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5 luglio 2023

 

I concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

Stiamo considerando qui una serie di questioni notevoli, che Heidegger sottopone al nostro pensiero. Una delle ultime, molto importante, era proprio questa, e cioè l’essere già interpretato: ciascuna cosa, se è qualcosa, è perché è già interpretata, se non altro come qualcosa. Questo ci induce a pensare che tutto ciò che consideriamo come utilizzabile è qualcosa che è già necessariamente interpretato. Infatti, sappiamo che è un utilizzabile già interpretato. Ogni cosa che incontriamo appare sotto questa luce, come già interpretata. Quali sono le implicazioni di una cosa del genere? Se è già interpretata comporta che è da lì che si parte. La chiacchiera è il già interpretato, lo diceva prima, quindi è qualche cosa che si suppone di sapere, ma in ogni caso è ciò da cui si parte per fare qualunque considerazione. Questo ha degli effetti, dal momento che tutto ciò che penso, costruisco, immagino, spero, detesto, apprezzo, ecc., muove da qualcosa che è già interpretato, che è già presente, che utilizzo. Un utilizzabile, dunque, e il termine συμφέρον, utilizzabile, compare anche qui; potremmo dire che il già interpretato è l’utilizzabile. Siamo a pag. 309. L’“essere già interpretato” dell’esserci è retto dal λόγος: la chiacchiera, il “come si parla in genere delle cose”, è determinante per la concezione del mondo. Cioè, come io vedo il mondo o la Weltanschauung, come la chiamano i tedeschi, letteralmente la visione del mondo. Abbiamo cercato di capire perché il parlare è caratterizzato in quanto διανοεῖσθαι (credenza, supposizione), διαλέγεσθαι (argomentare); e lo è perché l’esserci è determinato dalla ήδονή (soddisfazione), tutto viene compreso in quanto questo e quello, in quanto “utile a…”, συμφέρον (utilizzabile)… Se è utilizzabile mi soddisfa, se non è utilizzabile non mi soddisfa. …e compreso, per la precisione, primariamente in termini non teoretici. Tutto ciò che si pensa è compreso inizialmente in modo non teoretico ma semplicemente accolto come un “si dice”, anche se non compare questa formulazione propriamente, però non è altro che la chiacchiera. Dopo può eventualmente intervenire un approccio teoretico, ma inizialmente si parte da lì, dalla chiacchiera. Il modo medio di parlare e di comprendere è il διανοεῖσθαι (supporre, credere). Solo contro questo parlare medio (λέγειν τί κατά τίνός (dire qualcosa in vista di qualcos’altro)) la ἓξις può affermarsi in quanto άληθεύειν. Soltanto se ci si pone contro questo parlare, contro la chiacchiera, quindi solo se si fa uno sforzo concettuale, direbbe Hegel, allora ci si può volgere (ἓξις = essere situato) verso l’άληθεύειν, cioè, c’è la possibilità di trovare qualcosa di vero. Il λόγος καθαύτό si rivolge all’ente “in esso stesso”, non pone cioè l’ente che “ci” è in una prospettiva a esso estranea, ma attinge all’ente stesso le prospettive in cui esso va considerato. Sarebbe come dire: ciascun ente interviene nella prassi, nell’agire quotidiano, per lo più come utilizzabile. Heidegger dice che invece l’approccio teoretico si pone delle domande intorno all’ente, non tanto in quanto funzionale a… ma in quanto per se stesso. Ora, noi sappiamo che l’ente per se stesso è un modo di dire, non c’è in effetti l’ente per se stesso, l’ente è sempre per…, è sempre un πρός τί, è sempre in relazione a qualcosa. Però, come ci diceva nelle pagine precedenti, è un’opportunità per non considerare più gli enti in quanto funzionali a qualcosa ma per provare a interrogarli direttamente. Che è quello che noi abbiamo fatto e continuiamo a fare rispetto al linguaggio: non consideriamo il linguaggio per ciò che ci è utile nel quotidiano, ma cerchiamo qualcosa del linguaggio, del suo funzionamento, potremmo dire del suo essere, in che cosa consiste, perché è così com’è. Questo λόγος, che si rivolge all’ente nel suo essere a partire da esso stesso, è lo όρισμός (definizione). Cioè, il modo di approcciare l’ente è cominciare a definirlo, cioè “che cosa intendo con questa cosa qui?”. Conformemente alle determinazioni fondamentali dell’essere in quanto essere-prodotto e aspetto, lo όρισμός ha la struttura seguente: esso si rivolge all’ente in quanto tale chiedendosi quale ne sia l’origine, γένος, e, data tale origine, che cosa esso sia, εἶδος (immagine). Il contesto ontologico del γένος e dell’εἶδος, preso nel suo complesso, è il τό τί ἧν εἶναι (che cos’è l’essere, che cos’è sempre stato, in latino Quod quid erat esse): τί ἧν = γένος, τό εἶναι = εἶδος. Nell misura in cui l’ente si trova posto entro certe prospettive da cui risulta determinato, l’indagine è tenuta a porre in luce l’“a partire da”. Γένος: da dove viene questa cosa? A partire da che cosa? Questo “a partire da” sono le άρχαι (le origini). Tali άρχαι sono le prospettive fondamentali in cui l’esserci concreto viene e spiegato in se stesso. Quando si pratica la ἓξις dell’άληθεύεινL’essere situati in modo da cercare il vero. …il λόγος diventa tale da avanzare verso le άρχαι. Cioè, quando mi chiedo la verità intorno a qualcosa, per sapere perché è così com’è comincio a cercare la sua origine, da dove viene. La concreta attuazione della ἓξις è l’έπιστήμη, e la specifica “scienza” che ha a che fare con le άρχαι è la πρώτη φιλοσοφία (la scienza prima di Aristotele), in breve: σοφία (sapere). Un’indagine eccellente, che non si limita ad approfondire l’ente nelle sue determinazioni concrete, ma pone in luce le prospettive di fondo, è guidata dalla domanda: τί τό ὅν? “Che cos’è l’ente in quanto ente? Che cos’è l’essere?”. Cioè: che cosa fa dell’ente quello che è? Tenete conto che qui Heidegger sta parlando della Fisica di Aristotele. Aristotele ha cominciato a porsi queste domande, cioè “che cos’è qualche cosa”, nella Fisica rispetto al movimento: che cos’è il movimento, perché qualcosa si muove? Era lontana da Aristotele la volontà di misurare il movimento, a lui non interessava per nulla, interessava sapere che cosa si intende quando si parla di movimento (κίνησις), sapere che cos’è il movimento, semplicemente; non come accade, come lo misuro, ma perché c’è il movimento? La questione straordinaria è che Aristotele giunge a intendere l’origine, l’άρχή del movimento nel λόγος. È nel λόγος che ci sono le condizioni per potere pensare il movimento. A pag. 310. In ciò che conosciamo come Fisica aristotelica abbiamo a che fare con un’indagine siffatta sull’άρχή in quanto possibilità nell’esserci stesso. La possibilità dell’uomo. L’esserci è l’uomo. Nel libro III Aristotele definisce tale indagine μέθοδος περί φύσεως (metodo intorno agli enti di natura). La ricerca è περί φύσεως, quindi non περί τῶν φύσει ὃντων, “sugli enti che sono determinati dall’essere della φύσις”, ma sulla φύσις stessa, sull’essere di questi enti. Non cosa fa la fisica ma che cos’è la fisica: questa è la sua domanda. Per comprendere il nesso tra la Fisica e l’ontologia aristotelica bisogna tenere presente fin da principio che l’indagine che tratta della φύσις altro non è che l’identificazione delle categorie primarie che Aristotele applicherà poi nella sua ontologia. Tutto ciò che trova nella Fisica, in effetti lo ritroveremo poi nella Metafisica sotto forma di categorie ontologiche. La φύσις viene definita άρχή κίνήσεως καί μεταβολῆς (origine del movimento e del divenire). Se infatti si deve chiarire la φύσιςGeneralmente si traduce φύσις con natura, ma tempo fa Heidegger ci fece notare da qualche parte che φύσις viene da φύω, sorgere, a cui poi si è aggiunto che sorge autonomamente. Pensate all’esempio classico di Aristotele: l’albero sorge da solo, non ha bisogno di me, mentre il tavolo sì, ha bisogno della tecnica di qualcuno che lo sappia fare, i tavoli non crescono da soli. Se infatti si deve chiarire la φύσις, è necessario chiarire anche ciò di cui essa è l’άρχή:… Di che cosa è l’άρχή la φύσις? Questa origine come si pone rispetto alla φύσις? Lo continua a dire non tradotto, perché φύσις non è natura, noi intendiamo tutt’altra cosa da ciò che gli antichi intendevano con φύσις … “Non ci deve rimanere nascosto che cos’è il movimento stesso”. Aristotele parla qui ricordando quanto già detto nei due precedenti libri della Fisica, sui quali – e sul cui nesso – è bene fornire alcune sintetiche indicazioni orientative. Quando intraprese l’indagine sulla φύσις, Aristotele si muoveva già all’interno di una determinata interpretazione della natura. Ovviamente. Anche lui si muove dal già interpretato; poi, lui lo ripensa in termini teoretici e riesce a intendere qualcosa di più e di meglio. Nei suoi anni di apprendistato e di studio egli era venuto a conoscenza di specifiche concezioni della natura, che però non riteneva in grado di cogliere proprio l’ente che interpretavano. Parlavano sì della natura, però non dicevano che cos’è la natura. Quindi, dovendo interpretare quest’ultimo, si rendeva necessario decostruirne quell’“essere già interpretato” che finiva per occultarlo, liberando così l’ente stesso, come esso era inteso anche nelle concezioni precedenti. In altre parole: il primo passo di un’indagine sull’άρχή così concepita era la critica, nel senso che ciò che era stato già sempre interpretato, ciò che era già stato colto nelle concezioni precedenti, andava dapprima esaminato nelle sue proprie ragioni e portato a trasparenza. Occorre cominciare a interrogare le cose se si vuol trarne qualcosa. La critica altro non è che il “portare a stesso” il passato. In tal modo l’indagine sull’άρχή diventa nel contempo indagine sull’accesso: essa libera la strada che porta a ciò che si intende. La critica riflette sulla cosa, la mette a tema e la problematizza. Aristotele svolge l’indagine sull’άρχή nel libro I della Fisica. La sua critica appare in un primo momento limitata in una forma del tutto peculiare, giacché egli discute la questione se, in riferimento a questo ente, vi sono molte άρχαι o una sola άρχή. Anche questa è una domanda legittima: sono molte le origini o tutto viene da una cosa sola? Dobbiamo intenderci bene sul significato specifico di tale questione, e la cosa ci appare più chiara se teniamo presente il primo livello della critica, la polemica con gli eleati. La critica aristotelica degli eleati ha già attirato spesso l’attenzione; si è detto che Aristotele li chiama in causa solo per avere un facile obiettivo da criticare, dato che egli per primo ammette: propriamente non c’entrano con la nostra questione. Come dice giustamente Heidegger, Aristotele aveva bisogno di qualcuno da criticare. Egli lo dice perché si rende conto che Parmenide, con la definizione ἒν τό ὅν, “l’essere è uno”, ha sì colto una determinazione fondamentale dell’essere, ma si è fermato qui. E poiché da questo punto di vista l’essere della κίνησις risulta negato,… Se c’è solo l’essere non c’è movimento, ovviamente. …Aristotele non può che far rientrare gli eleati nell’ambito della sua critica. Non si può definire l’ente nel suo essere se ci si impunta a sostenere che c’è una sola άρχή. Sarebbe interessante riprendere la lettura che fa Heidegger di Parmenide. Questa affermazione disconosce il senso dell’άρχή in quanto tale, dato che già nell’articolazione di un ente in una determinata prospettiva si danno πολλά (molti). L’uno e i molti. Heidegger, rispetto ad Aristotele, si chiede come si può pensare che l’άρχή sia una sola quando l’uno è molti, è appunto πολλά. Quando articolo qualcosa mirando a un’άρχή ho già un raddoppiamento. Ho qualcosa di già dato e devo porlo in una prospettiva:… Non è altro che il rinvio. … qualcosa in quanto qualcosa. Qualcosa, se è, è in quanto qualcosa, quindi, è già in uno spostamento. Non si può articolare l’ente in riferimento al suo essere se fin da principio non si ammette la possibilità di una molteplicità delle άρχαι. Se devo determinare qualche cosa ho bisogno di qualche cosa con cui determinare, quindi, già un’altra cosa. Vedete come qui Heidegger abbia colto molto bene la questione, dicendo non si può articolare l’ente in riferimento al suo essere se non con un riferimento a una relazione, con un riferimento a qualche cos’altro, πρός τί, in relazione a. Nel corso della sua critica Aristotele mostra che ci dev’essere più di un’άρχή, ma non più di tre. L’essere della natura, i φύσει ὅντα, spingono di per sé a questo numero delle άρχαι. Come sappiamo, sono tre: δύναμις, ἐνέργεια e έντελέχεια. La δύναμις, l’andare verso il finito, non è la possibilità, cioè come qualcosa che può essere e non essere, no, ma è il possibile in quanto c’è già, perché c’è già l’atto; non può darsi la δύναμις, il possibile senza l’atto, sennò è possibile a che? Quindi, la δύναμις è già presente, ma non è il finito. L’ἐνέργεια è l’atto compiuto. Ma l’atto compiuto ha bisogno di che cosa? Ha bisogno anche della possibilità di essere un atto compiuto – compiuto nel senso di finito, di portato a compimento. Quindi, questi due elementi devono essere simultanei, per cui, ecco, l’έντελέχεια. Il κινούμενον non si lascia dimostrare nel senso dell’άπόδειξιξ (dimostrazione). Non è una dimostrazione logica, il movimento non si lascia chiudere in una dimostrazione logica. Questo carattere fondamentale dell’ente è raggiungibile nell’έπαγωγή (induzione). Cioè, devo costruirlo: è questa la questione. L’έπαγωγή, l’induzione, costruisce qualcosa, potremmo dire, ex nihilo, dal nulla, la costruisce letteralmente. Ne parlavano quando si diceva della deduzione e dell’induzione: la deduzione ha bisogno di una premessa maggiore determinata, ma chi gliela fornisce? La deduzione non può fornirla, perché andremmo avanti all’infinito; gliela fornisce l’induzione, che la costruisce. Quindi, è soltanto dall’induzione… come sappiamo bene, da un’analogia: noi traiamo l’idea di qualcosa che è in movimento, il κινούμενον. Ciò che importa, qui, è vedere, attraverso e oltre la chiacchiera e la teoria che nascondono l’essere della natura, per così dire l’ente stesso. Occorre il passo oltre la chiacchiera, la quale non si interroga. Il primo passo consiste nell’aprire gli occhi, cogliendo lo stato di fatto in sé, e in base a questa predisponibilità spiegare ciò che si mostra, la κίνησις stessa. Io vedo il movimento: devo aprire gli occhi, cercare di capire ciò che sta succedendo, ed è in questo momento che mi interrogo sulla κίνησις, sul movimento. Ricordate Zenone rispetto al movimento. È chiaro che vedo il movimento, è chiaro che vedo che Achille sorpassa la tartaruga, lo vedo, certo, ma che cosa sto vedendo? La domanda relativa al che cosa sto vedendo comporta immediatamente una concettualizzazione della cosa, quindi, deve sapere che cos’è il movimento, ed è qui che sorgono i problemi. Nel libro II nuovo approccio: Aristotele assicura le prospettive formali in base alle quali ci si può interrogare sulla natura - egli discute cioè le cause. Se vogliamo interrogarci sulla natura, dice, dobbiamo pensare le cause, cioè, da dove viene questa cosa, da dove viene il movimento. Se suppongo che esista qualche cosa che io chiamo movimento, beh, da qualche parte arriva. Solo sul terreno di queste due analisi prende piede l’indagine vera e propria finalizzata a porre in luce la κίνησις. Un primo passo è che la κίνησις costituisce l’autentico “carattere di “Ci” dell’essere. L’uomo è movimento. Questo non perché si agita, fa cose, ecc., ma perché parla. Questo ancora non lo dice, ma lo dirà poco più avanti. L’uomo è il movimento, perché ci sia movimento occorre l’uomo, senza l’uomo non c’è movimento. L’“essere già interpretato” dell’essere si determina già in una specifica concezione fondamentale dell’essere – probabilmente anche il carattere ontologico del movimento va interpretato in base a questo senso fondamentale dell’essere. Dice che se anche ci interroghiamo sul movimento comunque muoviamo dalla chiacchiera, dal si pensa, dal si dice, da ciò che si suppone, si crede, ecc.. da qualche parte dobbiamo partire, e questo lo sapeva benissimo Aristotele, e cioè dalla δόξα, da quello che già sappiamo, dalla Lebenswelt, avrebbe detto molto più tardi Husserl, dal mondo della vita, dalle cose che sappiamo, da come ci muoviamo, da ciò che abbiamo imparato muovendoci. A pag. 313. …dimostrazione del fatto che la κίνησις non è qualcosa παρά τά πράγματα, “accanto all’ente che “ci” è” del mondo, della natura. Il movimento non è qualcosa che si aggiunge, lo aveva detto anche prima, ma il movimento è l’esserci stesso. Il “non παρά” significa, in positivo: la κίνησις è un modo di essere dell’ente stesso che “ci” è. Il movimento è qualcosa che c’è ovunque, che c’è in tutto, e questo perché è nel linguaggio. Questa definizione è rivolta contro Platone, che, ancora nel Sofista, dice: un alcunché di mosso è caratterizzato, nel suo essere, dal fatto che lo cogliamo come partecipe della κίνησις:…. Quindi, partecipa della κίνησις, non è κίνησις, mentre per Aristotele comincia porsi come l’essere dell’esserci, per cui l’uomo è κίνησις. …la κίνησις è un’idea come tutte le altre: essa è παρά, ed è tramite la μέθεξις (unione) a essa che non solo accade il movimento dell’ente-mosso, ma l’ente-mosso stesso va reso comprensibile nel suo essere. L’ente a un certo punto si unisce al movimento e allora ecco che è mosso: questo è Platone, contro cui discute Aristotele. …riferendosi alle categorie, Aristotele mostra come ve ne siano di determinate che ammettono un διχῶς, una “duplicità”. Il “poter essere in questo e quel modo” è la condizione ontologica della possibilità che l’ente che è determinato da tali categorie sia ente in movimento. Διχῶς: rinvio alla pluralità delle άρχαι. Una cosa può essere in un modo o in un altro: perché? La cosa è una ma è molti. È per questo che c’è la possibilità del movimento, perché c’è l’uno e i molti. Gabriele è uno ma è fatto di molti, cioè di tutte le determinazioni che noi vogliamo attribuirgli; se, per assurdo, togliessimo tutte queste determinazioni, scomparirebbe anche Gabriele, perché sarebbe indeterminato, diventerebbe πειρον. …definizione vera e propria del movimento. /…/ …illustrazione concreta di tale definizione in base a determinate specie di movimento. …accenno al fatto peculiare che lo stesso e medesimo ente può essere definito sia in quanto δύναμει ὅνLetteralmente “ente in movimento”, anche se qui sembra alludere alla possibilità, a δύναμει come possibile. Ricordatevi sempre che per Heidegger questo δύναμις è la possibilità, non come qualcosa che può darsi oppure no, ma come la possibilità intrinseca di ciascuna cosa di essere ciò che è. Cosa ripresa da Nietzsche nella sua celeberrima frase “Diventa ciò che sei!”:δύναμις è il diventare e ciò che sei è l’ἐνέργεια. …sia in quanto ἐνέργεια ὅν: un determinato ente è nel contempo un ente attualmente presente “freddo”, e solo in quanto ente così attualmente presente esso è la possibilità del “caldo”. Solo ciò che è freddo ha la possibilità del caldo, non ciò che è duro o rosso. Solo una particolare e distinta presenza di un ente ha nel contempo la possibilità del caldo. Qualunque ente ha la “possibilità” di essere ciò che è in relazione al suo contrario, al suo negativo: ecco perché dice caldo-freddo e non caldo opposto a rosso, perché non è il suo contrario. Ciascun ente è in vista di ciò che non è. Certo, caldo è anche non-rosso, però questo contrario deve essere riferito a quell’ente, al suo contrario. La possibilità non è una possibilità qualsiasi, ma una possibilità tale da avere una determinata direzione. Questo stato di fatto è la condizione della possibilità che vi sia qualcosa come il movimento, l’interdipendenza della natura, l’azione reciproca. Qui ci sta dicendo che il fatto che ciascun elemento è insieme con il suo negativo – questione ripresa da Hegel, come sappiamo bene – è la condizione del movimento. È la prima volta al mondo che una questione del genere viene posta, e cioè: con che cosa ha a che fare il movimento? Con il λόγος. C’è un ente e il suo contrario, ma il contrario di quell’ente è tale se è nel λόγος, sennò è il contrario di niente. Resta peraltro problematico se ogni ente che muove sia esso stesso in movimento, se ogni ente sia in sé anche δύναμει, o se vi sia un essere che esclude qualsiasi possibilità, che sia cioè semplicemente ἐνέργεια: sì “movente”, ma “senza possibilità di essere mosso”. È la ricerca di Aristotele del motore immoto, cioè di quell’ente che muove ma che a sua volta non è mosso. Ora c’è un capitoletto che appare singolare: Il ruolo della paura nell’indagine sull’άρχή. L’άπορῆσαι (difficoltà) delle άρχαι, il ripercorrimento delle difficoltà incontrate dagli antichi nell’analisi dell’ambito che, inconsapevolmente, avevano costantemente sotto gli occhi. Nel libro IX, capitolo 8, della Metafisica Aristotele compie un’osservazione singolare, secondo cui la discussione degli antichi era guidata in fondo dalla paura… Coloro che in passato discutevano dell’essere della natura e dell’esserci del mondo, pervenendo poi a una definizione del mondo stesso, nel loro modo di porre la questione erano guidati e condotti propriamente dal φόβος (paura), dalla “paura” che l’“ente che “ci” è sempre così”, il costante moto circolare dei corpi celesti, potesse “un giorno arrestarsi” – una discussione dell’essere dell’ente basata sulla paura che un giorno potesse non esserci più. Quindi, la paura che qualcosa non ci sia più. Ma se riandiamo a ciò che diceva qualche pagina prima, che cosa orienta? È la terra ciò su cui poggia i piedi: è questo il suo orientamento primario. La paura è che non ci sia più la possibilità di orientarsi, che in definitiva non ci sia più la possibilità di sapere dove si è, che cosa si è e, di conseguenza, di sapere che cosa è bene e cosa è male. Ora, abbiamo avuto modo di renderci conto che la paura, in quanto tale, è possibile solo nella misura in cui vive in essa la έλπίς σωτηρίας (idea che qualcosa possa salvare dal pericolo, dalla minaccia), il che significa: si può avere paura solo se ci si attiene ancora a un’altra possibilità – la possibilità che ciò che incombe possa non accadere. E chi è così potente da impedire che questo evento così terrificante non accada? Dio. La paura che, in questo caso, guida l’analisi dell’essere vive della speranza, o della convinzione, che l’ente potrebbe o dovrebbe essere di fatto “sempre lì presente”. Ora, estendiamo un po’ la questione. Certo, probabilmente gli antichi pensavano quello, non ne abbiamo la certezza assoluta e magari neanche tutti. Dice l’ente potrebbe o dovrebbe essere di fatto “sempre lì presente”, ma quando affermo qualcosa non lo rendo come se fosse sempre lì presente? È questo che mi consente di proseguire, perché immagino, suppongo, voglio che sia quello che è, che ciò che dico rimanga quello che è, anche fra dieci minuti. Esattamente come il 5 scritto nel calcolo, non è che uno lo tenga d’occhio perché non faccia scherzi, lui se ne sta lì buono. E così deve essere per continuare a parlare, per continuare a calcolare, e cioè la certezza che quello che dico sia quello che è. Che cosa mi garantisce questo? Bella domanda, alla quale, come sappiamo, Guglielmo di Ockham aveva dato la sua risposta, ripresa poi da Einstein: bisogna pensare che Dio non giochi ai dadi, che non sia un disgraziato ma che sia onesto, che non menta, e lui ci fa vedere la cosa così com’è, che quella cosa è così, perché Dio non mente e questa è l’unica garanzia, non ce ne sono altre. Infatti, la paura dello “svanire dal “Ci”… Svanisce da me, mi scompare il mondo. Presuppone che ci si attenga a un senso dell’essere in quanto “essere sempre attualmente presente”. Qualunque cosa io affermi deve essere quella che è, deve essere così, deve durare, deve continuare a essere così. Potete solo immaginare che cosa accadrebbe se ogni volta che dite una qualunque cosa, questa nel giro di mezzo secondo si trasformasse in qualcos’altro: sarebbe seccante. È questo senso dell’essere che sta implicitamente alla base di tutte le discussioni degli antichi,… Le cose sono così e devono rimanere così. Solo così le controllo, ché è poi questa, in definitiva, la questione. …discussioni che miravano a porre in luce a ogni costo determinate άρχαι. Le cose devono stare così perché l’origine loro è quella e rimane quella che è anche lei, e non si discute. L’interpretazione delle άρχαι e, quindi, dell’ente si traduce in una determinata familiarità con l’esserci del mondo. La paura che esso possa svanire viene dissipata dal fatto che l’esserci è tradotto in una determinata familiarità, il che comporta l’eliminazione del suo elemento propriamente minaccioso. Che cos’è la familiarità? Il controllo, il dominio sulle cose. Qualcosa mi è familiare quando la conosco, cioè, quando la domino. Ecco, quindi, la paura: perdere la familiarità, cioè le cose che si dicono mi si ritorcono contro, non sono quelle che io volevo che fossero. Mantenere la familiarità è mantenere il controllo: tutto è controllato, controllabile, quindi, sicuro. È per questo che la possibilità autentica è costituita dalla διαγωγή (essere situati), dal “soggiorno” nella pura contemplazione del mondo, cui non può accadere più nulla: la διαγωγή è una ήδονή. L’essere ben situati è una soddisfazione, perché in questa διαγωγή non c’è nulla di non familiare, nulla di perturbante. L’interpretazione dell’essere tende a dissipare la paura dell’esserci tramite la traduzione del misterioso nel noto. Quando parla di interpretazione dell’essere intende il significato dell’essere, che cosa intendiamo con l’essere. Una cosa c’è, quindi, è lì tranquilla, ferma, immobile, e io sono tranquillo: questo costituisce in quel momento la mia situatività, la mia soddisfazione. Dice: la traduzione del misterioso nel noto, quindi, di ciò che non conosco in ciò che conosco, di ciò che non domino in ciò che domino, di ciò che non controllo in ciò che controllo. Titolo della διαγωγή: questa determinazione fondamentale concerne anche l’interpretazione dell’essere dell’uomo, sicché anche l’autointerpretazione dell’esserci mira a rendere trasparente l’interpretazione dell’esserci in quanto esistenza. Ovviamente, tutto ciò ciascuno lo riferisce a se stesso. Ciascuno vuole sapere chi è, vuole essere quello che è, vuole essere proprio così come pensa di essere, e questo perché rende se stessi familiari. Per così dire, io mi conosco, ho una certa familiarità con me. La possibilità suprema dell’esistenza, quella che fa sì che non vi sia più alcuna minaccia, è il puro θεωρεῑν e quindi l’autentica ήδονή, la scienza (scienza in senso aristotelico) – un’interpretazione, questa, che noi oggi non adottiamo più, dato che ai nostri giorni non si interpreta né in base alla ήδονή, né alla λύπη, ma tutto in base al sistema. Qui dice una cosa al volo, come fa sempre lui. Dice che è il puro θεωρεῑν l’autentica ήδονή, l’autentica soddisfazione, ed è esattamente ciò che indicavamo come “essere dio”: non credersi dio ma esserlo, cioè, essere nel linguaggio e non potere più uscirne. Ovviamente, non può in nessun caso uscirne, si tratta piuttosto di non credere di poterne uscire fuori, perché solo se penso di poter uscire dal linguaggio posso credere di essere dio, sennò sono linguaggio e basta, cioè sono dio, sono il tutto, quel famoso tutto di cui parlava Anselmo. Nel libro I della Fisica Aristotele, prendendo le mosse dal modo tradizionale di trattare la questione di che cos’è l’ente… Il famoso τί τό ὅν, che cos’è l’ente. La cosa va presa seriamente, in questi termini, e cioè “che cos’è ciò di cui stiamo parlando?” o, più propriamente ancora, “di che cosa stiamo parlando?”: questo è il significato più appropriato della celebre espressione greca τί τό ὅν. …si occupa di stabilire il terreno su cui deve muoversi ogni ulteriore discussione: ὅν κινούμενον (ente che è in movimento). In effetto è vero che la definizione dell’ὅν in quanto κινούμενον è stata sempre presente, non però nel senso di essere presa in considerazione per caratterizzare in modo più preciso l’essere stesso. Sapere che cos’è il movimento. Un conto è l’ente in movimento, altro è il sapere che cos’è il movimento. La possibilità di discutere il movimento non era concepita in modo che il movimento fosse riconosciuto come la modalità eccellente dell’esserci di un determinato ente. Non si poneva per gli antichi questo problema. Aristotele è stato il primo a rendersi conto che il movimento appartiene all’essere, l’essere è movimento, ed è movimento perché è λόγος. È opportuno illustrare qui le prospettive fondamentali in cui l’ente può in genere essere posto. La discussione delle quattro cause… Causa materiale, causa formale, causa efficiente, causa finale. …altro non è che la discussione circa le prospettive in cui l’essere può essere posto, circa la possibilità all’interno della quale l’ente può essere interrogato riguardo al suo essere. Quando interrogo l’essere dell’ente, in effetti, mi chiedo di queste quattro cose: di che cosa è fatto, chi lo ha fatto, perché lo ha fatto e come è fatto. Tali prospettive sono motivate dal concetto dominante di essere in quanto essere-prodotto. Di queste quattro prospettive, che, come tali, non entrarono certo tutto d’un tratto nella coscienza del tempo, Aristotele fornisce la preistoria nel libro I della Metafisica: gli antichi fisiologi hanno preso in considerazione una dopo l’altra, per gradi, ciascuna delle quattro cause e, da ultimo, la più difficile: prima di porre ogni ulteriore questione, bisogna sapere che cos’è l’ente, τί τό ὅν. Platone per primo ha visto questa causa, solo che non ne ha compreso il senso ontologico. Che invece ha compreso Aristotele, almeno in buona parte.