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5 aprile 2017

 

Quando Heidegger parla dell’Esserci dice del parlante: l’Esserci è il parlante. E quando parla dell’orizzonte, entro il quale l’essere può manifestarsi o accadere, parla del linguaggio. E quando si riferisce al mondo, all’in-essere nel mondo, si riferisce a tutto ciò che c’è e ciò che c’è sono prevalentemente proposizioni, sono parole, anche le cose, certo, ma le cose ci sono perché, essendo preso nel mondo, queste cose fanno parte delle parole, del linguaggio. Questo giusto perché sia più semplice la questione tra l’Esserci e il parlante.

Intervento: ….

Ha parlato dell’antropologia, della psicologia, come anche della scienza. Ha detto che queste discipline muovono da supposizioni, che hanno un fondamento metafisico, cioè, muovono dall’idea che qualcosa sia e che sia come si crede che sia.

Intervento: … Levi Strauss diceva che si arriva all’ordine attraverso il disordine…

Heidegger direbbe, per esempio, che questa è una supposizione. In effetti, è impossibile una dimostrazione di una cosa del genere, siamo assolutamente certi che sia proprio così, oppure è una supposizione da cui si parte per costruire una teoria. È questo il discorso che fa Heidegger, non ce l’ha con la scienza in quanto tale, non è questo il punto né con la scienza, né con la psicologia né con altre cose. Lui pone una questione precisa, e cioè dice che queste discipline muovono da supposizioni che non interrogano, che non problematizzano; in questo senso le considera metafisiche, perché tutto il suo lavoro è sempre stato quello di tematizzare, quindi problematizzare ciascuna di queste supposizioni, cioè, interrogarle. Io muovo da una certa cosa che credo che sia così, che cosa mi fa pensare che sia così? Questo è fondamentale, non solo per Heidegger, è una questione che occorrerebbe riprendere e articolare molto bene perché, forse, è uno tra i “fondamenti” di ciò che stiamo facendo, cioè non c’è nulla che sia fuori della parola. Ora, questo ha delle implicazioni non da poco, perché se ogni cosa appartiene alla parola, al discorso, quindi, al logos, all’Esserci, al parlante, allora può trovare il suo fondamento soltanto all’interno, per così dire, del parlante e non al di fuori, tutte queste supposizioni sono, invece, come poste al di fuori del parlante, ed è la critica che faceva Heidegger alla psicoanalisi. I concetti fondamentali della psicoanalisi, per esempio i quattro di cui parlava Lacan, uno può inventarsene quanti ne vuole, questi concetti appaiono essere qualche cosa che non è quello che è per il parlante ma sono assunzioni che vengono poste, vengono asserite, come fuori dal parlante. È questo il problema, e cioè, o qualche cosa appartiene al linguaggio o è fuori del linguaggio, ci sono queste due possibilità. Se è fuori del linguaggio sorgono, però, dei problemi, perché non possono essere poste che come assunzioni, cioè, io dico che è così. È così perché è così, e bell’è fatto. In effetti, non posso provarlo in modo definitivo, in modo incontrovertibile, posso soltanto affermarlo. Se, invece, è nella parola, allora, certo, anche in questo caso non posso che affermarlo, però, lo affermo non perché è qualche cosa che è quello che è, per virtù propria, ma perché io ho deciso, perché mi serve, perché ho progettato che sia così, e lo so. Quindi, so che non è così per virtù propria, per una sua proprietà intrinseca, ma sono io che ho deciso di usarlo così, questa cosa mi serve per costruire certe proposizioni che mi interessano. Benissimo, però so che mi serve per questo, che non è così, non è fuori del linguaggio, e il fatto che sia nel linguaggio comporta una serie notevolissima di cose. Come accennavamo tempo fa, e cioè che qualcosa è quello che è, questo già de Saussure lo poneva, in virtù di una relazione differenziale con tutti gli altri elementi del linguaggio, quindi, è come dire che è quello che è a condizione che non sia quello che è. Oppure, quando dicevamo che per dire che cos’è una cosa sono costretto a dire ciò che quella cosa non è, quindi, quando affermo qualche cosa, mi trovo sempre come di fronte a un bivio: o affermo qualche cosa perché mi serve per qualche cos’altro, cioè, storicizzo questa cosa, questa affermazione, la pongo storicamente, cioè, in questo momento; oppure, descrivo un dato di fatto, uno stato di cose, che è quello che è, come dicevo prima, per virtù propria, e questa è propriamente la metafisica, cioè, lo stabilire che una cosa è così perché è così, perché ha in sé il principio e la causa.

L’obiezione che pone Heidegger rimane, si parte comunque da assunzioni. Cosa vuol dire questo? Che tutto ciò che si costruisce, a partire da queste assunzioni, presuppone che queste assunzioni, che sono state fatte, descrivano uno stato di cose, con una premessa, che è quella che è, dopo di che si costruisce tutta una serie di cose. È proprio questo che Heidegger interroga, questa premessa, questa assunzione, questa presupposizione, che si presuppone che sia così, e se non lo fosse? C’è anche questa eventualità.

A pag. 75 dice L’“esser-presso” il mondo, come esistenziale, non può mai significare qualcosa come l’esser-presente-insieme di cose che si presentano dentro il mondo. Quando lui dice esser-presso il mondo non significa che siamo vicini a questo posacenere. Non c’è qualcosa come un “essere l’uno accanto all’altro” di un ente detto “Esserci” e di un atro detto “mondo”. È importante perché sta dicendo che l’Esserci, il parlante, non è un ente insieme con tutti gli altri, uno fra i tanti enti, è un ente assolutamente particolare, è quell’ente tale per cui queste altre cose semplicemente presenti possono esistere. Questo è ciò che sta dicendo. È vero che a volte cerchiamo di esprimere la vicinanza di due semplici-presenze, dicendo, ad esempio: “La tavola sta presso la porta…” “La seggiola tocca la parete”. Ma non si può, a rigor di termini, tarlare di “toccare”; e non certo perché in fondo un’ispezione accurata accerterebbe sempre un interspazio fra la sedia e la parete… come vorrebbe la fisica: non c’è mai, in realtà, un punto di contatto. … ma perché la sedia non può toccare la parete per principio, anche nel caso che l’interspazio sia nullo. Il “toccare” presuppone che la parete possa essere incontrata “dalla” sedia. Dice che la parete non può essere incontrata dalla sedia, perché la sedia non è un parlante, solo un parlante può toccare qualcosa, può avvicinarsi a qualcosa, può separare, può fare tutte le cose che fa. Un ente può toccare cose semplicemente-presenti-nel-mondo solo se, fin dall’inizio, ha il modo di essere dell’in-essere, cioè solo se, già nel suo Esser-ci, gli è svelato qualcosa come un mondo in base al quale l’ente possa rivelarglisi al tocco e renderglisi così accessibile nel suo essere semplicemente-presente. È ciò che dicevo prima, soltanto il parlante può toccare qualcosa, questo aggeggio non può toccare il tavolo, perché per il posacenere non c’è il mondo in cui, in questo mondo, ci sia anche il tavolo, non può esserci, quindi, non può toccare. Due enti che siano semplicemente-presenti nel mondo… il posacenere e il tavolo… e siano inoltre in se stessi senza-mondo… non hanno un mondo perché non parlano…, non si possono mai toccare, e nessuno dei due può essere presso l’altro. L’aggiunta: “e siano inoltre in se stessi senza mondo” non poteva mancare, perché anche un ente come l’Esserci stesso, che non è senza-mondo, è tuttavia semplicemente-presente “nel” mondo; o, per essere esatti: con un certo diritto ed entro certi limiti, può essere considerato come soltanto semplicemente-presente. Anche quell’ente particolare, che è il parlante, l’Esserci, può essere considerato come qualcosa di semplicemente-presente; il fatto è che non è soltanto questo. A pag. 77 dice L’essere-nel-mondo proprio dell’Esserci, in conseguenza della sua effettività, si è già sempre distratto o addirittura disperso nelle varie maniere dell’in-essere. Ecco qualche esempio di queste maniere di in-essere: avere a che fare con qualcosa, approntare qualcosa, ordinare e curare qualcosa, impiegare qualcosa, abbandonare o lasciar perdere qualcosa, intraprendere, imporre, ricercare, interrogare, considerare, discutere, determinare… Questi sono i modi ma in tutti questi modi dell’in-essere sono tutti modi che alludono a che cosa? Al progetto, al voler fare qualcosa di qualcos’altro. Queste modificazioni dell’in-essere hanno il modo di essere del prendersi cura. Il prendersi cura è per Heidegger una questione importante perché è ciò che specifica l’essere nel progetto, l’essere progettati continuamente. Trovarsi nel progetto significa prendersi cura di qualcosa, nel senso di voler fare qualcosa di qualcosa. Il termine “prendersi cura” ha in primo luogo un significato prescientifico e può voler dire: condurre a termine, concludere, “venire a capo” di qualcosa. L’espressione può anche significare prendersi cura di qualcosa nel senso di “procurarsi qualcosa” … In contrapposizione a questi significati prescientifici e ontici … cioè, che tengono conto della cosa soltanto in quanto ente e tralasciano l’essere dell’ente … l’espressione “prendersi cura” è usata, nelle presenti indagini, come termine ontologico (esistenziale) indicante l’essere di un possibile essere-nel-mondo. (pagg. 77-78) Ci sta dicendo che il prendersi cura è qualcosa di specifico del parlante. Ciò che non riguarda l’Esserci, ciò che è semplicemente presente, non può prendersi cura di qualche cosa. L’in-essere non è quindi una “proprietà” che l’Esserci abbia talvolta sì e talvolta no, e senza la quale egli potrebbe essere com’è né più né meno che avendola. Non è che l’uomo “sia” e, oltre a ciò, abbia un rapporto col “mondo”, che occasionalmente assegna a se stesso. L’Esserci non è “innanzi tutto” per così dire un ente senza in-essere, a cui ogni tanto passa per la testa di assumere una “relazione” col mondo. Qui continua a ripetere sempre la stessa cosa, e cioè che quando parla di in-essere parla di essere nel mondo, cioè di essere in relazione con il mondo, ma per essere in relazione col mondo è necessario che sia un parlante, perché soltanto parlando può instaurare delle relazioni con le cose, mettere in relazione una cosa insieme con un’altra. Come dicevamo prima, questo posacenere non può mettersi in relazione con il tavolo. A pag 79 dice soltanto perché in possesso di questa essenziale costituzione, l’Esserci può scoprire esplicitamente l’ente che incontra nel mondo-ambiente, saperne qualcosa, disporne e avere un “mondo”. Volgendo un po' la cosa è come dire che il linguaggio è la condizione della conoscenza ma è altresì il limite invalicabile della conoscenza. L’affermazione ontica e comune che ‘uomo “ha un mondo-ambiente” costituisce, dal punto di vista ontologico, un problema. Quando io dico di avere un mondo è perché sono già quel mondo lì. Ecco perché dice che è un problema. A pag 80 dice …l’Esserci comprende ontologicamente se stesso (e quindi anche il proprio essere-nel-mondo) innanzi tutto a partire dall’ente (e dall’essere di esso) che esso non è e che esso incontra “all’interno” del suo mondo. L’Esserci, il parlante, si comprende da ciò che è semplicemente presente, dall’ente, cioè da qualcosa che di fatto non è, ma che incontra all’interno del suo mondo. Il parlante non è un ente qualunque, tuttavia, incontra gli enti soltanto all’interno del suo mondo o, se preferite, soltanto all’interno del linguaggio, soltanto lì può incontrare gli enti. Nell’Esserci stesso e ad esso questa costituzione d’essere è già nota in qualche modo. Sì, certo, perché la costituzione d’essere dell’Esserci, la sua essenza, per dirla in modo spiccio, è già da sempre compresa perché se io rifletto sull’Esserci è perché sono già nel mondo, perché sono già all’interno di una serie di relazioni che mi consentono di pensare l’Esserci, cioè, sono già nel linguaggio. Quando si tratta però di conoscerla, il conoscere che assume esplicitamente questo compito innalza se stesso, in quanto conoscenza del mondo, a rapporto esemplare dell’”anima” col mondo. La conoscenza del “mondo” (νοείν) cioè l’interpellanza e la discussione del “mondo” (λόγοϛ), fungono perciò da modo primario dell’essere-nel-mondo, senza che questo sia compreso come tale. Quando io conosco qualcosa, quando sono preso nella conoscenza di qualche cosa, io sono già quel mondo che sto comprendendo, che sto conoscendo, sono già quella cosa lì, anche se non me ne accorgo. Ma poiché questa struttura d’essere, ontologicamente inaccessibile, è tuttavia esperita onticamente come “relazione” fra un ente (il mondo) e un altro ente (l’anima), e poiché l’essere viene innanzi tutto inteso attenendosi ontologicamente all’ente come a un ente intramondano, si tenta di concepire questa relazione fra enti sul fondamento di tale ente e nel senso del suo essere, cioè come un esser-semplicemente-presente. Quando io mi rapporto all’ente non necessariamente mi pongo una interrogazione intorno all’essere dell’ente, non necessariamente mi accorgo che io posso mettermi in relazione con quell’ente perché sono un parlante, perché, in quanto Esserci, non è che mmi trovi in quella relazione ma sono già la relazione. In questo senso, per potere dire che c’è un mondo io devo già essere quel mondo. Poco dopo La costituzione dell’Esserci è colta ormai soltanto nella forma di un’interpretazione inadeguata e come qualcosa di ovvio. Essa funge allora da punto di partenza “evidente” per i problemi della dottrina della conoscenza o della “metafisica del conoscere”. Che cosa c’è infatti di più evidente dell’affermazione che un “soggetto” si rapporta a un “oggetto” e viceversa? Questa “relazione fra soggetto e oggetto” diviene un presupposto necessario. Ecco la presupposizione. Ma tutto ciò, anche se incontestabile nella sua effettività, anzi proprio per questo, resta un presupposto fatale se la sua necessità ontologica e, prima ancora, il suo senso ontologico sono lasciati nell’oscurità. Ecco qui la questione, da cui siamo partiti. Dice che cosa c’è di più evidente della relazione tra soggetto e oggetto. Sì, certo, in effetti sembra funzionare così, tuttavia, proprio perché incontestabile, resta un presupposto fatale, fatale nel senso che non lascia scampo se la sua necessità ontologica, il suo senso ontologico, viene lasciato nell’oscurità. Che cosa vuol dire senso ontologico? È ciò che altrove chiama problematizzare, è il problematizzare che punta al senso ontologico, cioè al domandarsi di questa presupposizione: io presuppongo un soggetto e un oggetto, ma lo presuppongo e fatalmente, una volta che l’ho presupposto, vado avanti lungo questa via, perché funziona, come ad esempio la tecnica, quindi, non ho nessun motivo per interrogarmi, non ho nessun motivo per mettere in discussione, per problematizzare, questo rapporto tra soggetto e oggetto, che diventa a questo punto automatico, naturale, diventa la natura delle cose. Poiché la conoscenza del mondo è assunta per lo più ed esclusivamente come la forma esemplare di in-essere (e non soltanto nella teoria della conoscenza, visto che il comportamento pratico è inteso come il comportamento “non” teoretico e “ateoretico”), e poiché questo primato del conoscere impedisce la comprensione del suo modo di essere più proprio, l’essere-nel-mondo deve essere ulteriormente analizzato in vista della conoscenza del mondo, e deve essere reso visibile come “modalità” esistenziale dell’in-essere. (pagg. 80-81) Questo è ciò che segue a ciò che diceva prima, il fatto di lasciare nell’oscurità il senso ontologico di qualche cosa. Dice del primato del conoscere, Heidegger non pone il primato del conoscere, pone il primato dell’Esserci, del parlante, se c’è parlante allora c’è conoscere, ma se io parto dalla conoscenza come presupposto non la interrogherò mai, non mi accorgerò mai che la conoscenza è possibile a condizione che esista il linguaggio, che esista il parlante, cioè, l’Esserci. Al paragrafo successivo, sempre a pag. 81, Se l’essere-nel-mondo è una costituzione fondamentale dell’Esserci, … Il parlante è tale perché è nel mondo ma, lo ha specificato bene, non come un ente fra gli enti, non come una cosa fra le tante, ma in un modo assolutamente particolare, cioè, il parlante è nel mondo in quanto è tutte quelle cose che sono nel mondo, che incontra nel mondo, è tutte quelle cose, questa è la sua storicità. Un suo coprimento totale sarebbe incomprensibile, tanto più che l’Esserci dispone di una comprensione di sé, per indeterminata che sia. L’Esserci, il parlante, ha già da sempre una comprensione sennò non sarebbe un parlante, per quanto indeterminata, cioè, per quanto la persona non ne sappia nulla di tutto ciò, resta il fatto che comunque comprende qualche cosa, comprende di essere, comprende di fare, comprende che è in mezzo alle cose, comprende un sacco di cose, pur non sapendo nulla. Ma appena il “fenomeno della conoscenza del mondo” è colto, subito cade in una interpretazione formale ed “estrinseca”. Lo prova il fatto che ancora oggi il conoscere è assunto come una “relazione tra soggetto e oggetto”, il che è tanto “vero” quanto vuoto. Soggetto e oggetto non coincidono con Esserci e mondo. Anche nel caso che fosse ontologicamente possibile determinare primariamente l’in-essere in base all’essere-nel-mondo inteso come conoscere, il compito che si imporrebbe immediatamente sarebbe pur sempre quello della caratterizzazione fenomenica del conoscere in quanto essere in un mondo e in rapporto a un mondo. Qui dice che anche se fosse possibile determinare l’in-essere per l’Esserci in base all’essere-nel-mondo come conoscere, quindi, conoscere come un semplice essere-nel-mondo (sono nel mondo, quindi, conosco le cose che vedo), anche in questo caso la questione del conoscere rimane aperta. Come faccio a conoscere qualcosa? È il problema che pone qui come altrove della relazione tra soggetto e oggetto: il soggetto conosce l’oggetto. Certo, ma come? Come fa a conoscerlo? Come fa a sapere che conosce un oggetto? Questo è ciò che di “fatale” accade quando si pensa in questi termini: se io mi baso sulla relazione soggetto e oggetto sembra che tutto vada bene, che tutto funzioni, ma non ho capito niente del come, del modo in cui il soggetto comprenderebbe l’oggetto e, quindi, di fatto, non so nulla del comprendere, assolutamente niente. Se si “riflette” su questo rapporto d’essere… rapporto tra soggetto e oggetto, che non coincide con l’Esserci e il mondo, perché il parlante non coincide con tutte le cose che lui stesso costruisce. È tutte queste cose ma, dice Heidegger, c’è comunque una differenza perché queste cose non sono l’Esserci ma io sì. … in esso risulta dato in primo luogo un ente, detto natura, come ciò che viene conosciuto. Questa è la visione corrente delle cose. In un ente di questo genere non si incontra il conoscere stesso. Lui si sta interrogando su che cosa sia il conoscere. Io vedo questa cosa qui in natura ma il fatto di vedere questa cosa non mi dice nulla del conoscere, io posso dire di conoscere ma il conoscere in quanto tale rimane assolutamente oscuro. Se esso mai “è”, … il conoscere… lo sarà in quanto appartenente all’ente che conosce. Cioè, a me, al parlante. Ma anche in questo ente, nella cosa-uomo, il conoscere non è riscontrabile come una cosa-presente. Non è comunque riscontrabile esteriormente come ad esempio le proprietà corporee. Siccome, dunque, il conoscere è proprio di questo ente… Il parlante… non però come sua qualità esteriore, esso sarà necessariamente “interiore”. (pagg. 81-82) Sta dicendo qui in modo un po' intorcolato che questo conoscere non è qualcosa che viene da fuori, che appartiene alla cosa e che in qualche modo si trasmette, ma è qualcosa di intrinseco, lui dice interiore, al linguaggio; potremmo dire che è strutturale al linguaggio. Come può il conoscere avere un oggetto? Come dev’essere pensato questo oggetto affinché il soggetto possa conoscerlo senza dover tentare il salto in un’altra sfera? Lui si immagina questa cosa per cui la domanda è come può un soggetto, che è un qualche cosa, fare un salto verso l’oggetto, che è un’altra cosa. Che cosa consente il passaggio? Non è poi così lontano dal discorso che faceva Aristotele, il discorso del terzo uomo, e cioè che tra l‘uno e l’altro occorre che ci sia un mezzo che consenta la relazione tra i due, però poi occorre un altro elemento ancora che metta in relazione me e quell’altra cosa che utilizzo come mezzo, e così via all’infinito, cosa che appunto rende la conoscenza impossibile. In tutte le varie forme che questa impostazione può assumere è sempre lasciato da parte il problema del modo di essere del soggetto conoscente… Cioè, lui dice che tutte le volte che ci si pone questo problema mai ci si interroga sul modo di essere di questo soggetto; interrogarsi qui significa intendere che questo soggetto è il parlante. …pur essendo chiamato continuamente in questione in termini impliciti, quando si tratta del suo conoscere, la sua modalità di essere. Andiamo un po' avanti e passiamo direttamente al Capitolo Terzo La mondità del mondo, paragrafo 14 L’idea della mondità del mondo in generale. Dice L’essere-nel-mondo deve in primo luogo esser chiarito rispetto al momento strutturale “mondo”. L’esecuzione di questo compito può sembrare così banale da incoraggiare la convinzione di poter continuare a sottrarvisi. Che cosa può significare una descrizione del “mondo” come fenomeno? Far vedere ciò che si manifesta con l’”ente” intramondano. Questo significa porre il mondo come fenomeno: mostrare ciò che si manifesta con questo ente intramondano. L’ente è sempre intramondano. Il primo passo consiste allora nell’enumerazione di tutto ciò che c’è “nel” mondo: case, alberi, uomini, montagne, astri. Possiamo descrivere l’”aspetto” di questi enti e raccontarne le modificazioni. Ma tutto ciò rimane manifestamente un “affare” prefenomenologico, privo di ogni rilievo fenomenologico. La descrizione resta appiccicata all’ente. È ontica, mentre ciò che si cerca è l’essere. “Fenomeno”, in senso fenomenologico, è stato formalmente definito come ciò che si manifesta in quanto essere e struttura d’essere. Cercare il fenomeno è cercare l’essere dell’ente. Porre qualcosa come fenomeno è porre l’essere, la struttura d’essere dell’ente, non una sua caratteristica, una sua proprietà. Descrivere fenomenologicamente il “mondo” significherà allora: svelare l’essere dell’ente presente nel mondo e fissarlo in concetti categoriali. L’ente che è nel mondo sono le cose, le cose naturali e le cose “fornite di valore”. Le cose fornite di valore sono le cose di cui vale la pena di parlare, di cui vale la pena occuparsi, ciò di cui un progetto si occupa. Questo ci richiama a cose che dicevamo tempo fa. Se qualcosa è provvisto di valore allora ci indica la direzione che dobbiamo seguire, perché soltanto ciò che ha valore merita di essere perseguito. Su che cosa abbia valore, beh, su questo Nietzsche l’ha detta lunga, ha precisato che cosa ha valore: ha valore unicamente ciò che consente il superpotenziamento. Mettendo tra virgolette la frase “fornite di valore” Heidegger la mette in evidenza, quindi, non è impossibile che gli echeggiasse qualche cosa dicendo che l’ente sono le cose naturali e le cose “fornite di valori”. Sorge così il problema dell’essenza delle cose. E siccome l’essenza delle cose è in generale determinata sul fondamento delle cose naturali, il tema primario diviene l’essere delle cose naturali, la natura come tale. Il carattere d’essere fondante delle cose naturali, delle sostanze, assunto come fondamento di ogni atro, è la sostanzialità. Qual è il suo senso ontologico? Abbiamo così avviato la ricerca in una direzione problematica precisa. Qual è il senso ontologico della sostanzialità? Sappiamo cosa intende con senso ontologico. Il senso ontologico è quello che si produce nel momento in cui qualcosa si problematizza, cioè, si interroga, allora sorge il senso ontologico, vale a dire, come si situa questa cosa, potremmo anche usare questo termine: che valore ha all’interno del progetto, che valore ha per il parlante. Ma si tratta di una ricerca ontologica intorno al “mondo”?... anche se si raggiungesse la più trasparente esplicazione dell’essere della natura in base ai principi fondamentali che la scienza matematica della natura fornisce su tale ente, questa ontologia non coglierebbe affatto il fenomeno “mondo”. La natura è essa stessa un ente che si incontra nel mondo, ed è scopribile in modi e gradi diversi. Sta dicendo semplicemente che la natura è sempre stata posta come fondamento della conoscenza, De rerum natura, però, dice, quando si chiede qual è il suo senso ontologico, sta dicendo che se io considero la natura come un insieme di enti, accostati fra loro, questo non dice assolutamente nulla del fenomeno mondo, perché in questo caso mi pongo dal di fuori, questa è l’idea di Heidegger, e guardo il mondo, come se io non fossi già parte di quel mondo che sto guardando. Parlare del mondo come fenomeno significa porlo come un qualche cosa che è già all’interno del mio stesso guardare, è già il mio stesso guardare, è quel mondo che sto guardando. Questa è la questione che sta ponendo Heidegger e che è la più interessante, è centrale in tutto ciò che va dicendo. A pag. 86 dice Né la descrizione ontica dell’ente intramondano né l’interpretazione ontologica dell’essere di questo ente investono come tali il fenomeno del “mondo”. Sta dicendo che posso descriverlo come mi pare, rimane il fatto che In ambedue questi approcci all’”essere obiettivo”, il fenomeno del “mondo”, se pur in modi diversi, è già “presupposto”. Perché, come dicevo prima, è come se lo ponessi fuori di me ma per poterlo porre fuori di me debbo presupporlo, e cioè compiere quella stessa operazione che critica nella scienza: io suppongo un qualche cosa, intanto suppongo che sia, e che sia come io credo che sia, come voglio che sia, dopodiché comincio ad attribuirgli tutta una serie di cose che io voglio che siano. Questa questione è una questione centrale in qualunque riflessione, in qualunque articolazione, in qualunque pensiero, e cioè il tenere conto, e su questo Heidegger insiste ininterrottamente, che il mondo, che io mi illudo di osservare, sono già io, perché questo mondo non fossi già io non potrebbe in alcun modo esistere, e perché esista occorre che ci sia il parlante, cioè, che ci sia il linguaggio. Il mondo è tutto ciò che il linguaggio costruisce. Nel testo di Heidegger il linguaggio potremmo accostarlo all’aperura, a quell’orizzonte all’interno del quale le cose possono apparire, possono darsi, e il linguaggio è quella struttura che consente alle cose di essere.