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5-8-2015

 

La lettura e la discussione dei testi è stata fatta anche allo scopo di confrontarci con nuove argomentazioni intorno a qualche cosa che da parecchio tempo andiamo considerando, e cioè il fatto che trattandosi per gli umani esclusivamente di linguaggio, ogni volta in cui gli umani parlano avviene qualche cosa che meriterebbe di essere considerato importante, per un unico motivo: è la sola cosa che hanno. Per questo ci siamo soffermati in primo luogo su quegli aspetti che sono più rilevanti per quanto riguarda il funzionamento del linguaggio, e quindi in primo luogo il primo principio così detto, il principio di non contraddizione, e per valutare meglio la questione tenendo conto anche di ciò che altri si sono trovati a dire, leggemmo Łukasiewicz, e poi le obiezioni di Severino a Łukasiewicz. Prima ancora demmo uno sguardo veloce alla semiotica con Hjelmslev, Greimas, che sono stati i primi e saranno anche gli ultimi perché alla fine ritorneremo su Greimas come annunciato, e probabilmente anche Peirce. Considereremo un testo che forse è più vicino alla questione che ci riguarda e ci interessa particolarmente, e cioè quella del potere, e leggeremo Del senso di Greimas. La questione fondamentale a questo punto, non è tanto intendere il funzionamento del linguaggio, cosa che sì abbiamo intesa e continuiamo a articolare in modo sempre più preciso, sempre più attento, adesso la dico in modo un po’ rozzo, un po’ ontologico, ma essere tutte queste cose che stiamo dicendo. Questa affermazione merita qualche breve considerazione “essere tutte queste cose” comporta il trovarsi a pensarle necessariamente e non potere non farlo, perché ogni volta in cui si parla o si pensa, che a questo riguardo sono la stessa cosa, accade qualcosa di singolare, ogni volta che si parla è tutto presente lì, in quel momento. Nietzsche aveva posta la questione con la dottrina dell’“eterno ritorno dell’uguale”, ma che cosa vuol dire che ritorna? Che cosa ritorna? Ritorna l’attimo che è sempre lì ed è sempre uguale perché è sempre un attimo, quell’attimo che potremmo indicarlo, forse per rendere la cosa più perspicua, come l’atto di parola, l’attimo dove presente e passato si fondono insieme, “battono la testa insieme” diceva Nietzsche che immaginava due vie, da una parte il passato e dall’altra il futuro, tra queste due vie la soglia, l’attimo, è lì che si incontrano, potremmo dire nell’atto di parola si incontrano il passato e il futuro, cioè queste due istanze che sono state inventate ovviamente, ma che rappresentano tutto ciò che accade nel momento in cui si parla, tutto ciò che è stato, tutto ciò che è stato acquisito, pensato, detto e anche tutto ciò che ancora non è stato detto, pensato e acquisito, è tutto presente in quell’attimo. Nietzsche giunge a dire che anche il futuro è presente in quell’attimo, ma questo ci dice soltanto che, senza volere fare della dottrina dell’“eterno ritorno” una religione, cosa che lui non voleva, dice soltanto che il futuro è qui adesso, perché esiste solo il qui e adesso, e anche perché ciò che sarà è già qui e adesso perché è qui e adesso come possibilità. La “possibilità” per Nietzsche è importante e contro chi gli obiettava che se una cosa è possibile vuol dire che può accadere come anche non accadere, è irrilevante, porta al più terribile nichilismo cioè all’indifferenza totale e assoluta nei confronti di qualsivoglia cosa, ma lui dice “però non è proprio così perché la possibilità, per esempio dell’inferno, ha creato non poche conseguenze”. È chiaro che gli si potrebbe obiettare, cosa che per altro Heidegger non fa ma lo faccio io, che perché questa possibilità sia efficace, cioè produca tutto ciò che può produrre occorre che non sia vista come una possibilità ma come una certezza, perché se è solo possibile potrebbe anche non accadere, se la possibilità dell’inferno ha prodotto tutto ciò che ha prodotto, cioè lo strapotere della chiesa, è perché questa possibilità è stata pensata come certezza, non come una mera possibilità, ma, dicevo, quando si parla l’atto di parola non è molto lontano da ciò che per Nietzsche è l’attimo che rappresenta l’eterno ritorno dell’uguale, in cui ciascuna volta è tutto lì, è tutto uguale perché non può mutare, non può essere altro se non un attimo, perché non c’è altro al di fuori di quell’attimo, così potremmo dire che non c’è altro al di fuori dell’atto di parola in cui gli umani si trovano. Quindi l’obiettivo di tutto ciò che andiamo facendo, che troverà una conclusione che propriamente, in quanto conclusione, così come accade sempre, sarà l’apertura verso altre nuove direzioni, questa conclusione che verrà quando ci saremmo dedicati alla semiotica nuovamente, dicevo, l’obiettivo di questo percorso è cogliere in modo sempre più attento, sempre più preciso, in questo la semiotica potrà dirci ancora delle cose, che cosa accade parlando. Perché vedete, anche per Nietzsche c’è una strettissima connessione tra quell’attimo, cioè l’eterno ritorno dell’uguale e la volontà di potenza, la connessione sta nel fatto che in quell’attimo ciò che accade propriamente è il volere produrre qualcosa, il volere cioè proseguire. È curioso che descriva questa cosa, senza mai citare il linguaggio, lo fa poi Heidegger in modo comunque indiretto, che in effetti ha questa prerogativa, cioè “la volontà” tra virgolette adesso stiamo antropomorfizzando ma non è questo il punto, la volontà di proseguire, la volontà di costruire altro che è la volontà di potenza propriamente, per Nietzsche è questo, di costruire continuamente altro, cioè di produrre altre sequenze linguistiche, altri discorsi, altri atti di parola, altri “attimi eterni”? Per Severino sì, per noi forse, forse nel senso che se si accolgono le premesse di Severino sono “eterni”, certo, però sul concetto di “eterno” abbiamo espresso qualche perplessità, ma potremmo comunque dire “eterno” nel senso che anche per Severino è tutto lì, il Tutto di cui parla potremmo considerarlo anche questo come l’atto di parola in cui si gioca tutto, in questo senso è Tutto, si gioca tutto perché prima non c’è nulla, dopo non ci sarà nulla, che è esattamente quello che sosteneva Gentile: l’atto di pensiero come atto puro è quell’atto che è tutto perché tutto accade lì. Ma tutto cosa, si chiede giustamente Cesare? Tutto ciò che per l’umano è pensabile, il pensabile tout court, si gioca tutto lì, è chiaro che in questo tutto, dice e lo continua a dire ininterrottamente, c’è tutto il passato, tutto il futuro, il presente è lì adesso ed è quell’attimo che compendia tutto quanto, per questo dico che si gioca tutto lì, non c’è un’altra possibilità, ciò che accadrà sarà un altro atto di parola che però non posso neanche pensare adesso perché ciò che sto pensando è ciò che sto pensando adesso, non posso pensare ciò che penserò se non pensandolo in questo istante, tutta la questione di Gentile verte su questo. L’ultimo uomo, dopo ci sarà che è questo attimo, e non può più non esserlo, qui la volontà di potenza non è che scompaia ma anzi è portata all’estremo, in quanto la “volontà di potenza” non è altro che la volontà di essere questo attimo che è lui che crea. Questo atto di parola non dovete pensarlo come un chissà che cosa, pensatelo in modo più corretto e interessante come atto di parola, dunque essere questo attimo è ciò che Nietzsche dice ovunque, nello Zarathustra, nella Gaia Scienza, la Volontà di potenza è, continuo a dire, trovarsi a essere, però non prendetelo come una modalità ontologica, ma trovarsi a non potere non trovarsi a praticare o meglio ancora ad agire l’atto di parola o per Nietzsche l’attimo, e cioè l’eterno ritorno dell’uguale, che non dà adito a ripensamenti, nostalgie, attese di futuro, non c’è nulla di tutto questo, non c’è più nulla di tutto questo, c’è soltanto ciò che si sta giocando lì in quell’istante, per questo l’oltre uomo, che è l’ultimo, l’ultimo della sua specie, quello che è riuscito a fare l’ultimo passo verso questo che vi sto dicendo. A questo punto occorrerebbe distinguere perché la volontà di potenza è anche la volontà del politico di impadronirsi del maggior numero di voti, anche quella è volontà di potenza, o impadronirsi dell’ultimo telefonino, ora la volontà di potenza percorre tutta la “storia”, non è una storiografia ma è un percorso intellettuale, percorre dunque tutta questa strada fino ad arrivare alla volontà di potenza portata al suo compimento. La volontà di potenza non è che la volontà di essere l’atto di parola, o di agire l’atto di parola più propriamente, quindi è ovvio che la volontà di potenza così come la pone Nietzsche, ma così come l’abbiamo posta non può togliersi, perché è costitutiva dell’umano e cioè di ciò che lo costituisce, appunto il linguaggio. La volontà di potenza appartiene o è un effetto, potremmo quasi chiamarlo collaterale del modo in cui il linguaggio funziona, del modo in cui il linguaggio si muove, costruisce, produce continuamente cose. Questo né Heidegger, né Nietzsche, e neanche Severino hanno potuto coglierlo appieno perché per poterlo fare occorre avere riflettuto molto bene sul funzionamento del linguaggio e soprattutto avere compiuto quel passo che nessuno aveva compiuto prima: applicare le conclusioni di un’argomentazione teoretica all’argomentazione stessa. Facendo questo cambia tutto e si spalanca un universo, che mette anche in condizioni di riflettere in modo meno sprovveduto, ingenuo, intorno a ciò che si sta pensando, perché se le conclusioni di una certa argomentazione applicate all’argomentazione stessa demoliscono l’argomentazione, allora c’è qualche problema. Cosa che accade molto spesso se non quasi sempre quando le argomentazioni sono di una certa portata, di un certo rilevo, se no non succede niente anzi, non succede mai niente, però è questo che ci ha condotti a ciò che forse inquietava Nietzsche come ciò che è più spaventoso, che non è come lui intravedeva la totale indifferenza per qualsivoglia cosa, ma il contrario, che è anche peggio, e cioè il porre rilievo a qualunque cosa in quanto questa qualunque cosa deve la sua esistenza unicamente al linguaggio, e quindi essendo dipendente dal linguaggio non è altro che una produzione linguistica, un qualche cosa che viene prodotto in base a certi criteri che sono quelli che fanno funzionare il linguaggio, che ha un certo significato, e quale sia il significato questo è il processo semiosico lo mostra abbastanza chiaramente, abbastanza, non del tutto però. Dicevo che questo è molto peggio perché a questo punto qualunque cosa non ha né può avere, questa è la cosa più importante, quella portata che per esempio Nietzsche sperava, che il suo scritto fosse più importante oltre che più profetico, avesse ciò che in nessun modo può avere, è questo carattere di essere portatore di verità, né l’opera di Nietzsche, né quella di Heidegger, né quella di Severino, né la mia sono portatrici di verità. La verità si crea, come un utensile in un certo senso, perché dico questo? Perché per stabilire una verità occorrono dei criteri, per esempio dicevamo la volta scorsa, per Severino è il principio primo quello fondamentale, e cioè il principio di non contraddizione, che ha la virtù, la peculiarità di rendere qualunque cosa neghi questo principio un’autonegazione, ma come abbiamo accennato mercoledì scorso, è possibile costruire argomentazioni che aggirano il primo principio e per usare le parole stesse di Severino, per poterlo utilizzare questo primo principio è necessario avere fede in questo primo principio. Leggendo Nietzsche verrebbe quasi da usare un tono profetico, ma non lo faremo perché un qualunque tono profetico si situa sempre nell’ambito del nichilismo, cioè immagina che così le cose non vanno e debbano essere in un altro modo, quindi le cose che sono adesso debbano scomparire e fare comparire queste altre nuove, perché non facciamo questo? Perché non ci interessa più, non è più così importante ma sarebbe da usare per la sua portata retorica, e cioè il detto di Nietzsche, da qualche parte mi sembra la Gaia Scienza non ricordo più, “sii quello che devi essere”. Detta così offre il fianco a qualche obiezione ma potremmo porla come progetto non solo di vita ma soprattutto in prima istanza teoretico, dopo diventa progetto di vita e cioè non di “diventare”, che non è di questo che forse si tratta ma di agire l’atto di parola ciascuna volta. Dicevo non “diventare” per ciò che questo verbo si porta appresso in ambito filosofico e non solo, appunto tutto il problema del divenire, se dicessi “diventa questo” sto dicendo che quello che sei adesso non va bene e che invece va bene quella cosa che devi diventare. Il diventare qualche cos’altro presuppone un passaggio da un certo stato a un altro, un certo stato che è quello che non va a un altro che è quello che va, per questo cercavo di evitare l’uso di questo verbo non perché abbia qualcosa contro questo verbo, ma per quello che si porta appresso: tradizioni filosofiche per altro messe molto bene in evidenza da Severino, mentre Nietzsche crede fortemente, fermamente nel divenire, ovviamente da qui la grande simpatia per Eraclito, per il suo πάντα ῥεῖ, tutto scorre anche se poi ad un certo punto si pone a una certa distanza e rilegge Eraclito ma lo vedremo poi man mano. Lo vedremo sempre nelle parole di Heidegger, molto spesso in ciò che Heidegger dice di Nietzsche c’è molto più Heidegger che Nietzsche.

Intervento: com’è difficile affermare qualsiasi cosa, è difficile accorgersi delle cose che si dicono.

Non è tanto difficile affermare qualcosa ma cogliere ciò che c’è in questa affermazione, è impossibile non affermare perché il linguaggio funziona a questa maniera, ogni volta necessita di un qualche cosa che si fermi, di stabile, che sia quello che è, adesso lasciamo perdere tutto ciò che comporta questo “quello che è” di cui abbiamo discusso e discuteremo ancora, ma dicevo si afferma o per stabilire immaginando, in preda a delirio realistico, di potere affermando stabilire come stanno le cose, oppure l’affermare è semplicemente un affermare qualcosa all’unico scopo di potere continuare a dire, che rapporto c’è tra l’affermare qualcosa e l’attimo di cui vi dicevo cioè l’atto di parola? L’atto di parola è tale in quanto afferma un qualche cosa ma in questo affermare qualche cosa c’è tutto, pur non essendoci né passato né futuro in un certo senso, non c’è il passato perché se penso il passato penso qualcosa che sto pensando in questo istante, e la stessa cosa vale per il futuro, e quindi ciò che affermo che validità ha? È come un tutto, Tutto quasi nell’accezione severiniana del termine, più forse verso Nietzsche, in quanto c’è tutto il passato, tutto il futuro, è tutto lì, si gioca come dicevo tutto lì, in ciò che sto affermando in quel momento, per questo senza saperlo la psicanalisi ha intuito che in ciò che si afferma, in ciò che si dice c’è molto di più di quanto si immagina …

Intervento: stavo pensando proprio a questo banalizzando, come se nell’atto di parola di ciascuno ci fosse tutto il discorso …

Sì, ma c’è un problema: cosa posso saperne di questo tutto? Tecnicamente niente …

Intervento: io pongo questo tutto come la condizione dell’atto di parola, non di cogliere questo tutto, di saperlo … quell’atto c’è in quanto c’è questo tutto se no non ci sarebbe neanche quell’atto … Questa è un po’la tesi di Severino in effetti, e anche della semiotica, dopo tutto Greimas dice esattamente la stessa cosa. Ecco, mi aggancio alle cose che ho detto prima, il progetto è riuscire a pensare tutte queste cose, tutte quante simultaneamente, come se in ciascun atto di parola tutte queste cose fossero lì necessariamente e non potessero non essere, forse questa è la condizione per poter agire l’atto di parola e non potere non farlo. Ma stavo mostrando un aspetto interessante che è un po’ il filo conduttore delle letture che ci siamo trovati a fare e che continueremo a fare e cioè mostrare il problema che potrebbe anche considerarsi uno stesso problema che è iniziato con Parmenide, poi con i Sofisti, lo stesso Aristotele e anche con Platone fino ad arrivare fino ad Heidegger, Severino, per loro, essendo filosofi, tutto si gioca intorno al sapere intorno all’ente. Per Nietzsche l’ente è l’uomo in quanto si trova preso in questo eterno ritorno dell’uguale, ma l’interrogazione verte sempre intorno all’ente, a ciò che c’è, e l’Essere non è nient’altro che la forma più astratta e dopo tutto più autentica dell’ente, è ciò che l’ente necessariamente è, ma che cosa si sta dicendo con tutto ciò? Qualcosa che forse è relativamente semplice e cioè questo “che fondamento riusciamo a dare, o a trovare all’atto di parola?” quale fondamento? Perché tutte queste ricerche paiono vertere esattamente su questo: la ricerca disperata e in alcuni casi anche dissennata intorno a una garanzia, qualche cosa che garantisca l’atto di parola una volta per tutte. La ricerca della metafisica in quanto elaborazione dell’ente e soprattutto dell’Essere dell’ente verte su questo, l’ente, ciò che c’è, ma che cosa c’è, se non ciò che stiamo dicendo? Di questo molti si sono accorti, Wittgenstein in prima istanza, ma non solo lui, ciò che c’è è ciò che si dice, non c’è altro. Questo Gentile lo riferiva al pensiero ma il pensiero è parola, se no non è niente, quindi la domanda verte sullo stesso problema che attraversa tutti questi pensatori e potremmo dire non “che cos’è l’ente?” oppure sì un particolare ente che rende possibile tutti gli altri enti, che cos’è l’atto di parola? È un ente? Per la filosofia certo, lo chiama così, chiama così tutto ciò che c’è, c’è anche l’atto di parola ma questo atto di parola, questo ente è qualcosa di particolare che Heidegger attribuiva all’uomo, l’uomo è l’unico che si fa domande, ma perché si fa domande? Come fa a farsi domande? Che cos’è che glielo permette? Sarebbe uomo se non potesse farsi domande? Cioè se non fosse nel linguaggio? No, lui sfiora la questione ma non l’afferra fino in fondo se no avrebbe lasciato da parte l’uomo per dedicarsi unicamente a ciò che rende l’uomo tale e il linguaggio …

Intervento: continuando anche l’interrogazione sulle cose che ci siamo trovati a riflettere mercoledì scorso e cioè come un pensatore come Severino, abbia dovuto costruire per giungere all’affermazione dell’“incontrovertibile” a una verità assoluta, lei prima parlava di Nietzsche il quale Nietzsche era travolto dalla paura che le cose che lui andava dicendo non fossero vere poi tutto sommato, e questo è quello che produce il discorso metafisico, è di questo che parliamo quando parliamo di “volontà di potenza”, solo in un’analisi c’è la possibilità di elaborare e di far entrare all’interno della parola, del discorso, tutto ciò che attiene alla sua necessità …

Sì, dice bene, perché è l’unica occasione, almeno l’unica costruita dagli umani in cui c’è un confronto diretto e inevitabile con l’atto di parola, è l’unica situazione. In effetti Severino, lo dicevamo mercoledì scorso, il tentativo, riuscito o no, è l’apoteosi della volontà di potenza, è il raggiungimento ultimo della verità e quindi, e quindi la possibilità di ergersi al di sopra di tutti, ma se questo cessa di esistere allora non rimane che ciò che dicevo prima, e cioè l’agire l’atto di parola per quello che è …

Intervento: volevo ancora aggiungere a proposito proprio di questo e dell’analisi che comporta l’elaborazione proprio della questione della volontà di potenza, che è complessissima, da praticare ovviamente, ad un certo momento si intende ma praticarla è come se si dovesse entrare ciascuna volta nell’attimo … Il fatto di poter considerare che anche le cose che noi stiamo costruendo, abbiamo costruito, non stanno da nessuna parte cioè non sono verità assolute fuori dal linguaggio stanno in ciò che diciamo ma questo poter svincolarsi dal discorso occidentale che vuole risposte immediate, autentiche, basti pensare alla psicanalisi, che è diventata psicoterapia per assolvere a questa funzione, svincolarsi e rispondere liberi mi pare che sia effettivamente poter giocare con l’atto di parola, non avendo più interesse per quelli che sono i giochini praticati dal discorso occidentale che vuole e crede nella verità assoluta che è ovvio è fuori dal linguaggio …

Bene, con queste belle parole di Beatrice possiamo concludere, ci vediamo mercoledì prossimo.