il soggetto, per potersi porre come soggetto effettivamente, deve avere un oggetto, deve avere un contrapposto: posso dire che c’è un soggetto perché c’è un oggetto che gli si contrappone, così come posso dire che io sono io perché c’è qualche cosa che non lo è. Però, nel momento in cui mi rendo conto di essere quello che sono, in quanto non sono quell’altra cosa, quell’altra cosa scompare affinché io possa essere io; non posso essere io e anche quell’altra cosa, incomincio a fare confusione, non so più se sono io o che cos’altro. Per determinarmi come soggetto occorre che l’oggetto ci sia in quanto tolto. È lo stesso discorso che faceva Severino rispetto all’essere e al non essere, né più né meno. Quello che è mediato è appunto un momento essenziale del suo mediante, e ciascun momento è come la totalità dei mediati. Sono momenti, quindi, momenti della totalità. Quando Hegel parla di momenti intende qualche cosa che non può essere separato dagli altri momenti: ciascuno dei momenti è l’unità. Così si è realizzato il concetto in generale. Con il sillogismo compiuto. Più precisamente, esso ha acquistato una realtà tale, che è oggettività. La prima realtà fu che il concetto, come unità in sé negativa,… Unità in sé negativa perché sorge dalla negazione di ciò che gli si oppone. …si dirime e pone come giudizio le determinazioni sue in una differenza determinata e indifferente, e che nel sillogismo contrappone loro se stesso. Mentre il concetto è così ancora l’interno di questa sua esteriorità, col movimento dei sillogismi questa esteriorità viene ad essere pareggiata coll’unità interna. Per via della mediazione, nella quale dapprima sono identiche soltanto in un terzo, le diverse determinazioni tornano in questa unità, e l’esteriorità presenta così in lei stessa il concetto, il quale pertanto non è più a sua volta distinto come unità interna da lei. Sta illustrando questo movimento tale per cui ciascuna di queste figure diventa, direi necessariamente, un momento. Se ci pensate bene, quando noi facciamo un sillogismo del primo tipo – tutti gli uomini sono mortali, tizio è un uomo, tizio è mortale – che cosa stiamo facendo? Stiamo dicendo, in realtà, che il primo giudizio, quello universale, è anche il terzo, vale a dire, il primo e il terzo dicono la stessa cosa. Se io dico che tutti gli umani sono mortali, è chiaro che tizio è mortale, è un umano, lo sanno tutti. Quindi, di fatto, la premessa maggiore e la conclusione di questo sillogismo sono la stessa cosa, dicono la stessa cosa. Ma, allora, che cosa significa questo sillogismo? Perché questo sillogismo? A questo punto, che cosa ne importa? Per Hegel ha una sua funzione, perché la premessa maggiore senza la minore e senza la conclusione è come se fosse nulla; soltanto in quanto c’è la premessa minore e la conclusione, in quanto annullate, allora la premessa maggiore diventa effettivamente il soggetto, diventa significante, diventa qualcosa che significa. Quella determinazione del concetto però, che fu considerata come realtà, è viceversa anche un esser posto. Poiché non solo in questo resultato si è affacciata qual verità del concetto l’identità della sia interiorità colla sua esteriorità, ma già i momenti del concetto nel giudizio rimangono, anche nella loro reciproca indifferenza, delle determinazioni che hanno il loro significato soltanto nella relazione loro. Il sillogismo è mediazione, il concetto completo nel suo esser posto. Il movimento suo è il togliere di questa mediazione nella quale nulla è in sé e per sé, ma ciascuno è solo per mezzo di un altro. Il resultato è quindi una immediatezza che è posta per il togliere della mediazione, un essere il quale è insieme identico colla mediazione ed è il concetto, che ha ristabilito se stesso dal suo esser altro e nel suo esser altro. Questo essere è perciò una cosa che è in sé e per sé, – l’oggettività. Ci sta dicendo una cosa importante, e cioè che l’unica cosa che il sillogismo compiuto può affermare con assoluta certezza è di essere una mediazione, di essere una relazione. Ora, mettete a fronte il sillogismo formale con il sillogismo compiuto. Il sillogismo formale pretende nella sua confusione di dire la verità; il sillogismo compiuto, invece, che cosa afferma? Che questo giudizio è una relazione, nient’altro. Capite bene che c’è una differenza sostanziale tra i due. il primo è sillogismo della volontà di potenza – adesso vi faccio vedere io come stanno le cose perché questo e quest’altro –; il sillogismo compiuto introduce il sillogismo come un tutto, cioè come linguaggio, dove ciascun elemento non è altro che relazione, e quindi il sillogismo compiuto è la relazione. Qui ci sta dicendo che il sillogismo compiuto, in quanto oggetto, è relazione, che curiosamente è quello che diceva Hjelmslev: l’oggetto non è nient’altro che l’intersezione di un fascio di relazioni. Anche Peirce arriva a dire una cosa molto simile a questa. Il passaggio dal sillogismo formale al sillogismo compiuto non è altro che l’inserire il sillogismo formale nel linguaggio, accorgendosi che il sillogismo formale, nel suo modo arruffato di pensare, pensa così perché immagina di dire cose che sono fuori del linguaggio, cose separate l’una dall’altra e che, quindi, non sono in relazione, se non attraverso un terzo elemento, che comunque è estrinseco.  Quindi, il sillogismo compiuto, potremmo dire il sillogismo dialettico, è il sillogismo che è tornato nel linguaggio, è tornato là da dove arriva, dal linguaggio, dall’intero, dal concreto. Tutti questi elementi, che il sillogismo formale tiene separati, sono reintegrati dal sillogismo compiuto, mostrando che ciò che il sillogismo dice e afferma con assoluta certezza è di essere relazione, nient’altro. Quindi, l’affermazione di un giudizio, qualunque esso sia, rispetto al sillogismo compiuto, non è altro che l’affermazione che ciò che si sta affermando è una sequenza di relazioni.

Intervento: …

Sì, questa è la posizione di Sini, la verità come transito da un elemento all’altro, come relazione, in effetti. Non so se a questo punto andrebbe rivisto anche il concetto di verità, perché a questo punto non ha molto senso parlare di verità.

Intervento: …

Affermazione che c’è anche in Severino. Ma se qualcuno chiedesse: “ciò che hai appena affermato è una cosa stupida?”, l’altro direbbe di no, naturalmente, anzi, si offenderebbe pure.

Intervento: …

Non è fuori dell’intero, del linguaggio, è nel concreto, non può non esserlo. Hegel pone questa questione esplicitamente, come quando vuole cogliere i tre giudizi – deduttivo, induttivo, abduttivo – come tre momenti. Il giudizio deduttivo parte dall’universale, tutti gli uomini sono mortali; uno potrebbe chiedere: come lo sai? Eh già, come lo so? E, allora, si passa al giudizio induttivo: ho sempre visto che sono morti tutti e, quindi, immagino che tutti quanti, se sono umani, debbano morire. Certo, ma questo giudizio induttivo da dove arriva? Da un’analogia, dice Hegel, dall’avere visto cose che sono simili a delle altre e, quindi, ho costruito questa idea. Questo, come dicevo all’inizio, è l’animale fantastico, che è il fondamento di ogni pensare, di ogni ragionare. Un animale fantastico da cui si parte, da cui si costruiscono tutti quei sillogismi meravigliosi, usati anche da Gödel nel suo teorema di incompletezza. Quindi, il giudizio deduttivo prevede l’induzione, il giudizio induttivo prevede l’analogia, l’abduzione. E l’abduzione da dove viene? Da una somiglianza, da un si dice, dalla chiacchiera, da quella che Peirce chiamava la verità pubblica, quello che i più pensano per lo più, quello che ho imparato a pensare, nella mia storia che segue la storia di migliaia di anni di altre storie. Quindi, il ragionamento, per quanto possa apparire rigoroso, inattaccabile e ineccepibile, sorge dal nulla, dalla chiacchiera, dal sentito dire. A questo punto si pone una questione importante che è quella dell’oggetto, dell’oggetto che appare. Così come Anselmo voleva far apparire Dio da suo pensiero, – come se apparisse miracolosamente, senza accorgersi che non aveva fatto nient’altro che una sequenza di sillogismi, di giudizi, di sicuro non è apparso Dio, non c’è traccia di questo – l’oggetto è il sillogismo. Come diceva Hjelmslev, è l’intersezione di un fascio di relazioni; l’oggetto è relazione, il sillogismo è relazione. A questo punto il passo successivo sarà interessante perché Hegel, a proposito dell’oggetto, fa una considerazione intorno alla teleologia dell’oggetto, cioè il fine, gli scopi dell’oggetto. E qui fa un discorso interessante intorno alla tecnica. Lui non vuole fare un discorso intorno alla tecnica, anche perché non esisteva allora così come la pensiamo oggi, però parla della tecnica, parla dei fini, della teleologia. In fondo, la tecnica è teleologica.

Intervento: …

Hegel si è interessato a tutto ciò che interroga il pensiero. Questo è il messaggio, che poi è stato ripreso anche da Heidegger: tutto ciò che costituisce un problema, cioè qualcosa che è da pensare ancora. È questo che Hegel invita a fare.