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5 giugno 2019

 

Fenomenologia dello spirito di G.W.F. Hegel.

 

Siamo a pag. 35, punto 45. L’evidenza di questo manchevole conoscere… Si sta sempre riferendo alla matematica. …della quale la matematica va superba facendosene un’arma anche contro la filosofia… La matematica si ritiene evidente ma è un sapere manchevole. …si basa sulla povertà del fine e sulla deficienza del contenuto della matematica, ed è quindi così fatta, da suscitare disprezzo da parte della filosofia. Fine o concetto della matematica è la grandezza. La matematica si occupa di misurabilità, della calcolabilità delle cose. Ma questa è appunto la relazione inessenziale e aconcettuale. Perciò qui il movimento del sapere procede in superficie, non tocca la cosa stessa,… Un po' come diceva Heidegger: la scienza non pensa. …l’essenza o il concetto, e non è quindi per nulla un atto concettivo. Non è un sapere, non è scienza. La materia intorno alla quale la matematica garantisce il suo consolante tesoro di verità è lo spazio e l’Uno. Lo spazio è l’esserci nel quale il concetto iscrive le sue differenze come in un elemento morto e vuoto dove esse sono altrettanto immote e prive di vita. Ma l’effettuale… Con effettuale potremmo anche intendere il concreto, nell’accezione severiniana del termine. …non è qualcosa di spaziale, come vien considerato dalla matematica; di una tale ineffettualità costituita come le cose della matematica non si impacciano né la concreta intuizione sensibile, né la filosofia. In un elemento così ineffettuale non può capire che un vero ineffettuale, fatto di proposizioni rigide e morte; dopo ognuna di queste proposizioni si può far punto; la seguente ricomincia per conto proprio, senza che la prima accenni a muoversi verso l’altra,… Ecco la critica fondamentale di Hegel, e cioè che non c’è un movimento di un elemento in un altro, non c’è movimento dialettico; ciascuna cosa, di cui la scienza matematica si occupa, è immobile, ferma, chiusa in se stessa, non va da nessuna parte. Inoltre, in grazia di quel principio e di quell’elemento, – e qui sta tutto il formalismo dell’evidenza matematica – il sapere procede sulla linea dell’eguaglianza. Tenete conto che la Fenomenologia dello spirito potrebbe anche essere letta come una critica al formalismo logico, al formalismo matematico, al formalismo in generale. Infatti, il mortuum… Il morto, cioè la cosa chiusa in sé. …poiché esso non muove se medesimo, non giunge alle differenze dell’essenza, non all’opposizione o ineguaglianza essenziale, e quindi neanche al passaggio dell’opposto nell’opposto, e tanto meno al movimento qualitativo e immanente, all’automovimento. Andiamo a pag. 37, punto 47. La filosofia, al contrario, non considera la determinazione inessenziale, ma la considera in quanto è essenziale. Elemento e contenuto della filosofia non è l’astratto o il non effettuale ma l’effettuale… Possiamo intendere l’effettuale come il concreto. …l’autoponentesi, ciò che vive in sé, l’essere determinato che è nel proprio concetto. Non è altro che l’esempio che faceva Severino, “questa lampada che è sul tavolo”: è questo l’effettuale, è questo l’autoponentesi. L’elemento della filosofia è il processo che si crea e percorre i suoi momenti; e questo intero movimento costituisce il positivo, e la verità del positivo medesimo. Dice questo intero movimento costituisce il positivo, è ciò che si pone il movimento, è questo che si pone. Così la verità racchiude in sé anche il negativo, ossia ciò che si chiamerebbe il falso, qualora potesse venir considerato come alcunché dal quale si debba fare astrazione. Ciò che sta dileguando deve anzi venir considerato esso stesso come essenziale;… Ciò che sta dileguando: ciò che si oppone all’in sé dilegua nel senso che viene superato. Il dileguamento è il superamento di qualcosa, non l‘eliminazione. …esso, cioè, non è da considerare nella determinazione di alcunché di rigido, che, tagliato via dal vero, debba venir abbandonato, dove che sia, al di fuori di questo; né d’altronde il vero è da considerare come un alcunché positivizzato e morto, giacente inerte dall’altra parte. Qui c’è tutta la dialettica hegeliana. L’apparenza è un sorgere e un passare che né sorge né passa, ma che è in sé e costituisce l’effettualità e il movimento della vita della verità. Non sorge e non passa; eppure, è un continuo sorgere e passare. Non sorge, nel senso in cui ne parla Peirce: non possiamo stabilire dove incomincia, non possiamo delimitarlo perché sarebbe astrarlo dal concreto, da questo movimento. Per tal modo, il vero è il trionfo bacchico dove non c’è membro che non sia ebbro; e poiché ogni membro nel mentre si isola altrettanto immediatamente si risolve, - il trionfo è altrettanto la quiete trasparente e semplice. Nel Tribunale di tale movimento non sussistono né le singole figure dello spirito, né i pensieri determinati; ma essi, come sono momenti negativi e dileguanti, così anche sono positivi e necessari. Vedete come continua indicarci questo movimento, questa Aufhebung, questo passare da un momento all’altro, dove però rimangono sempre figure individuate, determinate in quanto tali, non scompaiono. Per questo rimangono figure, ciascuna rimane quella che è, ma diventa un momento dell’intero, diventa un qualche cosa che è quello che è all’interno dell’intero. Nell’intiero del movimento, concependo l’intiero come quiete, ciò che nel movimento medesimo vien distinguendosi e assumendo una particolare esistenza determinata è conservato come qualcosa che ha reminiscenza di sé; come qualcosa il cui essere determinato è il sapere di se stesso, mentre tale sapere è altrettanto immediatamente un essere determinato. Hegel parla anche di quiete, perché nell’intero del movimento, nel concreto, possiamo concepire questo intiero come una quiete, dove qualcosa, dice, viene determinato, ma che cosa viene determinato? Non l’oggetto in quanto tale ma, e ce lo dice in modo molto preciso, è il sapere di se stesso; e tale sapere è altrettanto immediatamente un essere determinato: è questo che è determinato. Qui incomincia a porre la questione, che affronterà poco più avanti, quella famosa questione dove dice che ciò che è reale è razionale, e ciò che è razionale è reale. Spesso questo viene inteso in modo molto banale, antropomorfizzando la realtà, come se avesse una sua ragione. La realtà sono le cose, e quindi è come se le cose avessero una loro ragione intrinseca. No, dice, il reale è razionale perché solo il razionale, la coscienza, il sapere, determina il reale, lo fa esistere in quanto tale. Ciò che è razionale è reale perché la realtà non è altro che ciò che è razionale, non è altro che il pensiero che si determina. Adesso fa un accenno al metodo. Punto 48. Potrebbe sembrar necessario di esporre in precedenza quanto è rilevante intorno al metodo di quel movimento o della scienza. Di questo ne parlerà in modo più specifico nell’Introduzione. Ma il suo concetto sta già in quel che si è discorso, e la sua più vera presentazione appartiene alla logica, o è piuttosto la logica stessa. Sta dicendo che questo metodo lo vuole mostrare in atto attraverso l’esposizione del suo pensiero. Ci sta dicendo: il modo in cui lo penso, il metodo che io utilizzo, lo trovate esposto nel modo in cui articolo le cose che vado pensando. Infatti il metodo non è altro che la struttura dell’intiero presentato nella sua più pura essenza. Ma, quanto alle idee che si sono avute fino ad oggi intorno a questo punto, noi dobbiamo essere consapevoli che anche il sistema delle rappresentazioni riferentesi al metodo filosofico appartiene ormai ad una cultura sorpassata. Ciò potrebbe suonare alquanto reclamistico o rivoluzionario, sebbene questo sia un tono dal quale io mi so ben lontano; si voglia pertanto ritenere che l’apparato scientifico offerto dalla matematica,… Ce l’ha sempre con la matematica ma, in realtà, per tutto il testo ce l’ha con il formalismo. …– fatto di chiarimenti, di partizioni, di assiomi, di serie di teoremi e loro dimostrazioni, di principi e loro conseguenze e conclusioni, - è esso stesso, per l’opinione, a dir poco antiquato. Antiquato? Funziona ancora oggi, perfettamente. Se anche la sua inutilità non è chiaramente riconosciuta, non se ne fa tuttavia che poco o punto uso; e se esso, in sé, non viene disapprovato, non è tuttavia amato, mentre noi dobbiamo fermamente ritenere che ciò che ha un valore vero si attui nella pratica e si renda amato. Ciò che appare o che consideriamo vero è qualcosa che si attuta nella pratica, nel fare. La questione del fare è importante in Hegel e interverrà tantissimo; lui riprende il termine aristotelico di ργον, che viene tradotto spesso con energia, ma non è solo energia ma è l’agire, è il fare. Non è però difficile a riconoscere che la maniera di porre un principio, di sostenerlo nei suoi fondamenti, di confutarne con argomenti il principio opposto, non è la forma nella quale possa farsi avanti la verità. I principi della matematica funzionano così: pongo un principio, esibisco i suoi fondamenti e confuto chiunque mi si opponga. La verità è il movimento di lei in lei stessa…  È questo movimento dall’in sé al per sé e che ritorna nell’in sé che fonda il conoscere, il sapere, la scienza. …mentre quel metodo è un conoscere che rimane esteriore al contenuto. Cioè: non indaga mai la cosa in sé, non si pone mai la questione di che cosa è ciò che sta maneggiando, che sta manipolando; è sempre un qualche cosa che dice cosa sta intorno a quella cosa, non va mai dritta alla questione, chiedersi, per esempio, come sa che è così. Perciò esso è peculiare della matematica, ha per proprio principio la relazione aconcettuale della grandezza, e per proprio contenuto il morto spazio e il morto Uno. Inoltre è bene che esso metodo in maniera più sciolta, cioè più misto di arbitrio e di accidentalità, permanga nell’ambito della vita comune, della conversazione o della divulgazione storica, le quali soddisfano più la curiosità che non la conoscenza… A pag. 40, punto 50. Qualche riga avanti. Quel formalismo di cui già si disse sopra e il cui modo di procedere qui vogliamo segnalare più da vicino, ritiene di aver già concepite ed espresse la natura e la vita di una formazione, quando ne abbia affermata, come predicato, una determinazione dello schema, – sia la soggettività o l’oggettività, o anche il magnetismo, l’elettricità, ecc., la contrazione o l’espansione, l’oriente o l’occidente e simili; il che può venir moltiplicato all’infinito, giacché in questo modo ogni determinazione o formazione può venire riadoperata in un’altra…  È quello che fa la scienza: la scienza opera con modelli. Un modello scientifico viene utilizzato in questa cosa; poi, lo si utilizza per l’altra; è sempre lo stesso modello. Si accettano allora dall’intuizione volgare delle determinazioni sensibili, le quali debbono indubbiamente significare altro da ciò che esse dicono; d’altronde anche quello che in sé è significante, come le pure determinazioni del pensiero, per es. soggetto, oggetto, sostanza, causa, universale, ecc., viene usato con la stessa sconsideratezza acritica della vita volgare e a quello stesso modo con cui si discorre di forza e debolezza, e di espansione e contrazione. Di conseguenza quella metafisica è non meno antiscientifica di queste rappresentazioni sensibili. Vale a dire, si utilizzano questi concetti come oggetti metafisici senza mai problematizzarli. A pag. 43, punto 53. Alla scienza è lecito organizzarsi soltanto mediante la vita propria del concetto. Sta parlando della scienza così come la intende lui. La determinatezza che, tratta dallo schema, vien esteriormente apposta all’esserci, nella scienza è invece l’anima automoventesi del contenuto perfetto. La determinatezza, che si immagina come qualcosa di esteriore che viene appiccicato alla cosa, a ciò che dico; ma ciò che dico è, invece, l’anima del movimento, perché ciò che dico comporta la sua negazione; questa negazione ritorna, superandosi, e diventa il concreto, diventa il concetto. Io posso appiccicare la determinatezza a qualche cosa e immaginare che questo predicato descriva la cosa di cui sto parlando, oppure, come intende Hegel, io dico di questa cosa ma tengo conto di ciò che nega questa cosa. Al contrario, l’appiccicarla come un’etichetta non coglie nessun negativo, semplicemente la incola lì e finito il discorso, ma non c’è nessuna interrogazione, nessun domandarsi intorno a questa operazione. Quello che fa Hegel, invece, è dire qualche cosa e cominciare a interrogare ciò che si sta dicendo, accorgendosi quindi del negativo, cioè di tutti quegli elementi che non sono ciò che sto dicendo. Il movimento dell’essente è, da una parte, di divenire un altro a se stesso… Io dico qualche cosa e questo qualche cosa diviene altro a se stesso, è un’altra cosa. …e di farsi, così, immanente contenuto di se stesso… Qui incomincia a porre una questione importante. Il movimento dell’essente è questo: diviene altro da sé e a questo punto, divenendo altro da se stesso, succede che diventa il contenuto. Diciamola in un altro modo: soggetto – oggetto, il soggetto conosce l’oggetto – questo tradizionalmente: il soggetto sta di qua e l’oggetto di là. Lui sta dicendo un’altra cosa, molto fine: questo soggetto si sposta verso l’oggetto per conoscerlo e in questo movimento questo oggetto si fa immanente al soggetto, cioè diventa parte integrante del soggetto. È il movimento dell’in sé-per sé-in sé. Ora, questo oggetto, la cosiddetta realtà, non può darsi né esistere senza questo movimento; qualunque cosa io colga la colgo perché c’è questo movimento che mi fa tornare l’oggetto nel soggetto; e, quindi, questo oggetto diventa oggetto, posso quindi pensarlo fuori di me, perché è diventato immanente al soggetto. Questo, peraltro, è il movimento del linguaggio stesso; io posso pensare che esista una realtà esterna perché c’è il linguaggio, perché c’è questa distanza, che il linguaggio pone, tra ciò che dico e il ciò di cui dico; ma questa è una distanza che pone il linguaggio, non esiste in natura. Proprio perché c’è questa distanza, instaurata dal linguaggio, io posso pensare che esista qualcosa fuori di me, sennò non potrei pensarlo: per un bruco non esistono le cose fuori di lui. Quindi, come vi dicevo, è importante questo aspetto, è essenziale in tutta la filosofia hegeliana. Non è che Hegel non credesse nella realtà, ma per lui la realtà è la coscienza, per lui la realtà è questo ritornare dell’oggetto nel soggetto; solo quando è tornato nel soggetto è reale: reale è razionale in quanto è tornato nel soggetto, inteso come ciò che agisce, l’ργον, il fare.

Intervento: La realtà per Hegel è, quindi, una costruzione?

È un concetto; quindi, sì, una costruzione. Diventa realtà quando è concettualizzata. È in questo modo che si intende che il reale è razionale: è la realtà soltanto nel momento in cui è concettualizzata, sennò non c’è. Sarebbe come chiedersi se c’è qualcosa fuori del linguaggio; è una domanda che non ha nessun senso né, logicamente, alcuna risposta, nel senso che per chiedermi questa cosa deve esserci il linguaggio, se non ci fosse non potrei nemmeno pensare a questa cosa; quindi, non ha alcun senso porsi questa domanda. La cosa importante, torno a dirvi, è che proprio c’è il linguaggio, che instaura questa distanza tra il mio dire e ciò di cui dico, che è possibile pensare che esista qualche cosa fuori di me, cioè, fuori dalla mia parola. In quel movimento la negatività è il distinguere e il porre l’esserci;… In questo movimento la negatività, cioè, l’essere altro da sé, la distanza fra il dire e ciò di cui dico – ciò di cui dico sarebbe la negatività, è altro da ciò che dico – è il distinguere e il porre l’esserci. È in questo movimento, in questa operazione, che è prettamente linguistica, che si instaura l’esserci, e cioè che la cosa diventa sé, che la realtà diventa la realtà; ma lo diventa perché c’è il linguaggio che comporta questa distanza, questo andirivieni. …in questo ritorno in se stesso la negatività è il divenire della semplicità determinata. La semplicità è qualcosa che attiene all’in sé ma non è determinata finché rimane in sé, è quando incontra il per sé che si determina, e allora diventa una semplicità determinata. Per tal modo il contenuto non mostra la sua determinatezza come ricevuta da un altro e su lui apposta; anzi esso la dà a se stesso e da se stesso si dispone a momento e a luogo dell’intiero. Questa è una frase fondamentale. Il contenuto, il significato, non riceve significato da chissà che cos’altro; lo riceve da se stesso, è il significato che dà il significato a se stesso nel momento in cui ritorna all’in sé, nel momento in cui viene concettualizzato; ma se non c’è questo ritorno, se non c’è questo movimento dal per sé all’in sé, il significato non è niente. Dice la dà a se stesso e da se stesso si dispone a momento e a luogo dell’intiero: questo significato diventa un momento dell’intero; non è più un qualche cosa, così come la realtà, un qualche cosa che è al di fuori; il significato diventa quello che è nel momento in cui “ritorna” nell’intero, cioè, diventa concreto. L’intelletto tabellesco trattiene per sé la necessità e il concetto del contenuto, ossia ciò che costituisce la concretezza, l’effettualità e il vivente movimento della cosa sulla quale esso manovra;… La matematica fa le tabelline e immagina di avere catalogato un qualche cosa, che invece è vivo. È questa la questione per Hegel: le cose sono vive. Così come le parole: sono vive, nel senso che agiscono; la parola non è un caput mortuum, cioè un qualche cosa che una volta detta è quella che è e non si muove più, ma è viva, continua a dire, a muoversi, continua a connettersi con infinite altre cose. Dice il vivente movimento della cosa sulla quale esso manovra: è di questo che non si accorge la scienza matematica. …o piuttosto, lungi dal tenere tutto ciò per sé, non lo conosce; se avesse, infatti, quella capacità di uscir di sé e di penetrare nella cosa, certamente la mostrerebbe. Cosa che la scienza non ha mai potuto né saputo fare; non lo può fare, non può entrare nella cosa, diventare la cosa, cioè, un qualche cosa che è fuori del linguaggio e poi da lì descriversi; con che cosa? Ma di tutto ciò quell’intelletto non prova neanche il bisogno;… La scienza non ha questa necessità, non gliene importa niente; la tecnica, meno che mai. …altrimenti la smetterebbe col suo schematizzare o, per lo meno, non lo prenderebbe per una indicazione di contenuto; esso dà soltanto l’indicazione del contenuto, ma il contenuto stesso non lo fornisce. La scienza non pensa; torniamo sempre lì. Se la determinazione, e sia pure, – ad esempio, – quella del magnetismo, è una determinazione in sé concreta o effettuale, essa è tuttavia ridotta a qualcosa di morto, perché soltanto predicata ma non riconosciuta come immanente vita di un altro essere determinato, né riconosciuta a quel modo ch’essa, in quello, intimamente e peculiarmente si autoproduce e si rappresenta. Ci sta dicendo, anche se non lo dice lui ma io, che qualunque cosa non è fuori dal linguaggio. Anche il magnetismo è nella parola, ed è in questo senso che è vivo: perché è nel linguaggio, perché è in continuo movimento, perché, come direbbe Hegel, è preso nella dialettica, quindi, in una evoluzione continua. Non c’è la parola morta, non esiste per Hegel. Il magnetismo, dice, si autoproduce. Chiaramente, se consideriamo il magnetismo come un caput mortuum, come qualcosa che è quello che è, non produce niente; ma se lo consideriamo come qualcosa di vivo, allora diventa una parola, diventa un qualche cosa che apre a infinite altre questioni. Possiamo, certo, utilizzarlo come determinatezza, è chiaro che se mi serve una calamita per tirar su un pezzo di ferro uso la calamita, ma non è di questo che sta parlando Hegel. Intendere il magnetismo come una parola è il modo di accorgersi che il linguaggio è la vita stessa. Nel momento in cui parlo di magnetismo non è che questo magnetismo esiste di per sé, esiste nel momento in cui il soggetto si rivolge all’oggetto, al magnetismo, ma è soltanto in quanto ritorna, in quanto ne è cosciente, in quanto lo concettualizza, che diventa reale. A pag. 45. Poiché la sostanza, come sopra si ebbe a dire, è in lei stessa Soggetto… Vedete che la sostanza è qualcosa di vivo, che agisce; la sostanza non è il morto, non è immobile. …proprio per ciò ogni contenuto è anche la riflessione di sé in se stesso. Dice ogni contenuto è anche la riflessione di sé in se stesso: ogni significato è la riflessione di sé in se stesso, cioè, è un qualche cosa che, riflettendosi in se stesso, diventa quello che è. Soltanto in questo movimento diventa quello che è, perché soltanto questo movimento di fatto lo concettualizza, ne coglie la vita, il vivere di questo concetto. La sussistenza o la sostanza di un essere determinato è l’eguaglianza con se stesso;… Cosa nota da sempre: l’essenza di qualche cosa è l’essere quello che è. …giacché la sua ineguaglianza con sé sarebbe il suo dissolvimento. Aristotelicamente sarebbe la legge del terzo escluso: o è A oppure è non-A. Nella logica aristotelica tradizionale il falso viene eliminato, non può sussistere a fianco del vero: questo lo diceva anche Severino: non può sussistere a fianco e, difatti, lo tolgo; perché se lascio l’essere a fianco del non-essere, allora l’essere è anche non-essere e si annulla, diventa nulla. Ma l’eguaglianza con se stesso è la pura astrazione; e questa è il pensare. Quando io dico: qualità dico la determinatezza semplice. Quando dico la qualità – questo è di vetro – dico la sua determinazione semplice. Per la qualità un essere determinato è distinto da un altro essere determinato o è, appunto, un essere determinato; esso è per se stesso o esiste mediante questa semplicità con sé. Ma con ciò esso è essenzialmente il pensiero. È il pensiero che decide dell’identità; questa identità non c’è fuori del pensiero. Qui si comprende che l’essere è pensare… Non è una frase da poco: l’essere è pensare, cioè, l’essere è qualcosa di vivo, è qualcosa che si autopone continuamente e autoponendosi si modifica e procede sempre in avanti. Verrebbe quasi da fare una postilla, aggiungere una notarella che potrebbe fare Nietzsche: l’essere è, sì, pensare ma un pensare al superpotenziamento. …qui è a suo luogo quel modo di vedere che si studia di evitare il consueto discorrere aconcettuale circa l’identità del pensare e dell’essere. Aconcettuale vuol dire che non pensa, direbbe Heidegger, non lo mette a tema e non lo problematizza, lo pone come un qualche cosa che è quello che è, aconcettualmente. Ora, poiché il sussistere dell’essere determinato è l’eguaglianza con sé o la pura astrazione, ecco che questo sussistere è l’astrazione di sé da se stesso, o è esso stesso la sua ineguaglianza con sé e la sua risoluzione; è la sua propria interiorità nonché il riprendersi in sé medesimo: il suo divenire. Qui precisa cosa intende dire. L’eguaglianza con sé è la pura astrazione. Perché? Perché per potere dire che un elemento è se stesso devo astrarlo, direbbe Heidegger, dal mondo, e Severino direbbe astrarlo dal concreto, come se parlassi da fuori della proposizione “questa lampada che è sul tavolo”. …ecco che questo sussistere è l’astrazione di sé da se stesso. Cioè: io astraggo per potere determinare qualche cosa… qui Severino è illuminante: per poterne parlare di quella lampada devo astrarla da se stessa, per in se stessa è “questa lampada che è sul tavolo”, è questo che è se stessa, è nel concreto; quindi, devo astrarla, ci sta dicendo Hegel, da se stessa, perché se stessa è presa nel movimento. Per astrarre è come se io dovessi bloccare questo movimento, è come se dovessi considerare qualche cosa fuori da questo movimento. …o è esso stesso la sua ineguaglianza con sé e la sua risoluzione… Se io lo considero astrattamente è ineguale rispetto a se stesso, perché è un’altra cosa. Come direbbe Severino, diventa autocontraddittorio se lo astraggo dal concreto. Dice ineguaglianza con sé ma questo sé non è altro che la sua risoluzione in quanto è passato da sé a essere altro da sé e poi tornato a sé. …è la sua propria interiorità nonché il riprendersi in sé medesimo: il suo divenire. Il riprendersi in sé medesimo è il suo divenire in quanto diviene altro perché, nel momento in cui dall’in sé passiamo al per sé e ritorna all’in sé, questo in sé non è più quello di prima, è un’altra cosa; così come esattamente ci dice Peirce: nel momento in cui si instaura la relazione, cioè interviene il terzo fra A e B, A e B non sono più A e B in quanto tali, non sono più astratti, sono un concreto, e questo concreto è la relazione tra A e B, dove A e B sono un’altra cosa risetto a ciò che erano prima, considerati astrattamente. Mediante questa natura dell’essente, e in quanto l’essente ha per il sapere questa natura, il sapere non è l’attività che manipola il contenuto come un alcunché estraneo;… Ancora insiste e precisa: l’essente ha questa natura, cioè, il sapere non è l’attività che manipola il contenuto, come se il contenuto fosse qualcosa che è fuori da questo sapere. No, il contenuto è nel sapere – reale è razionale. … non la riflessione in se stesso fuori dal contenuto… Il contenuto non è fuori dalla riflessione; il contenuto, la realtà, è la mia riflessione. Questo sempre per il motivo che dicevo prima e che riguarda il linguaggio: è perché c’è il linguaggio che il mio dire prende le distanze, cioè, si distanzia da ciò di cui dico, inaugurando con questo la possibilità di pensare che le cose sono fuori di me. …la scienza non è quell’idealismo che subentrò al dogmatismo dell’asserzione, assumendo la veste del dogmatismo della rassicurazione o del dogmatismo della certezza di se stesso; – anzi il sapere vede tornare il contenuto nella sua propria interiorità, e la sua attività è piuttosto immersa nel contenuto, – perché essa ne è l’immanente Sé, – a anche in pari tempo ritornata in sé, perché essa è la pura eguaglianza con sé nell’esser-altro…  È in questo esser-altro che diventa uguale a sé, diventa sé, cioè, nel suo estroflettersi e poi tornare. È in questo tornare che diventa sé. …l’attività è così l’astuzia la quale, pur sembrando sottrarsi all’attività, si accorge che la concreta vita della determinatezza… Lui parla di vita della determinatezza. Quando io determino qualche cosa penso che questo qualche cosa che determino sia lì a mia disposizione, mentre lui parla di vita della determinatezza, questa cosa è viva, questa cosa agisce. Non è oggetto ma soggetto, perché io sono soggetto che lo rendo soggetto. …proprio mentre si illude di essere dedita alla conservazione di sé, al particolare interesse, è, invece, l’inverso: cioè un operare che si dissolve e si fa di sé un momento dell’intiero. Io penso che quella cosa sia lì, ferma, immobile, morta; e, invece, no, questa cosa sta facendo, sta lavorando, agisce. Anche Heidegger riprende, non proprio pari pari, ma riprende questo dicendo che mentre io faccio delle cose – il progetto – queste cose che sto facendo mi modificano, perché io sono questa cosa che viene modificata: io osservo una certa cosa e mentre la osservo questa cosa viene modificata in quanto è viva, direbbe Hegel. Non è morta, è viva, e quindi mi modifica, e la modificazione che avviene in me interviene anche nel modo in cui io vedo quella cosa – in questo circolo ermeneutico.