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5 aprile 2023

 

I concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

Siamo a un punto importante. A pag. 182. Questo capitolo si intitola La δόξα come terreno per l’approccio teoretico. È un titolo interessante perché vuol dire che l’approccio teoretico ha inevitabilmente come terreno la δόξα. La δόξα domina completamente anche il λέγειν teoretico, vale a dire il λόγος nel senso della “trattazione” di qualcosa, cioè dell’esplicare e considerare in ogni dettaglio qualcosa in termini teoretici, non quindi nei termini della discussione pratica, per esempio della discussione giudiziaria – trattare nel senso del διαλέγεσθαι, del come si parla di una cosa: lo scopo di conseguire in tal modo un risultato concreto va lasciato cadere, poiché, adesso, ciò di cui ci si prende cura è il λέγειν stesso. In ambito teoretico non ha una funzione pratica, immediata, ma è una riflessione intorno al linguaggio stesso, non soltanto su ciò che il linguaggio produce, ma sul linguaggio stesso. Che è ciò che facciamo noi, in definitiva. Ora, per cogliere questo significato fondamentale della δόξα farò sinteticamente riferimento all’argomento discusso nel libro I dei Topici (che tratta del διαλέγεσθαι), dove Aristotele mostra con assoluta chiarezza quali specie di λόγοι scaturiscono dalla δόξα,… Cioè, quali discorsi scaturiscono dall’opinione. … come ciò a cui ci si richiama quando si parla – quando si parla l’uno con l’altro – sia sempre qualcosa che ha il carattere della δόξα. È un fatto importante, poiché è partendo da qui che si può pervenire alla comprensione non solo del συλλογισςμός (sillogismo), ma anche della logica. Il fatto che vi sia una logica non è casuale, anzi va compreso in base a fenomeni fondamentali del tutto determinati dell’esserci stesso. Questa affermazione è interessante. Dice che il fatto che ci sia la logica non è fenomeno casuale. A questo riguardo stavo pensando in questi giorni che sarebbe interessante rileggere – o leggere, perché si tratta di leggere in un altro modo – l’Organon aristotelico. Non solo perché, in fondo, queste cose scritte dagli antichi sono le uniche che ancora riescono a darci delle cose da pensare, ma anche per provare a leggere L’Organonorganon significa strumento – come strumento della volontà di potenza: la logica come strumento della volontà di potenza. Riuscire a leggerlo in questo modo sarebbe molto interessante, perché ci spiega quali sono gli artifici della logica per ottenere il potere sulle cose, per dominare l’ente. A pag. 183. “Ciò da cui e in base a cui nasce il discorso, e ciò su cui e di cui si discorre, è uguale per numero ed è la stessa cosa. Ciò di cui si parla sono i πρόβηματα (problemi), ciò da cui nasce il discorso è la πρότασις”. La πρότασις è l’antecedente, è il “se” di “se questo allora quell’altro”. Entrambi si distinguono in base al τρὅπος (figura), cioè alla loro specifica “modalità”. Vedremo mediante qualche esempio che cosa si intende con questa espressione. Πρότασις: “pre-mettere”, “pre-messa”. Πρόβλημα, da πρόβάλλω, “gettare innanzi”: il “pro-blema, pro-getto”, nella misura in cui si tratta di avanzare un’opinione, di gettarla nella discussione in contrasto con l’opinione dominante, in modo tale che ne emerga l’implicita insicurezza, il carattere “problematico”, ovvero il fatto che in merito non si è ancora pervenuti a un risultato definitivo. Questi sono i modi in cui, Heidegger ci dice, che intende sia πρόβλημα sia πρότασις. La πρότασις implica il carattere del διαλέγεσθαι, la premessa nel senso che il διαλέγεσθαι si richiama a un’opinione consolidata, pretendendo per sé un solido terreno, premessa di qualcosa che non dev’essere ulteriormente discusso e che dagli altri viene richiesto come terreno comune. Πρόβλημα il πρό, πρότασις l’έξ (conseguente). Πρόβλημα viene tradotto con “pro-blema, pro-getto”. Non so se avete fatto caso a ciò che ha appena detto: la premessa … si richiama a un’opinione consolidata, pretendendo per sé un solido terreno. La premessa deve essere qualcosa che è riconosciuta da tutti, qualche cosa che nessuno metterebbe in discussione. Perché non lo metterebbe in discussione? Perché è l’opinione più diffusa, è quell’opinione, aderendo alla quale, io mi sento parte di un tutto, di un gruppo, di coloro che sanno. Questo ci richiama all’anima bella di Hegel. L’anima bella muova dall’idea che la premessa da cui partono, da cui muovono tutte le sue argomentazioni, sia riconosciuto come qualcosa di vero dai più, dai più intelligenti, saggi, accorti, avveduti e dotti. Tutti questi pensano così, dunque, se qualcuno pensa altrimenti, è uno sconsiderato, un ignorante, ecc. Si muove dalla pre-supposizione che debba esistere una premessa generale da cui si parte. Non è neanche sbagliato tendenzialmente, si parte sempre da qualche cosa, lo diceva anche Aristotele: da qualche cosa dobbiamo partire. La questione è che ciò da cui si parte non è meno arbitrario di ciò a cui si arriva. Ma questo è straordinariamente difficile da mettere in conto, perché questa premessa generale da cui muove l’anima bella – che si estende a macchia d’olio a buona parte dell’umanità – è quella che consente di trarre tutti i discorsi che faccio, sono tutti quanti sostenuti da quella premessa, da quella cosa che si pensa sia così, che si crede che sia così, che si vuole sia così. Siccome non c’è nessuna garanzia che sia così, ecco il motivo per cui, e qui lo dice chiaramente: premessa di qualcosa che non dev’essere ulteriormente discusso e che dagli altri viene richiesto come terreno comune, cioè, tutti pensiamo questo e non deve essere discusso. Dicevamo tempo fa che, in fondo, il divieto di Aristotele di mettere in discussione quello che a questo punto possiamo chiamare “principio primo” – che non è naturalmente quello che voleva Aristotele – e cioè, la chiacchiera, la δόξα. Il divieto di Aristotele puntava proprio sulla premessa generale del sillogismo, sull’universale: tutti i saggi, i dotti, pensano questo, quindi … Lui stesso lo dice: accogliamo questo come vero perché è ciò che i più dotti, i più bravi, ecc., pensano che sia vero, quindi, sarà vero. Se c’è un qualche cosa da cui occorre partire, e necessariamente occorre partire da qualcosa, allora si parte da questo, da ciò che i più pensano che sia – quella che Husserl chiamava Lebenswelt, il mondo della vita, le cose che ciascuno sa, conosce. Fa poi un esempio rispetto alla πρότασις e dice …la questione è: “Non è forse l’asserzione “l’uomo è un essere vivente bipede” la definizione dell’uomo? Non è forse “essere vivente” il genere dell’uomo?”. Non sei forse anche tu dell’opinione che le cose stiano così? Questo è ciò che vogliamo stabilire! Tutti quelli che pensano correttamente pensano così. È chiaro che una simile posizione dà l’opportunità di determinare coloro che non pensano correttamente. Quelli che non pensano correttamente sono coloro che mettono in discussione l’universale su cui si regge tutto quanto. Naturalmente, l’obiezione è che se costoro mettono in discussione l’universale, posto come premessa maggiore, allora non è più possibile parlare di niente: se parliamo dobbiamo accogliere qualche cosa. La differenza fondamentale sta nel “come” lo accogliamo, perché è possibile accoglierlo in tanti modi, come il giusto modo di pensare, che generalmente viene tradotto con la parola “normale”: è normale che sia così, questa per tutti quanti è la norma, tutti pensano così, quindi, è vero. Di conseguenza, come dicevo, questo indica il corretto modo di pensare e chi non pensa correttamente deve essere, in un modo o nell’altro ricondotto al corretto modo di pensare. La posta in gioco qui è alta, non solo per l’anima bella ma in generale per il pensiero comune, perché se si inizia a mettere in discussione la premessa generale di una qualunque argomentazione allora viene meno la possibilità di identificare il male, quindi, il nemico, quindi, ciò che non va; immediatamente, ne viene che io stesso non posso più ergermi a paladino del bene, della virtù, del corretto modo di pensare, del giusto ragionare, ecc. Detto in altri termini ancora, se non so da che parte sta il bene, il giusto, ecc., allora non posso più parlare, “giustamente” perché parlare è questo, è prevalentemente dire all’altro che sbaglia, che le cose non stanno così come dice lui ma stanno ovviamente come dico io. Si toglie, cioè, la possibilità stessa di parlare, si toglie praticamente la volontà di dominare l’ente: se si toglie questo, cosa rimane, di che cosa parliamo? Ecco perché qualche volta fa dicevo, rispetto alla volontà di potenza, alla volontà di dominare l’ente, che in effetti il pensiero teoretico, così come lo stiamo perseguendo, ci porta necessariamente al punto in cui l’ente non è più da dominare perché già dominato. Ma dominato in che senso? Nel senso che so già, e non posso non sapere, che quell’ente, a cui mi rivolgo, è una parola, è un discorso, nient’altro che questo, un discorso che naturalmente è il mio, perché è l’unico con cui io posso avere a che fare. Ogni cosa è “mio” discorso. Questo è anche un senso più esteso che può darsi a ciò che intendeva Heidegger parlando del mondo: ciascuno è il mondo di cui è fatto e può approcciarsi alle cose soltanto in quel mondo lì, nel suo mondo che è il suo modo. Ciò che stiamo dicendo ci porta a considerare che non si può fare altrimenti, che l’unico approccio alle cose, qualunque esse siano, è possibile perché le cose sono parole. Se non fossero parole allora sarebbero altro che non è parola, che non è linguaggio, ma se non è linguaggio non ne ho alcun accesso. Dunque, se posso approcciarmi alle cose è semplicemente perché queste cose sono il mio discorso. Non sei forse anche tu dell’opinione che le cose stiano così?, se sei una persona ragionevole, intelligente, che sa pensare correttamente, non puoi che convenire con ciò che io dico: questo è ciò che si dice, che si pensa.

Intervento: Generalmente lo si pensa ma non lo si dice, perché svelerebbe il gioco.

Sì. In effetti, è sempre mascherato dietro la premessa maggiore, la quale è vera perché si pensa che lo sia, ma, come diceva, non deve essere mai mesa in discussione, sennò crolla tutto e ci troviamo nella situazione in cui si trovarono i greci di fronte agli eleati (Parmenide, Anassimandro, Zenone, ecc.). Non aveva neanche tutti i torti Platone quando, rivolgendosi ai sofisti, diceva: voi siete capaci di mettere tutti quanti in difficoltà, ma voi stessi che cosa proponete? Accusava i sofisti di non avere una loro proposta, una loro teoria, cioè, di non dire come stanno le cose. I sofisti questo non lo facevano; loro mettevano, sì, in discussione ma l’unica cosa che facevano, e che avevano probabilmente interesse a fare, era di mostrare l’impossibile connesso con il linguaggio. Parlando si incontra l’impossibile, ogni volta che si apre bocca si spalanca un abisso infinito. Abbiamo condotto l’analisi della δόξα a una certa conclusione: la δόξα contiene lo specifico orientamento dell’“essere nel mondo”, nella δόξα il mondo è presente. Come spesso fa Heidegger, mette lì queste proposizioni come se fossero cose da niente. È nella δόξα che il mondo è presente, fuori della δόξα non c’è il mondo, perché il mondo è la δόξα, è l’opinione che ne ho. Questo aggeggio qui è l’opinione che io ho di questa cosa, cioè, ciò che penso che sia, che credo che sia, quello che si dice che sia. Per ora abbiamo tralasciato uno specifico aspetto della δόξα riguardante il fatto che essa è un’opinione su qualcosa, presuppone cioè l’essere dato di un φαινόμενον. Occorre che sia dato qualche cosa. Che cosa deve essere dato? Lui dice il φαινόμενον, il fenomeno, ma che cos’è questo fenomeno che appare immediatamente, che ci appare continuamente davanti agli occhi? È ciò che stiamo dicendo adesso, ciò che io vedo, che mi appare, è ciò che io dico, è il mio discorso che mi appare continuamente. Io vedo Cesare, ma in realtà vedo il mio discorso, vedo ciò che penso che Cesare sia. Affronteremo nel dettaglio questo elemento strutturale della δόξα quando prenderemo in considerazione l’ἀλήθεια. Nella nota si dice che non ne parlerà mai perché non farà in tempo. Ciò che importa, per ora, è comprendere in che modo dalla δόξα così intesa scaturiscano le singole possibilità in cui si tratta e si discute del mondo. La δόξα, in effetti, è l’unica possibilità che abbiamo di parlare del mondo. Perché? Perché la δόξα è il mondo, di cui siamo fatti. Quindi, è chiaro che è lei che dà la possibilità, perché è il mondo stesso. È implicito nel senso della δόξα rendere possibile una discussione. Ciò su cui domina l’opinione è anche qualcosa di cui si può ancora discutere. In effetti, l’opinione serve a dominare: ciò su cui domina l’opinione, l’opinione serve a questo, a dominare l’ente. È quello che diceva anche la dea ‘Aλήθεια: parlare è dominare gli enti, quindi è la δόξα ciò di cui abbiamo bisogno. Chiedersi se le cose sono o non sono non porta da nessuna parte, ci si schianta immediatamente con il problema del linguaggio quando vogliamo finalmente determinare che cos’è qualche cosa. La δόξα implica di per sé la possibilità del discutere l’uno con l’altro – ed è così che si sviluppa la κοινωνία. Ogni intendersi nell’essere l’uno con l’altro è un intendersi che presuppone un certo terreno di familiarità con qualcosa, terreno per la discussione. È una ripresa di ciò che diceva prima: se io metto in discussione ciò che non deve essere messo in discussione, e cioè la premessa generale da cui si parte, non si può più parlare, semplicemente non si parla più. È a partire da questa familiarità – e muovendosi al suo interno – che si parla, nella misura in cui il risultato della discussione ha a sua volta, di nuovo, il carattere dell’ἒνδοξον. È da lì che si parte e non si esce da lì. È ciò che consente di parlare, di proseguire a parlare, sempre a condizione di non interrogare mai ciò che rende possibile questa κοινωνία, questa comunanza: tutti sappiamo che gli umani sono mortali. Cesare, lei come fa a saperlo? Chi glielo ha detto? In base a quale criterio? Sto facendo il verso del porre domande su questo, domande a cui non è possibile rispondere, perché l’unica risposta possibile è che si pensa che sia così. È questa la familiarità sulla quale si regge la κοινωνία, la comunione dei parlanti: tutti parlano perché tutti hanno in comune il si dice, il si pensa, il si crede.

Intervento: A proposito di questa familiarità, sembra che la funzione del sillogismo sia quella di portare la conclusione cui giunge a questo ambito di familiarità.

È il lavoro che dovremmo fare sull’Organon: mostrare come la logica non sia altro che un manuale per dominare l’ente. Tutto l’Organon è un manuale per dominarlo, per dire come si fa a credere più propriamente, di dominarlo. Lo si domina attraverso una tecnica, ma questa tecnica è fondata su che? Ce lo ha spiegato benissimo Mendelson: tutto è fondato sull’induzione e l’induzione è un’analogia, è appunto il si dice, il si pensa, il si crede, ecc. Se è familiare è perché lo domino, sennò è straniante, come diceva Freud. Qualche cosa che si ritiene familiare, quindi, dominato, all’improvviso si trasforma in qualche cosa di assolutamente straniante, cioè mi accorgo che non lo sto affatto dominando, per cui ecco il panico, i famosi attacchi di panico. Ciò a partire da cui si parla non è espressamente presente:… Non serve a niente che sia presente ciò di cui parliamo. …trattandosi di qualcosa di esplicito, sorge il fenomeno della πρότασις, cioè della “premessa” di ciò a partire da cui si parla, e di cui però nella discussione non si fa parola. Si tace. Nella logica la figura è quella dell’entimema, che è quel sillogismo in cui la premessa maggiore è assente ma, pur essendo assente, è molto presente. È assente perché si suppone condivisa da tutti, per cui non c’è neanche bisogno di porla. Il “ciò a partire da cui si discorre” lo si definisce stabilito, in termini teoretici, in quanto άρχή, nella misura in cui si tratta di un parlare estremamente preciso nel senso del mostrare e dimostrare teoretici, dove il fenomeno del parlare l’un l’altro è pur sempre presente, benché non in modo esplicito. Questa premessa maggiore non è mai esplicita. Anche il trattato, infatti, si rivolge a un contesto di destinatari uniti nel συλλογισςμός. Qui la πρότασις viene definita άρχή. I principi che vengono presupposti, e da cui la dimostrazione prende le mosse, costituiscono un caso del tutto particolare della circostanza originaria secondo cui si parla a partire da un alcunché di noto. Ci sta dicendo in modo che ciò da cui si parte non è affatto necessario che sia noto. Ciò da cui partiamo, la πρότασις, l’antecedente, l’universale, non serve che sia noto. Come dire ancora, che non serve a niente sapere di che cosa si sta parlando. L’importante è che continuiamo a parlare, attenendoci grosso modo alle regole della logica comune, per es. che io affermi una cosa e la neghi tre secondi dopo; sennò, sapere di che cosa si sta parlando è assolutamente irrilevante. Lo diceva anche prima: Ciò a partire da cui si parla non è espressamente presente, non serve che lo sia. D’altra parte, potremmo davvero sapere esattamente di che cosa stiamo parlando? No. Questo già gli eleati lo avevano detto in modo chiaro. Zenone: vedo le cose, certo che le vedo, ma non le posso concettualizzare, non le posso calcolare, se incomincio a calcolare faccio un’altra cosa, che non ha più nulla a che fare con quella, faccio un altro gioco. La πρότασις διαλεκτική (la premessa nel discorso dialettico) viene descritta come “un domandare che si trattiene nell’ambito di ciò su cui sussiste un0ì’opinione consolidata”… Questo domandare si trattiene solo lì, all’interno di ciò che si ritiene conosciuto. Ma si ritiene conosciuto proprio perché non lo si interroga quindi, di nuovo, la necessità assoluta di non interrogare. … Le domande che sono introdotte dalla formula ἆρά γε, “non è forse…”, chiedono implicitamente un consenso. Nella πρότασις si richiede il consenso riguardo a ciò che si dice, il riconoscimento nel senso che allora, quanto a ciò che segue, si sta su un terreno comune. Ma perché il terreno sia comune è necessario che tutti credano una certa cosa. Detto in altri termini, per potere rimanere all’interno di un terreno comune è necessario che nessuno sappia di che cosa stia parlando. Questo è il criterio generale, perché se si incominciasse a interrogare, ecco che non sarebbe più terreno comune: c’è qualcuno che rompe le uova nel paniere e mostra che le cose potrebbero non essere proprio così. La pre-messa … si rivolge a ciò che “a tutti, alla grande maggioranza, ovvero ai più assennati” sembra essere così. Qui comincia a porre qualcosa di interessante perché tra poco parlerà dell’aporia. Il contenuto di una πρότασις διαλεκτική (la premessa nel discorso dialettico) può anche essere ciò che rientra nella δόξα. Inoltre: ha carattere di ἒνδοξον, μή παράδοξον, ciò che uno, competente nella sua materia, dice in base alla sua esperienza, o che uno scienziato afferma in base al suo ambito disciplinare, senza bisogno di dimostrarlo. Μή è il non; παράδοξον è l’opinione contraria a quella diffusa, quindi, non paradossale. Il terreno comune è quello non paradossale, quello che non si discosta dal pensiero comune. A quale condizione non si discosta? Come abbiamo visto prima, a condizione che si attenga a questa omertà, che accolga questa censura che accolgono tutti i benpensanti. Nel caso del πρόβλημα, invece, non si tratta di premettere qualcosa nel senso del terreno, poiché Aristotele definisce piuttosto il πρόβλημα come θεώρημα “qualcosa di cui va verificato” che cosa deve diventare oggetto del parlare. Il teorema nella logica è quell’ultima formula di un procedimento di calcolo proposizionale, cioè, è una proposizione che afferma come stanno le cose. Mentre il carattere interrogativo della πρότασις è tale da richiedere i consenso, il θεώρημα significa qualcosa la cui ulteriore verifica va intrapresa nella discussione, qualcosa che “stimola intensamente alla comprensione, presupponendo che lo si accetti o lo si rifiuti”,… È chiaro che in tutto questo per giungere al θεώρημα sono impliciti una serie di passaggi, sono implicite una serie di regole che devono venire accolte per potere giungere al teorema, delle quali regole non c’è una giustificazione universale. Potremmo dire che queste regole servono soltanto a potere condurre il gioco a una conclusione. Stabilire che una certa carta da gioco è un asso di cuori serve nel poker a poter sviluppare un certo gioco in un certo modo, non ha un suo valore universale, ma serve a quel gioco. Il rapporto del πρόβλημα con l’ἒνδοξον: viene avanzata una questione sulla quale non c’è accordo, “sulla quale in nessun senso si è pervenuti a un’opinione precisa, o perché si tratta di una questione intrinsecamente controversa e aperta, oppure perché essa è tale che al suo riguardo la grande maggioranza la pensa diversamente dai più assennati, o infine perché né tra i molti né tra i pochi c’è accordo su di essa”. Questo è ciò che può accadere in una discussione, dove appunto L’oggetto dell’indagine è intrinsecamente controverso. Una forma particolare del problema è la θέσις (posizione). Non ogni πρόβλημα è θέσις, ma ogni θέσις è un πρόβλημα. Non ogni problema comporta una posizione, ma ogni posizione comporta che ci sia un problema che è stato risolto o quantomeno indicato come risolto. Ora, dice, che ci sono delle posizioni in cui si va contro l’opinione comune. Qui cita Melisso. A pag. 187. “Una simile θέσις è per esempio la δόξα di Antistene, secondo cui non si dà contraddizione (una δόξα παράδοξος: è contraria all’opinione media, però non è sostenuta da uno qualsiasi, ma da uno esperto), oppure quella di Eraclito, secondo cui tutto è in movimento, o di Melisso che dice ἒν τό ὅν (essere uno) – non si tratta qui “di uno qualsiasi”, bensì di un uomo stimato, un esperto che sa il fatto suo. La θέσις si distingue dal πρόβλημα per il fatto di parlare espressamente contro l’opinione dominante, mentre vi sono molti πρόβληματα che non parlano in forma accentuata contro l’opinione dominante. Qui pone una questione che gli serve per approcciare adesso la questione dell’aporia, del paradosso, cioè dell’opinione che va contro l’opinione corrente, contro il sentire comune. L’aporia, dunque. Πόρος è il cammino, l’andare verso; poi, c’è l’α privativa che dice “non si può passare, di qui non si passa”. Sarebbe la contraddizione, o anche il paradosso, con termini un po’ differenti da come ne parla prima, però anche in questo caso si può parlare di paradosso. Nella logica il paradosso è formato da quella proposizione che è vera a condizione che sia vera la sua negazione. Dall’insieme delle caratteristiche che contrassegnano ciò a partire da cui – e di cui – si parla nel διαλέγεσθαι si può desumere ora ciò che soprattutto può diventare un tema possibile di discussione. Emergerà così in modo ancora più preciso la differenza rispetto al discorso della retorica. Aristotele definisce il discorso, il tema della retorica, ciò che nella discussione scientifica viene tratta come τό λόγου δεόμενα, λόγος inteso qui nel senso del διαλέγεσθαι: nel διαλέγεσθαι ci si occupa di ciò che ancora “ha bisogno” di quel parlare che ha alcuno scopo ulteriore, che cioè non nasce dalla funzione naturale del parlare con un intento pratico. Quando si fa una discussione teoretica non c’è un intento pratico. Ma anche questo è falso. Nietzsche lo avrebbe saputo dire con precisione, perché anche una riflessione teorica ha uno scopo pratico: la soddisfazione, quella che Aristotele chiama εύδαιμονία, generalmente tradotto con felicità. C’era un logico inglese, Austin, che aveva elaborato una teoria della felicità degli enunciati e che diceva che un enunciato è felice quando è compiuto correttamente a seconda delle circostanze. Se io dico che in questo momento sto varando una nave, l’enunciato è infelice. Se, invece, mi trovo nel porto di Genova, di fronte a una nave ormeggiata, ho una bottiglia di champagne in mano, con tutto il contorno che mi circonda, e lancio questa bottiglia che si va a infrangere sulla nave, allora in questo caso l’enunciato “sto varando una nave” è un enunciato felice. Il λόγος, qui, è separato dal πρακτόν – il λόγος stesso è diventato la πρᾶξις. Questo è già più interessante. È il discorso stesso che è diventato l’agire. Il λόγος non agisce più su qualche cosa, ma agisce su se stesso, potremmo dire che pensa se stesso. In questo caso il λόγος, in quanto discussione, svolge la sua pura funzione mostrando ciò di cui si sta discutendo nel suo “come” e nel suo “che cosa”, com’è e che cos’è. Si discute di ciò che ha bisogno ancora del λόγος, ossia di ciò che non è chiaro, che non può essere portato alla comprensione in altro modo né può essere procurato altrimenti. E cioè: parlando. In effetti, non c’è un altro modo per portare a compimento qualcosa se non parlando. Se teniamo conto di ciò che dicevamo prima, sulla scorta di quanto sta dicendo Heidegger, a sua volta sulla scorta di ciò che dice Aristotele, e cioè che ciascuno incontra soltanto il proprio discorso, ed è solo con questo che ha a che fare continuamente. Le persone, le cose, gli aggeggi, qualunque cosa, sono discorsi, sono parole, ma sono le sue, altrimenti non avrebbe nessun accesso se non fosse il suo discorso. Io non ho alcun accesso al discorso di Gabriele, è il suo. Non so, quando dice delle cose, come le sta pensando, da dove arrivano, non posso saperlo. Delle volte nemmeno chi parla lo sa, però di sicuro non io. Posso avere parzialmente accesso al mio discorso. Un λόγου δεόμενον (discorso che mostra, ipotiposi) non è tale da essere semplicemente oggetto di un “rimprovero” o di una “semplice percezione diretta”. “Coloro che sono in dubbio se si debbano onorare gli dei, se si debbano amare i genitori, hanno bisogno di un rimprovero, noi diremmo: di uno scappellotto. Perché è così che si insegna ai bambini, che non devono porsi domande che vanno al di là di un certo limite; perché se si pongono quelle domande non c’è più nessuna risposta, cioè, hanno l’opportunità di accorgersi – e questo sarebbe una catastrofe – che alle loro domande non c’è nessuna risposta, se non la δόξα, l’opinione: si fa così! Che è quello che poi dice la mamma: perché devo fare così? Perché si fa così! Perché lo dice la mamma! Al che il bambino potrebbe aggiungere: la mamma come lo sa? E qui generalmente arriva la labbrata che pone fine alla discussione. Ma è emblematico tutto ciò. In effetti, ripercorre un po’ quella che i filosofi chiamavano ontogenesi, il ripercorrere la filogenesi, il ripercorrere la nascita della specie. Questo fastidio che un bambino può dare quando insiste nel domandare – un insistere nel domandare che non ha un fondamento teoretico, è semplicemente una provocazione, perché sa che mette in difficoltà l’altro, quindi va bene così, finché non arriva appunto lo scappellotto –, ma questo fastidio che provoca il bambino è lo stesso fastidio che i greci provavano a fronte degli eleati, che dicevano che quando si parla ci si trova faccia a faccia con l’impossibile del linguaggio. Allo stesso modo la mamma, anche senza rendersene conto, è come se dicesse al bambino “devi smetterla di interrogare”, perché se vai avanti a interrogare ti accorgi che non c’è nessuna risposta possibile. Ma se non c’è nessuna risposta possibile, come lo educo? Su cose del genere non ha senso scrivere un trattato, e nemmeno sul fatto “se la neve è bianca oppure no”, poiché in tal caso si tratta semplicemente di aprire gli occhi. Lo vedo che la neve è bianca. Ma qui c’è un problema. Infatti Emerge qui chiaramente che il colloquio esige come suo requisito basilare che ci si sia preventivamente messi d’accordo sul tema del colloquio stesso, se cioè esso, secondo il suo senso oggettivo, consente una discussione, oppure si pone, come tema, fuori da ogni discussione possibile. Come dire, o siamo d’accordo che possiamo discuterne, e cioè accogliamo tutti quanti alcune premesse, oppure non possiamo parlare. Era quello che dicevano gli eleati: non possiamo parlare. Viceversa, anche di ciò che ha bisogno di una specifica motivazione argomentativa – e che quindi non può essere risolto né con un rimprovero né con la percezione diretta – non qualsiasi oggetto è un λόγου δεόμενον, “né ciò la cui dimostrazione è evidente, e che può essere indicato con facilità, né viceversa ciò la cui dimostrazione è troppo complessa” rientrano nei temi possibili di un simile colloquio. Nemmeno nell’ultimo caso vi è aporia: questo tema presenta difficoltà tali da essere irrisolvibili dalla δύναμις del colloquio. Qui dice una cosa interessante. Il tema possibile del διαλέγεσθαι è circoscritto e stabilito – un tema che deve contenere in sé un’aporia. Cioè, ci deve essere qualche cosa di riconosciuto come impossibile perché il tema della discussione sia riconosciuto come possibile. Chiaramente, non c’è il possibile senza l’impossibile, e viceversa, ma questo impossibile deve essere escluso. Ecco l’importanza dell’aporia: l’impossibile, quello che gli eleati mostravano ai greci attoniti, è quell’impossibile che deve essere escluso perché sia possibile la discussione. Aristotele tratta dettagliatamente dell’άπορια nel libro III, capitolo 1, della Metafisica. Bisogna tenere presente che l’άπορια compare nel contesto del λέγειν, del λόγος autonomo, non di una πρᾶξις, ma là dove il λέγειν stesso è la πρᾶξις. Cioè, questo impossibile fa parte del linguaggio, non si trova in natura. Riguardo all’άπορια conosce una serie di espressioni caratteristiche: parla di άπορεῖν, εύπορεῖν, διαπορεῖν, προαπορεῖν. Πορεῖν significa “andare”, “correre”, nel senso del λέγειν, cioè del discorrere, λέγειν nella funzione dell’άποφαίνεσθαι (mostrare). In questo “essere in moto”, nel percorrere, lungo la via del mostrare “non passare”: πορεῖν. Non si passa di lì, non si può andare, di lì non devi andare, perché lì è l’impossibile. Soltanto se tutti noi riconosciamo questo impossibile allora ci possiamo accordare come comunità, come κοινωνία, su ciò che invece è possibile. Ed è possibile sempre a condizione che ciascuno accetti il si dice, accolga cioè la chiacchiera. L’α privativum indica che in ogni caso bisogna πορεῖν: l’άπορια implica il πορεῖν, il fatto cioè che comunque ci si è messi in moto, ci si attiene a un mostrare. Il τέλος (fine) è l’εύπορεῖν, il “passare bene”. Di per sé l’άπορια non è un τέλος, poiché essa si pone piuttosto al servizio di un determinato percorrere: è sempre un “essere in cammino verso…”, nel cui caso però in un primo momento non si passa. La funzione dell’άπορεῖν è il δηλοῡν (mostrare), nel senso che nel πρᾶγμα si mostrano i “nodi”. Quelli irrisolvibili, quelli che i medioevali chiamavano insolubilia. L’άπορεῖν si compie considerando le opinioni dominanti su una cosa. Tali opinioni vanno esaminate a fondo per comprendere in che misura la cosa vi si mostri. L’άπορια ha il senso positivo di dischiudere anticipatamente la cosa secondo determinate caratteristiche. Se so che cosa è impossibile allora so di ciò che è possibile parlare, quindi possiamo farlo. Infatti, solo quando sono passato attraverso un temporaneo non poter passare, precisamente mostrando dove non sono passato, possiedo propriamente il τέλος dell’indagine, e solo allora posso decidere, alla fine di essa, se ho trovato o meno ciò che cercavo. Soltanto quando so dove sta l’impossibile, perché ci sono passato, mi sono accorto che di lì non possiamo andare da nessuna parte; se ci mettiamo a interrogare tutte le premesse, non possiamo fare niente. Ecco l’aporia: di qui non passi. E, invece, noi vogliamo l’εύπορεῖν, il passare bene, verso un fine, verso un qualche cosa, perché il linguaggio ha bisogno di proseguire.