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5 maggio 2021

 

L’essenza della verità di M. Heidegger

 

Siamo a pag. 60. Poiché lo scioglimento delle catene, l’alzarsi in piedi, il girarsi, il guardare nella luce devono accadere all’improvviso, la liberazione (λύσις) non può diventare una ίασις τς άφροσύνης, una guarigione dalla mancanza di discernimento. Αφροσύνη, il termine con cui Platone connota lo stato in cui si trovano i prigionieri, è il concetto opposto a φροσύνης, σωφροσύνη. Φροσύνης è il termine con cui Platone denota la “conoscenza” in generale, cioè il coglimento del vero, l’avvedutezza e il discernimento, in riferimento al mondo e a se stessi, entrambi uniti. Qui c’è una questione interessante, che potrebbe costituire il momento in cui si è incominciato a connettere la non conoscenza alla malattia: se qualcuno non sa è perché è malato, quindi, deve guarire attraverso una guarigione apposita. A pag. 61. Colui che è liberato, infatti, non riconosce come ombra ciò che vedeva in precedenza; gli accade invece di essere semplicemente strappato via da ciò che prima vedeva e di essere messo di fronte alle cose che scintillano nella luce. Queste possono essere per lui solo qualcosa di diverso rispetto a quello che vedeva prima. Da questo puro e semplice “essere diverso” nasce soltanto confusione. Ciò che gli viene mostrato non riceve alcuna chiarezza e determinatezza. Per tale motivo il prigioniero liberato vuole ritornare in catene. Non capisce come mai dovrebbe darsi da fare per conoscere per conoscere qualche cosa, quando lui conosce già tutto ciò che gli serve. L’affrancamento dalle catene non è quindi una liberazione effettiva dell’uomo, ma rimane esteriore e non coglie l’uomo nel suo proprio sé. Cambiano solo le circostanze, ma il suo stato interiore, il suo volere non subiscono alcuna trasformazione. Certo, il prigioniero liberato vuole, ma quello che vuole è ritornare in catene. È uno scritto di una grandissima attualità, anche se è stato scritto duemilacinquecento anni fa. Questo per dire, come dicevamo la volta scorsa, che non è cambiato nulla, abbiamo soltanto un po’ di giocattoli in più con cui giocare. Si sottrae e rifugge dalla pretesa di abbandonare del tutto la sua situazione precedente. Inoltre è ben lontano dal capire che l’uomo è di volta in volta unicamente quello che ha la forza di pretendere da sé. Non vuole andarsene via perché nella caverna ha tutto ciò che gli serve: le cose sono quelle che sono, lui sa ciò che deve sapere, sa come muoversi e, quindi, non ha nessun motivo per uscire di lì, assolutamente nessuno. Ciò che accade nel secondo stadio è un fallimento. Perché il tizio non vuole uscire fuori. Che cosa fallisce propriamente? Questo, che l’incatenato, liberato dalle catene, s’imbatte nella svelatezza in quanto tale. Egli non perviene ad essa. Non perviene, ma si imbatte e la combatte. Ma Platone non dice che i prigionieri sono posti sin dall’infanzia di fronte all’άληθές, allo svelato? Certo, ma non di fronte allo svelato in quanto svelato. Essi non sanno nulla del fatto e del modo in cui lo svelato, al quale sono assegnati, è appunto tal e del fatto che accade qualcosa come la svelatezza. Questo accadere della svelatezza non c’è nemmeno per colui che è stato sciolto dalle catene. Che cosa lo rivela? Il fatto che egli non sa distinguere fra le ombre e le cose, fra uno svelato e un altro rispetto alla loro rispettiva svelatezza. … E possiamo supporre anche un’altra cosa: la riuscita della liberazione deve aver luogo nella direzione opposta al suo fallimento. Quest’ultimo si manifesta nella volontà di ritornare in catene, di fuggire via dalla luce. La direzione opposta, nella quale la liberazione giunge a termine, è dunque indicata dal volgersi-alla-luce, dal diventar-liberi in quanto porsi-alla-luce. Nel volgersi alla luce l’ente deve diventare più ente, e lo svelato farsi più svelato. Ciò che sfugge a Heidegger è in realtà una cosa molto semplice. È sfuggita anche a Platone, ma nel suo caso si può comprendere meglio. Il tizio che ha visto a luce torna sotto e vuole mostrare la verità a quelli che stanno nella caverna. Perché? Ecco la domanda: perché vuole farlo? A che scopo? Questa domanda in un certo senso cambia tutto, perché qui, nel testo, sia in Platone che anche in Heidegger, sembra che la cosa sia naturale: quello che ha visto la verità deve tornare giù e mostrarla agli insipienti. Ma perché? Perché c’è questa esigenza di manifestare la propria verità? Che è sì la propria verità, ma è intesa come “la” verità. Perché, dunque? Ed è qui che la cosa si fa interessante. In effetti, tutto questo discorso sembra una sorta di racconto anche intorno alla volontà di potenza: chi trova la verità è come se avesse quasi come il sacro dovere di diffonderla. Siamo arrivati al terzo stadio: L’autentica liberazione dell’uomo verso la luce originaria. “Ma se ora uno lo trascinasse per forza su per l’ascesa aspra e ripida della caverna e non lo lasciasse finché non l’avesse tratto fuori alla luce del sole, costui, che viene trascinato, non proverebbe dolore e non si ribellerebbe? E appena giunto dove è chiaro, non sarebbe forse incapace con gli occhi pieni di quel bagliore, di vedere anche una sola cosa di quello che adesso gli si dice di essere ciò che è svelato?”. “No, almeno non improvvisamente”. “C’è bisogno di un’assuefazione, penso, se deve vedere ciò che è là sopra. E dapprima (una volta assuefattosi) egli potrebbe certo vedere più facilmente le ombre, poi nell’acqua il riflesso specchiato degli uomini e delle altre cose, e solo più tardi quelle (le cose) stesse. Tra queste però, di nuovo, potrà osservare più facilmente, di notte, ciò che si trova in cielo e la volta celeste stessa, rivolgendo lo sguardo al chiarore delle stelle e della luna, più facilmente cioè di quanto egli non possa osservare, di giorno, il sole e la sua luce”. … “Alla fine, penso, sarà in grado di guardare e osservare non solo il riflesso del sole nell’acqua e altrove, bensì, il sole stesso in quanto tale, nel luogo suo proprio, così com’è”. “Necessariamente”. “E poi giungerà anche alla conclusione che è il sole a concedere le ore e gli anni e a governare tutto ciò che ha un luogo visibile, e che esso è anche la causa di tutto quello che, in un certo qual modo, vedono coloro che sono nella caverna”: “Certamente dopo di quello arriverebbe a questo”. “E ora, se si ricordasse della sua prima dimora e del sapere che vigeva colà e di quelli che allora erano incatenati con lui? Non credi che si direbbe felice di questo repentino cambiamento, e proverebbe invece pietà per quelli?”. “Certo, e molto”. Di nuovo, la domanda: perché? “Ma se allora (nel precedente soggiorno dentro la caverna) essi avessero stabilito fra loro certi onori, riconoscimenti e distinzioni per colui che più acutamente vede le cose che passano e meglio serba nella memoria (nell’ambito delle ombre) quali, fra queste cose, sono solite passare prima o dopo o contemporaneamente, e proprio per questo più di tutti fosse in grado di predire che cosa accadrà – pensi che egli ne avrebbe desiderio e che invidierebbe chi gode di onori e potere presso coloro che stanno nella caverna? Oppure pensi che egli sopporterebbe molto più volentieri quello che Omero chiama “altrui per salario servir da contadino”? E non si farebbe carico di tutto ciò piuttosto che ritenere vere quelle cose e vivere in quella maniera?”. “Sì, credo che egli sopporterebbe qualsiasi cosa piuttosto che esser uomo a quel modo”. Perché l’idea di conoscere la verità è al di sopra di tutto. Di conoscerla e, quindi, la necessità di forzare gli altri a riconoscerla. Sta dicendo esattamente quello che accade con la volontà di potenza: io conosco la verità, so che cos’è e, quindi, forzo gli altri a riconoscerla. Certo, la domanda rimane: perché? A questo punto diventa più chiaro il perché. Soltanto se gli altri riconoscono me come detentore di questa verità, solo a quel punto io posseggo veramente la verità. È come se fosse sempre necessario il riconoscimento altrui. Ma perché è necessario il riconoscimento altrui? Pensateci bene. Come sempre, quando si trova uno scoglio, è riflettere sul funzionamento del linguaggio che ci consente di andare oltre. L’altro, nel senso dell’altrui, è il non-Io, ciò che mi si oppone. Io affermo qualcosa; affermando questo qualcosa, il qualche cosa che affermo si altera, si sposta, è in cerca di altre cose, potremmo dire. Quindi, ho bisogno che questo qualche cosa, che si altera, non si alteri ma rimanga quello che è, cioè dica esattamente quello che voglio dire. A questo punto, l’altro, l’altrui è colui che si trova nella posizione del significato – per usare i termini di de Saussure – dal quale io voglio ricevere la garanzia del significante, ne ho bisogno perché quello che dico sia quello che dico, così come ho bisogno che quello che dico non incontri una continua alterazione, ma si fermi, si fissi, si stabilisca. Cosa che naturalmente non ottengo mai, né nel caso strutturale dell’atto di parola né rispetto agli altri, in quanto ognuno ha le sue opinioni, ecc. A pag. 67. Questo adattamento dello sguardo dal buio al chiaro si compie ora passando attraverso ambiti diversi. Dapprima lo sguardo che ama ancora il buio e le ombre va in cerca di tutto ciò che, al di fuori della caverna, ha ancora più di ogni altra cosa una certa parentela con il buio, di quello che, anche qui fuori, non ci offre le cose stesse m solo un loro riflesso, siano ombre o immagini rispecchiate. La persona continua a cercare delle conferme alle proprie superstizioni. A pag. 68. L’autentica liberazione non riposa soltanto su un atto di violenza, essa esige al tempo stesso una perseveranza e una pazienza sufficienti a percorrere effettivamente i singoli gradi della familiarizzazione con la luce. Qui la luce, possiamo intenderlo facilmente, è l’essere, il concreto. A pag. 69. Ma la delucidazione offerta da Platone ci permette di comprendere l’essenza dell’άλήθεια? Riusciamo a farci un’idea di quello che inoltre, anzi necessariamente, accade di volta in volta nell’esistenza quotidiana di noi uomini, di uno di questi uomini o “sopra” di lui? Riusciamo a capire a che scopo l’uomo può, sì, essere liberato per forza, dovendo però poi modificare da se stesso le abitudini, per conquistare la svelatezza dell’ente? Che cosa sono mai le idee e l’idea del bene? Che cosa ha a che fare l’idea con la verità e, ancor più, con tutti quei riferimenti tra l’άλήθεια e la libertà, la luce, l’ente, i gradi dell’ente che già in precedenza abbiamo incontrato, senza riuscire a capirli? Per quanto il mito sia delineato con chiarezza e l’interpretazione offerta da Platone appaia semplice ed evidente, in quale misura comprendiamo tutto ciò? Non serve del resto a niente chiedersi come lo stesso Platone interpreti questo mito. Troviamo soltanto che egli descrive lo stato delle cose e spiega la posizione del prigioniero liberato dicendo che il luogo di costui è al di sopra del cielo, che in questo luogo ci sono le idee e fra queste un’idea suprema. Ma non veniamo a sapere che cosa significhi tutto ciò. Per il momento non comprendiamo proprio niente, tanto più se pensiamo che si tratta di una vicenda che accade all’uomo. All’uomo? Ma chi è l’uomo? Noi stessi e soltanto noi. Questa vicenda può accadere soltanto all’uomo, all’esserci per Heidegger, al parlante. Ciascuno di noi, nella misura in cui ora è, cioè nella misura in cui viene ora posto da Platone di fronte a questo mito e si lascia porre di fronte a questo accadimento. Questo lasciarsi porre di fronte all’accadimento è qualcosa che possiamo fare in quanto esseri parlanti. Qui lo dice però in modo bello, non dice il trovare una spiegazione, un’interpretazione, ecc.; no, dice che è il porsi di fronte a questo mito, il lasciarsi condurre dal mito. Dunque non coloro che adesso ascoltano una lezione di Heidegger; costoro, dopo alcune settimane, ne avranno già abbastanza e allora se ne andranno così come sono venuti. E se uno siede regolarmente qui fimo all’ultima ora del semestre? È forse una prova che si è lasciato catturare da questo mito? No, e tanto meno lo si può dimostrare mediante un esame; è dunque assolutamente indimostrabile – e tuttavia da verificarsi. Come e di fronte a chi e quando e dove e in che misura? Ciascuno lo sa per se stesso. In ciò soltanto consiste il misterioso “effetto” di una filosofia – se mai essa ne ha uno. Per il momento non comprendiamo proprio niente, ed è per questo che poniamo domande. Provvisoriamente ci chiediamo (e non soltanto a proposito del terzo stadio, ma anche a proposito di quelli precedenti): che cosa dice propriamente tutto ciò che finora è comparso nel mito? Quale significato ha per l’uomo, cioè per il nostro esserci e per il suo rapporto con la verità come svelatezza? Che cosa significa la svelatezza in riferimento alla libertà, alla luce, all’ente, alle idee, all’idea somma del bene? Qui ogni parola suscita una domanda? E si pone allora quattro domande. 1. Qual è la connessione fra luce e idea? 2. Qual è la connessione fra luce e libertà? 3. Qual è la connessione fra libertà ed ente? 4. Qual è l’essenza della verità – nel senso della svelatezza – che riluce dall’unità di queste connessioni? Con la risposta a queste quattro domande, che al tempo stesso rappresenta un’interpretazione del terzo stadio, cerchiamo di procedere a tentoni verso l’essenza della verità come svelatezza. … Poco più avanti parla dell’idea del bene. Neppure lo stesso Platone discute più da vicino nel mito quest’idea somma, e ciò perché essa era già stata discussa dettagliatamente in precedenza, nella parte conclusiva del libro VI. Torneremo quindi soltanto in un secondo tempo, dopo l’interpretazione completa del mito, sulla questione del rapporto fra l’άλήθεια e l’ίδέα τού άγαθού (idea del bene), non nel senso di una semplice appendice, ma per riassumere in tal modo solo allora l’intero problema della verità e giungere così al vertice estremo della filosofia platonica (che in sé non è nient’altro che la lotta fra questi due concetti di verità). La lotta fra due concetti di verità: l’άλήθεια e l’idea del bene. Ciò che ci dice la volontà di potenza è che la verità e il bene sono le due facce dello stesso: la verità è il bene, è ciò che ciascuno cerca. Perché lo cerca? Perché è quella cosa che gli consente di tornare giù nella caverna, prendere quelli che sono sotto e trascinarli sopra, perché deve mostrare loro la verità. Quindi, è ciò che lo autorizza a compiere questa operazione, a imporre la propria verità agli altri, affinché gli altri la riconoscano e la sua verità venga così certificata. Per dirla con de Saussure: perché il significato confermi il significante. Cosa che il significato non può fare, il significato non conferma, il significato fa essere il significante quello che è, certo, ma in quanto altro, non in quanto se stesso. A pag. 72. Ma Platone non dice che dobbiamo conoscere ancora più ombre, bensì qualcosa d’altro rispetto all’ente di cui ci occupiamo quotidianamente. Appunto quello che l’uomo attaccato alle cose che sono e alla loro inesauribile molteplicità che si rivela alla luce del sole (colui che è incatenato) non è in grado di vedere. E cioè che cosa? È l’interpretazione del mito a dirlo: sono le idee. Le idee sono qualcosa oggi sospetto da tempo e che riscuote ancora interesse solo nella chiacchiera sull’“ideologia”. Ιδέα è ciò che si dà e che c’è per e nell’ίδέιν, il vedere; a quest’ultimo corrisponde ciò che è visto, avvistato. Ma che tipo di vedere è quello nel quale vediamo l‘idea? Non può essere evidentemente il vedere con gli occhi del corpo; perché con questi vediamo proprio quell’ente che nell’immagine Platone designa come ombra. L’idea dev’essere qualcosa d’altro rispetto all’ente. Qui c’è l’apporto importante di Platone. L’idea è il concreto, è l’essere, è il tutto. Noi vediamo attraverso l’idea, cioè attraverso il concreto, non vediamo attraverso l’ente, attraverso l‘astratto dell’astratto. L’astratto dell’astratto è un’ombra, è ciò che ci appare, ma, se astratto dal concreto, è come se perdesse la sua ragione d’essere. Cosa che ha sempre comportato un certo numero di problemi perché, se io astraggo qualcosa dal concreto e poi chiedo a questo astratto di mostrarsi in quanto tale, l’astratto non può che mostrare altri astratti in un rinvio infinito. Ma l’astratto non mostra il concreto; per mostrare il concreto, per vedere il concreto – ίδέιν, diceva qui, è anche il vedere – per vedere l’idea io devo sollevarmi dall’ombra, cioè dall’astratto dell’astratto, e incominciare a vedere l’astratto in quanto facente parte della struttura in cui è inserito, della struttura che lo fa esistere, e cioè del linguaggio. Non posso in nessun modo uscire dalla caverna, dall’ombra, se non intendo il linguaggio, perché avrò sempre a che fare soltanto con ombre, cioè con astratti dell’astratto. Ombre che rinviano ad altre ombre, ma nulla che mi faccia intendere che quelle sono ombre, cioè, astratti rispetto a un concreto, rispetto al linguaggio, ché soltanto lui è in condizione di produrre un concreto. A pag. 73. Vediamo il libro con gli occhi? Che cosa vediamo con gli occhi? Il discorso risulta più chiaro se ci chiediamo, parallelamente, che cosa udiamo con le orecchie. A pag. 74. Ma qui dobbiamo già chiederci se una figura spaziale sia qualcosa di specificamente visibile, se possiamo incontrarla soltanto in quanto visibile. No, la incontriamo sempre e solamente come elemento linguistico. È per questo che la incontriamo. Incontrarla come elemento linguistico, questo è, per riprendere le parole di Heidegger, il vedere le idee, cioè, “vedere” il linguaggio. A pag. 75. Quando diciamo: “noi vediamo il libro”, usiamo il verbo “vedere” in un significato che va al di là del percepire un oggetto per mezzo della vista con l‘aiuto degli occhi. Possiamo avere strumenti ottici ancora più potenti e altamente sofisticati, la nostra vista può essere ancora più acuta, anzi eccellente, eppure con la vista non vediamo né vedremo mai un libro. Non potremmo mai vedere qualcosa come un libro se non fossimo già in grado di vedere in un senso più ampio e più originario. In ogni caso, fa parte di questo “vedere” ina comprensione di che cosa sia ciò che si fa incontro: libro, porta, casa, albero. Dalla cosa vediamo che essa è un libro. Questo vedere-da scorge la veduta che ci viene offerta da ciò che si fa incontro: libro, tavolo, porta. Da ciò che si fa incontro vediamo quale aspetto ha – che cosa è. Vediamo il suo “che cos’è”. Il “vedere” equivale ora a un’apprensione; si tratta, certo, dell’apprensione di qualcosa (cioè di questo qualcosa in quanto libro), ma non più tramite gli occhi e la vista; è uno sguardo la cui veduta non ha nulla di colorato; esso non è mai raggiungibile tramite una mera composizione di colore, e non ha assolutamente più nulla di sensibile – in esso, tuttavia, vediamo (apprendiamo) nel senso che ci rapportiamo a ciò che ci si presenta e ci si offre. Qui sembra quasi ciò che diceva Gentile rispetto al soggetto e all’oggetto: sono due facce, due momenti dello stesso. È il soggetto che diventa oggetto, e diventando oggetto, chiaramente, non c’è più la separazione tra i due: nell’atto sono la stessa cosa e si chiama atto proprio per questo, perché c’è una simultaneità tra soggetto e oggetto. Quindi, io vedo il libro perché so già che è un libro. Ma, innanzitutto, devo già sapere che è qualcosa. Come so che è qualcosa? Questa è una questione che abbiamo già affrontata. Posso sapere che è già qualcosa – qui ci è utile Hegel – per via del movimento dialettico, per via del fatto che il mio dire si separa dal ciò di cui dico. C’è questa separazione, di cui il linguaggio è fatto. Se non ci fosse questa separazione, questa distanza, noi non avremmo mai parlato. Questa distanza, tra ciò che è Io e ciò che non è Io, tra il mio dire e ciò che il mio dire dice, è ciò che incomincia a fare esistere le cose. Per via di questa distanza qualcosa può esistere. A questo punto il che cosa è questo qualche cosa potrebbe anche essere irrilevante: è un qualche cosa, poi apprendo che ha un certo nome e lo chiamo in una certa maniera. Ma la questione fondamentale è che per me questo qualcosa sia qualcosa: finché non è qualcosa non c’è niente. A pag. 76. L’“idea” è dunque la veduta dell’“in quanto che cosa” qualcosa che è si presenta. L’idea, cioè il linguaggio, è la veduta dell’in quanto che cosa. Queste vedute sono ciò in cui la singola cosa si presenta in quanto questo o quello: è presente e si presenta. Presenza si dice presso i Greci παρουσία o, in forma abbreviata, ουσία, è “presenza” significa per i Greci essere. “Qualcosa è” significa: è presente, o meglio – come diciamo in tedesco – es west an, “si presenta” nel presente. La veduta, ιδέα, dà dunque l’“in quanto che cosa” una cosa si presenta, ossia ciò che una cosa è, il suo essere. Il fatto che qualcosa sia. Questo non si intende se non si coglie la questione del linguaggio, perché da che cosa sembra venire questa cosa qui? Cosa la supporta? Quale argomentazione ci conduce a dire che a un certo punto compare questa idea e io vedo l’idea. Ma che cosa vuol dire che vedo l’idea? Sì, vedo l’essere, vedo il concreto, ma lo vedo in che senso? Lo vedo in quanto è un atto linguistico, in quanto è un atto di parola. È perché parlo che posso vedere, se non parlassi non vedrei niente. E, allora, ecco la distanza, di cui dicevo prima, tra il mio dire e il ciò di cui dico, distanza che si apre immediatamente, che apre uno squarcio irrimediabile, non più ricucibile, ma che consente di dire: Io e non-Io. Ecco, consente questo, solo questo, cioè, consente tutto, consente l’avviarsi del linguaggio, consente l’esistenza delle cose. Finché Io e non-Io non si distinguono - certo, non sono separabili ma sono distinti, cioè, finché non c’è linguaggio, Io e non-Io siamo niente. Stavo per dire che siamo lo stesso, ma “lo stesso” in quanto non c’è nessuna distinzione, non c’è nessun pensiero, non c’è niente. A pag. 77. Soltanto il vedere l’idea, cioè la comprensione del “che cos’è” e del “come è”, in breve dell’essere, ci fa in generale riconoscere l’ente in quanto quel rispettivo ente che è; con gli occhi del corpo non vediamo mai l’ente, anche se vi vediamo già “idee”. I prigionieri nella caverna vedono solo enti, ombre, e credono che ci sia solo ente; non sanno nulla dell’essere e della comprensione dell’essere. Cioè: le persone non sanno che parlano e, quindi, vedono solo ombre. Per questo devono essere allontanati dall’ente, da ciò che solo per loro è ente, dalle ombre, e devono essere condotti fuori dalla caverna. A frustate, come si diceva prima, perché non lo vogliono fare. Ma chi ci autorizza a fare una cosa del genere? La volontà di potenza: io so la verità, tu no e, quindi, devi fare quello che voglio io. Essi devono affrontare un’ascesa e lasciarsi alle spalle ciò che sta sotto allontanandosi anche dal fuoco nella caverna (dal sole vero che è a sua volta solo immagine di un ente), e salire al chiaro del giorno, alla luce, alle “idee”. Ma che hanno a che fare l’idea e l’essenza dell’idea con la luce? In tal modo giungiamo, soltanto ora, a porre in senso proprio la nostra prima domanda. C’è qui nel mito della caverna tutta la dottrina delle idee di Platone. Colui che esce fuori vede la verità, ma la vede perché conosce già la verità, e la conosce perché gli enti sono tali in quanto c’è l’idea nell’iperuranio. Il fatto che conosca già la verità ci pone una questione, perché, se così fosse, perché non la vedono tutti? In teoria, dovrebbe essere così. E, invece, no, occorre un percorso lungo e faticoso per accedere all’idea. Ma, perché? In fondo, Platone stesso dà una risposta a questa domanda: nessuno ha voglia di salire in superficie, si fa male agli occhi, tutto ciò di cui ha bisogno è lì, non gli serve nient’altro. Ma, poi, perché ciò che vede colui che è salito di sopra dovrebbe essere più vero di ciò che vede colui che sta di sotto? In base a che cosa? Perché dovrebbe essere più vero? In effetti, non lo è, non è né più vero né più falso. Però, c’è una questione che non possiamo ignorare: il linguaggio costituisce, certo, la condizione che ci siano gli enti, ma non rende le cose più o meno vere. C’è solo una possibilità di parlare della verità, che è il modo in cui ne parlò Gentile, e cioè: ciò che io affermo di per sé non è né vero né falso, l’unica verità di cui si può parlare è che affermo qualcosa. Perché è l’unica verità? Perché non posso cancellarla, non posso dicendo qualcosa, cioè ponendo qualcosa, dire che non la sto ponendo. Ciò che pongo affermando qualcosa è qualcosa che c’è, e c’è per il solo fatto che lo pongo, lo dico. È questo il senso del “c’è” qualcosa: c’è il mio dire. Questo non possiamo eliminarlo perché, eliminando questa possibilità – che dicendo faccio esistere qualcosa, cioè il mio dire, che è la mia verità – togliendo questo, cessa di funzionare il linguaggio, perché a questo punto è come se affermassi nulla, per cui il linguaggio non va da nessuna parte, si arresta. Sappiamo che il linguaggio non desidera essere fermato e, quindi, trova sempre la via per continuare a dire, per autoprodursi; è l’autoctisi, di cui parlava Gentile.

Intervento: Non ama nascondersi…

Sì, è vero. Ciò che ama nascondersi è il dire una volta detto. Si nasconde dietro un altro dire, diciamola così. È un continuo mostrarsi e nascondersi. È la questione, di cui parla Heidegger in Essere e tempo, della differenza ontologica: l’essere si mostra in quanto ente e, mostrandosi in quanto ente, l’essere scompare. Nel momento in cui c’è l’essere non c’è l’ente, anche se l’essere è la condizione dell’ente, ma è la condizione dell’ente a condizione di svanire. È il funzionamento del linguaggio: il mio dire è quello che è a condizione di svanire. L’in sé e il per sé che torna sull’in sé e fa il Sé, ma a condizione di svanire, cioè, l’in sé svanisce nel Sé, non è più quello di prima, è un’altra cosa. In questo senso c’è un continuo nascondersi e apparire. A pag. 82. La funzione fondamentale dell’idea: lasciar trasparire l’essere dell’ente. La nostra domanda guida è: quale connessione sussiste fra idea e luce? Perché le idee vengono simboleggiate dal chiaro? Adesso abbiamo cercato di spiegare l’una e l’altra: l’essenza dell’idea e l’essenza della luce. Ora, quali risultati ne otteniamo, al fine di determinare la connessione di entrambe? Quella che abbiamo evidenziato come essenza della luce e del chiaro, la penetrabilità al vedere, è proprio la funzione fondamentale dell’idea. Qui basterebbe avere presente la nozione di άλήθεια: ciò che appare, ciò che si manifesta è ciò che esce dal buio, ciò che viene in luce. L’essenza della luce è lasciar passare (per la vista). Se la luce, come nel mito, è intesa in senso traslato (cioè come trasparenza sia del chiaro sia del vetro), analogamente il vedere (nel senso corrente: “io vedo il libro”) significa in senso traslato: vedere l’ente (il libro, il tavolo, la casa). Ciò che è avvistato nell’idea, e in quanto idea, è, fuori di metafora, l’essere (il “che cos’è” e il “come è”) dell’ente. Ciò che si avvista nell’idea, ciò che l’idea lascia trasparire, ciò che l’άλήθεια lascia trasparire. Ιδέα” significa ciò che è avvistato anticipatamente, ciò che è appreso anticipatamente e che anticipatamente lascia trasparire l’ente, in quanto interpretazione dell’“essere”. Qui c’è Heidegger: se c’è l’ente non c’è l’essere. L’ente in quanto interpretazione dell’essere, cioè l’ente dice che c’è essere, sennò non ci sarebbe nemmeno lui. L’idea ci fa vedere che cosa l’ente è, essa fa sì che l’ente, passando attraverso per così dire attraverso il suo essere, giunga fino a noi. Noi vediamo solo a partire dall’essere… Potremmo dire che noi vediamo solo a partire dal linguaggio. …passando attraverso la comprensione di che cosa è ogni volta una singola cosa. Attraverso il “che cos’è” l’ente ci appare in quanto questo e quest’altro ente. L’ente può trasparire soltanto laddove viene compreso l’essere, il “che cos’è” delle cose, l’essenza. L’essere, l’idea, sono ciò che lascia passare: la luce. La funzione fondamentale dell’idea è l’essenza fondamentale della luce. L’idea viene lasciata passare dalla luce. Mi accorgo dell’essere, cioè del linguaggio, poiché l’ente, le cose che vedo mi dicono che sono sostenute, costruite da qualche cosa. Per farla breve, ciascun ente rinvia a qualche cos’altro. Questo rinvio a qualche cos’altro, lo vedremo bene con Aristotele, alla fine a che cosa rinvia? Al motore immoto, a ciò che è causa di tutto ma che non è causato da alcunché, al linguaggio. Era la cosa più semplice, più ovvia da cogliere, nessuno la coglie, non si capisce per quale motivo. Dice giustamente che noi vediamo a partire dall’essere. Certo, senza l’essere, senza il linguaggio, noi non vediamo niente; vediamo gli enti ma non vediamo il linguaggio, l’essere. Ma se accogliamo gli enti, non come astratto dell’astratto ma come qualcosa che ci viene incontro, dobbiamo considerare che ci viene incontro in virtù di qualche cos’altro, in virtù di un rinvio. Come lo sappiamo questo? Lo abbiamo imparato parlando che qualunque cosa non fa altro che rinviare incessantemente a qualche cos’altro. Non c’è niente di metafisico in tutto ciò, sono soltanto rinvii, sono soltanto essere per altro. Heidegger parla del progetto-gettato: ciascuno, il Dasein, è un progetto-gettato, sempre gettato verso qualche altra cosa. Quest’altra cosa occorre intenderla bene, perché quest’altra cosa, verso cui ciascuno è pro-gettato, è la volontà di potenza. Possiamo anche aggiungere questo: che cosa ci fa vedere il linguaggio o l’essere? Ciascun ente, che può essere qualunque cosa, ciascuna parola, ciascun discorso, ciascun atto, è uno strumento, un utensile per la volontà di potenza. È questo che ci fa vedere, e ce lo fa vedere come? Nel momento in cui incominciamo a chiederci: perché? Lo abbiamo visto all’inizio, il tizio che torna giù nella caverna, perché lo fa? È la volontà di potenza che lo spinge a fare una cosa del genere, così come è la volontà di potenza che ha spinto Platone a scrivere tutte le cose che ha scritte, cioè per stabilire come stanno le cose. Il che va benissimo, naturalmente, non c’è nessun problema, anche perché non lo si può evitare. Ma se lo si sa, ecco che allora si è meno ingenui rispetto alle proprie conclusioni, meno ingenui, cioè, si cessa di credere che ciò che si è concluso costituisca lo stato delle cose. Ora, questo in Platone c’è e non c’è, in Aristotele c’è di più, mentre era quasi assente nei presocratici, dico quasi perché è impossibile che sia assente. Diciamo che nei presocratici non era ancora così evidente, lasciavano la questione aperta. Quando si parla di idee, di essere, di linguaggio, radicalmente si sta parlando di volontà di potenza, perché parlare di linguaggio o di volontà di potenza è lo stesso, sono la stessa cosa: il linguaggio è volontà di potenza, è volontà di affermare. Nel momento in cui si inaugura il linguaggio non posso più cessare di affermare cose, perché ogni cosa che affermo ne chiama un’altra, all’infinito. Tutti questi testi che stiamo leggendo vanno letti tenendo conto di questo. Adesso Heidegger parla della libertà. A pag. 86. Qui dice semplicemente che divenire liberi non è altro che vincolarsi a questa “luce” che consente di vedere. Potremmo dirla così: vincolarsi al linguaggio, che è quello che fa vedere le cose. Soltanto se si è vincolati – usa questo termine “vincolati” anche se non è dei più appropriati – al linguaggio, cioè solo se non si può più non tenere conto del linguaggio allora si vedono le cose. Ma cosa vuol dire che si vedono le cose? Chiunque vede le cose, io vedo il posacenere, la penna, vedo tutto quanto, ma è un vedere senza domandare, è un vedere che non intende tutto ciò che questo vedere comporta. Comprendere, dicevamo in precedenza, significa saper venire a capo di una cosa, averne una visione completa e penetrarne la struttura. Comprendere l’essere significa: progettare anticipatamente la legalità e la struttura essenziali dell’ente. Io direi che non è sufficiente; però, lo vedremo più avanti. Divenire liberi per l’ente, vedere-nella-luce, significa compiere il progetto d’essere in cui viene pro-gettata e tenuta davanti una veduta (immagine) dell’ente, per rapportarsi, con lo sguardo rivolto ad essa, all’ente in quanto tale. Qui è Heidegger, non è più Platone. Quello che sfugge a Heidegger è che il progetto riguarda la volontà di potenza. Anche qui ci si potrebbe porre la stessa domanda che ponemmo all’inizio. Il parlante, il Dasein per Heidegger, è un progetto-gettato, è quindi sempre rivolto ad altro, e questo altro non è altro che uno strumento, un dispositivo per pro-gettarsi ulteriormente. Ma perché tutte queste operazioni? È difficile rispondere, lo stesso Heidegger di fatto non risponde, mentre la risposta è ovvia, è evidente: è perché parliamo che non si può non fare questo. Siamo continuamente pro-gettati da ciò che diciamo verso il significato di ciò che stiamo dicendo, e questo significato a sua volta non possiamo coglierlo che come significante, che è un po’ come dire che non posso cogliere l’essere se non come ente, l’infinito non posso coglierlo se non come finito. Quindi, sono continuamente pro-gettato, sempre gettato in avanti verso un tentativo impossibile di dominio, di controllo del linguaggio per potere affermare la verità assoluta. Il che è già un controsenso perché per potere affermare la verità assoluta vuol dire che o non ce l’ho, e allora non la raggiungerò mai, oppure ce l’ho, nel qual caso perché dovrei affermarla, e a che scopo se non perché questa verità assoluta mi dice che sono preso nella volontà di potenza? La verità, riprendendo Gentile, consiste nel fatto che sto affermando. Il fatto che sto affermando comporta che ciò che affermo sia altro rispetto al mio affermare, c’è una distanza tra il dire e il detto. Quindi, la questione è per un verso più complessa di come immagina Heidegger, per un altro verso è più semplice. Certo, Platone non aveva gli strumenti per intendere una cosa del genere o forse sì, non lo sappiamo, ma Heidegger avrebbe potuto. Heidegger, come abbiamo visto, ha lavorato su Nietzsche, ha fatto un lavoro incredibile ma non ha colto, ascoltato ciò che c’era da ascoltare, esattamente come dice dei Greci rispetto all’άλήθεια, che non l’hanno ascoltata. Lì occorreva ascoltare ciò che stava dicendo Nietzsche: guarda che tutto ciò che stai dicendo, che stai facendo, non è altro che incrementare il tuo potere, il tuo dominio su qualche cosa, non importa cosa. Non intendere questo è un votarsi all’incomprensione, perché non si capisce perché gli umani debbano fare una serie di cose continuamente. Non si capisce neanche perché proseguano a parlare, se non si intende questo. Una volta imparato il linguaggio, si potrebbe anche non parlare; e invece no, si continua a volere imporre sempre la propria verità, non si può non farlo. È questa la questione straordinaria, e cioè che non si può non farlo, non si può non pro-gettarsi sempre dicentesi la verità.