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5-3-2008

 

L’amore dello Psicanalista è il titolo della prima conferenza, qualcuno ha qualche suggerimento su questo tema?

Intervento: è un tema abbastanza conosciuto come luogo comune questo amore che interviene a volte nei confronti dello psicanalista però qui si parla anche dell’amore dello psicanalista cioè di ciò che permette questo percorso e in fondo “La paura di amare” vuole riprendere questo tema perché la paura di amare è la paura di lasciarsi andare a questo amore… in questo senso volevo porre la questione ciò che permette il percorso analitico perché non è solo la storia di un amore che può intervenire ma tutte le implicazioni che favoriscono appunto il percorso, il percorso, la costruzione della persona che deve cominciare a pensare, deve imparare a pensare… già Freud, mi viene in mente nella storia di Sabina Spilrein questo amore che aveva spaventato Jung, Freud aveva ripreso la questione e cercato di riportarla nei termini in cui doveva essere riportata dicendo che è ben altra la questione in gioco, la questione dell’amore dello psicanalista è quello di costruire un interlocutore che sappia rispondere a questo amore quindi la possibilità infinita di un pensiero infinito, io la porrei in questi termini anche se vogliamo raccontare qualcosa per il luogo comune, luogo comune che teme questa dipendenza che può intervenire, la dipendenza dallo psicanalista… però ecco l’infinito che spalanca qualsiasi porta è data proprio dalla possibilità di diventare un valido interlocutore… e la paura di amare è proprio la paura di accogliere questo amore, amore per il discorso, accogliere la responsabilità di questo amore e di non avere più bisogno della paura per vivere…

Certo, altri che abbiano qualche suggerimento per questo titolo?

Intervento: capire che è l’amore per la propria persona, capire che è un passo da compiere quello di mettersi in relazione con se stessi… affidarsi come primo passo può essere importante, non avere paura di sentire le proprie emozioni, la propria persona, convivere con i propri pensieri…

Sicuramente sì, in effetti si tratta dell’amore per il discorso, del prendersi cura del discorso, sia del proprio quanto di quello altrui, anzitutto del proprio come condizione per potere prendersi cura, cioè occuparsi anche del discorso altrui. Se la persona non intende il proprio discorso, non sa nulla del proprio discorso sarà difficile che possa occuparsi del discorso altrui. Quindi l’amore per il discorso, per il pensiero e per ciò che lo produce, amore nell’accezione di occuparsi di qualcosa, occuparsi primariamente di qualcosa, anche nell’accezione comune l’amore è occuparsi soprattutto di qualcuno cioè del suo bene come si suole dire, della sua felicità, nel luogo comune l’amore è questo e quindi occuparsi del discorso significa amarlo e significa anche di conseguenza metterlo nelle condizioni di proseguire cioè di fare ciò che lo rende felice, che lo soddisfa, proseguire ma avendo cura di sé e avere cura di sé non è tanto ciò che pensava Heidegger, anche ma non soltanto, ma soprattutto ascoltarsi, questo sicuramente, e ascoltarsi comporta l’occuparsi delle pieghe del proprio pensiero, di ciò che il pensiero produce e interrogarlo, dare al proprio pensiero una dignità e gli si da una dignità facendo in modo che il proprio pensiero si occupi di se stesso cioè delle sue condizioni e del come si muove. D’altra parte è ciò che occorre che faccia l’analista, occuparsi del proprio pensiero, fornire estrema dignità al pensiero vale a dire porre le condizioni perché questo pensiero abbia gli strumenti per pensare se stesso e mano a mano acquisire, affinare questi strumenti, dare al proprio pensiero e di conseguenza a quello altrui il maggior numero di possibilità, di occasioni di riflessione, di considerazioni, insomma una cura e una attenzione estrema al discorso e quindi al pensiero. In una delle ultime conferenze già si era accennato alla questione, e cioè al fatto dell’innamoramento nei confronti dello psicanalista, è di fatto una prima approssimazione all’innamoramento rispetto al procedere del proprio discorso, alla ricchezza e alla dignità del proprio discorso che si ravvisa provvisoriamente talvolta nello psicanalista, come se fosse lui la condizione del proprio pensiero, cosa che non è naturalmente, però in alcuni casi può capitare questa sovrapposizione e allora l’oggetto d’amore non è più il proprio pensiero, il proprio discorso ma lo psicanalista, per un equivoco. È ovvio che uno psicanalista non è che si spaventi per una cosa del genere come fece Jung, il suo compito è condurre la cosa là dove è necessariamente indirizzata, in fondo l’obiettivo di ciascun amore è l’amore per la verità, e la deve essere condotto perché è sempre comunque lì che è indirizzato anche se la persona non se ne accorge, fare in modo che se ne accorga ecco questo è il compito dell’analista e può fare questo perché ama il discorso, se non lo amasse non gliene importerebbe niente del discorso né del proprio né di quello altrui, come avviene per lo più fra gli umani. Amare quindi come avere estrema cura, estrema attenzione per il discorso come la cosa più importante; qual è il percorso che conduce a tutto ciò? L’analisi ovviamente, ma una analisi che deve porre le condizioni perché la persona si accorga di che cosa è fatta e di cosa è fatta ciascuna cosa e occorre che giunga all’estrema semplicità, tutto diventa semplice al momento in cui ci si rende conto di che cosa ciascuna cosa è fatta, che cosa la muove, dove va e da dove arriva, se non lo si sa allora tutto diventa complicato e sorgono i problemi, se no letteralmente non può sorgere nessun problema, non tanto quelli che si incontrano nella vita quotidiana e che hanno sempre una soluzione, ma sono quelli che le persone si creano che non hanno soluzione e non ce l’hanno perché non devono averla, non avendo una soluzione ecco che possono essere protratti all’infinito…

Intervento: una grossa attenzione al proprio discorso cioè giocarci con il proprio discorso e questo almeno nel luogo comune dovrebbe portare a una vita gioiosa così sono le intenzioni delle persone… giocarci con il proprio discorso cioè divertirsi…

Anche certo, perché no? Giocare con il proprio discorso è possibile nel momento in cui è possibile tenere conto di ciò che si sta facendo ovviamente, e cioè che si tratta, che si è presi continuamente, costantemente e irreversibilmente in giochi linguistici, e un gioco di per sé non travolge, non richiede un assenso incondizionato perché è un gioco di cui si conoscono le regole e che non prevede alcuna necessità di credere in qualcosa o in qualcuno, sì l’analista fa anche questo insegna a giocare il gioco più straordinario e incredibile che sia mai stato giocato, il gioco del linguaggio, mostrando di volta in volta quali sono le regole, quale il suo funzionamento, quale gioco la persona sta facendo in quel momento senza accorgersi, cioè senza accorgersi che si tratta di un gioco…

Intervento: se non se ne accorge non si diverte…

Sì, se non è un gioco diventa una cosa pesante e la responsabilità si trasforma in colpa, e allora ecco che diventa tutto pesantissimo, faticoso e perché dovrebbe esserci la paura di amare il proprio discorso? A questo potrebbe rispondere Beatrice, cos’è che spaventa così tanto?

Intervento: accogliere l’infinita possibilità che ha il proprio discorso, l’intelligenza è controbilanciata da un controllo totale perché questa possibilità rimanga sempre in potenza, come direbbe Aristotele, mai in atto nel senso che è una cosa che deve rimanere come desiderio perché solo come desiderio può produrre quella sorta di sogno, l’idea è molto probabilmente quella che una volta raggiunta la mancanza di padronanza allora non ci sia più il desiderio e quindi come la ricerca della verità se io trovo la verità…

È un aspetto, sì il fatto che amando il proprio discorso si toglie la possibilità di soffrire, per esempio, e questo per gli umani è sempre stato un grosso problema, però c’è anche un altro aspetto che Beatrice sottolineava prima cioè la paura della dipendenza. Ci sono persone che enunciano una cosa del genere, la paura di dipendere dall’analista “poi non so più cavarmela da solo” ora queste persone enunciano di fatto il desiderio di dipendere da qualcuno e se non dipenderanno dall’analista dipenderanno sicuramente da qualcun altro, non c’è nessun dubbio a questo riguardo, cercano la dipendenza, però essendo ciò che desiderano più fortemente non devono accogliere la responsabilità di una cosa del genere, di conseguenza la enunciano come un timore, come un pericolo che si verifichi ciò che desiderano…

Intervento: e questo serve a produrre una quantità di emozioni e sensazioni e quindi mantenere vero quell’ideale…

Sì, prendersi cura del proprio discorso cioè amare il discorso, la parola, il linguaggio, comporta anche non avere più la possibilità di avere paura perché se amo il discorso so di che cosa è fatta la paura, in un certo senso mi trovo ad amare la paura nel senso che la paura è una sequenza di proposizioni, ma una volta che è posta come una sequenza di proposizioni perde tutta la sua connotazione tragica e diventa un gioco come qualunque altro, quindi non credibile e di conseguenza cessa quella cosa che comunemente si chiama paura necessariamente. Sandro qualche suggerimento su questo tema?

Intervento: pensavo anch’io alla questione del prendersi cura, per esempio, come un’alternativa al curarsi… c’è anche tutta la questione estetica per quanto riguarda il corpo, la cura del corpo che è una cosa molto alla moda… il prendersi cura di sé è diverso…

Sì, non è una cosmesi certo…

Intervento: sembra quasi che la cura del corpo, il curarsi il modo in cui la intendevo io all’inizio sia proprio il modo per estromettere il discorso perché? Perché il prendersi cura del corpo si rifà a che cosa? al discorso comune a una sorta di conformismo quindi è un discorso al quale io in qualche modo devo aderire e quindi significa rinunciare anche alla particolarità del proprio discorso, il prendersi cura è proprio come prima istanza della particolarità del proprio discorso quindi accogliere… mi veniva in mente che amare il proprio discorso significa anche giocare con la propria storia nel senso che spesso si evita di raccontarsi la propria storia come se fosse già stata scritta da una parte è come se si temesse qualcosa, come se non si sapesse dove può portare una cosa di questo genere… c’è una sorta di rinuncia alla propria storia in qualche modo… quasi a volersene disfare spesso e talvolta ci si rivolge all’analista perché è un po’ come fosse lui a doverla scrivere questa storia “spiegami tu, raccontami tu la mia storia anziché essere io a raccontarla… devi essere tu a raccontarla nel modo corretto… ma il fatto che non si riesca a dare un senso alla propria storia è perché in questa storia qualche cosa funziona come ostacolo, qualche cosa che si impone come una barriera come se non potesse andare avanti ecco che allora l’unico modo per andare avanti è rinunciare a questa storia trovarne un’altra che è poi quella comune ed ecco che allora subentra… questo tentativo di fare a meno della propria storia che invece è sempre lì che chiede solo di essere giocata… raccontare la propria storia significa aprirsi all’infinito perché questa storia non termina, ha infiniti modi di raccontarsi magari sta attraversando una logica che è quella del suo discorso, per esempio, però importante per esempio è accorgesi di questa possibilità di infinito che non è un pericolo ma è la possibilità del linguaggio, è il linguaggio che può dire all’infinito qualunque cosa, questo mi sembra un aspetto interessante innamorarsi proprio della propria storia… spesso ci si innamora della propria storia raccontandola al passato anche magari quando si chiacchiera con gli amici senza accorgersi che si sta costruendo un’altra storia, senza accorgersi che questa cosa nove volte su dieci non è mai accaduta nei termini in cui la si racconta… ci si innamora magari del passato del raccontare quello che è stato… innamorarsi del racconto, di ciò che la storia produce un’altra storia continuamente senza fermarsi a quella che è stato ma nel suo divenire… mi sembra che ci siano due modi di prendersi cura che è poi anche il modo di porre la questione della salute in termini differenti… la cura del corpo è fatta in nome della salute però è una salute viziata come qualche cosa di molto meccanico, è il funzionamento di una macchina, talvolta una macchina dura di più perché chi la guida la sa guidare se uno la strapazza…

È una metafora, e in una conferenza potrebbe essere comunque un esempio…

Intervento: anche se tutto quello che viene detto nel luogo comune va contro a questa metafora per stare bene occorre fare quello che dice l’autorità in merito per cui… penso che il controllo sia la non responsabilità, non essere responsabile della propria storia perché è molto più comodo che uno non ne parli della sua storia… è meglio che sia un altro a raccontarla… perché puoi sempre dire non è così e invece se te la racconti non puoi mentire a te stesso…

Intervento: io parlavo anche degli impedimenti e cioè delle regole del gioco che uno sta facendo perché molte volte non si tratta di raccontarsi la storia vera o falsa nei confronti di te stesso o dell’altro si tratta proprio di intendere le regole del gioco che si va facendo perché sono queste regole che non fanno trovare soluzioni perché le soluzioni sono fatte in modo contrastante… mi veniva in mente quel prendersi cura, mi veniva in mente l’inquisitore che si prende cura della strega…

Certo, è un modo anche quello di occuparsi di qualcuno…

Intervento: come se in quel controllo di cui parlavo prima nella paura di amare ci fosse questo prendersi cura nei confronti della strega e quindi il controllo assoluto perché rimanga strega, rimanga la magia…

Gli inquisitori dovevano seguire certe regole per evitare di essere ammaliati dalle streghe…

Intervento: è importante la questione del controllo perché nell’anoressia è importante… è il perdere il controllo perché la paura di amare ha a che fare con questo… la necessità di avere un controllo sul corpo al punto di distruggerlo deve essere sotto controllo… la società è questo, il discorso comune chiede questo… la realizzazione di sé, il pieno controllo di sé, l’assenza di emozioni, il controllare le emozioni tutto dedicato a questa mitologia del controllo sul corpo e sulla persona… come se fosse sempre in agguato qualche cosa. Chi è questo nemico? Cos’è che in certo qual modo fa perdere il controllo? È una fantasia per ciascuno è una fantasia chissà qual è, sembra quasi universale…

Sì, lo è, l’invito a mantenere sempre il controllo proviene dal discorso paranoico soprattutto il quale è circondato da nemici e quindi qualunque cosa è come mettere un’arma nelle mani di un nemico e allora non resta che rimanere controllati…

Intervento: come se il proprio corpo fosse in qualche modo ostaggio del linguaggio, come se il linguaggio… arginare il pensiero, il controllo del pensiero…

Lungo l’analisi si tratta di volgere il controllo in ascolto, anziché controllare tutto ascoltare ogni cosa senza controllarla, non c’è niente da controllare ma da ascoltare, e questo disporsi all’ascolto è disporsi a qualunque cosa, qualunque senso il discorso prenda, qualunque direzione prenda, lasciare che prenda qualunque direzione in questo senso non avere paura dei propri pensieri…

Intervento: nei pensieri finché funzionano certe fantasie tipo l’abbandono, tipo l’interesse che si deve suscitare nell’altro, sedurlo beh ma a cosa serve al linguaggio sedurre l’altro? Non risultare falso nei confronti dell’altro nel senso che in fondo il linguaggio è fatto di elementi e funziona in un certo modo e se io non so di essere linguaggio, non so di essere di essere discorso e allora funzionano queste fantasie quello che dico vale solo per l’altro non vale per il mio discorso, non valendo per il mio discorso ma essendo una cosa tra le tante che dico, una cosa tra le altre ma essendo estremamente importante rispetto al discorso dell’altro… ovviamente non posso risultare falso… nei confronti dell’altro da qui tutta l’estrema cura del corpo o la sua distruzione, da qui la necessità di attrarre l’attenzione, dell’essere importante per qualcuno è proprio una questione di linguaggio…

Intervento: forse per evitare una sorta di catastrofe… io penso alla questione della società, la società deve essere ordinata, deve essere regolamentata perché l’alternativa a questa cosa che cos’è? È il disordine, è la catastrofe, l’abisso e allora mi chiedo se per ciascuno la cosa non funziona allo stesso modo, io non devo perdere il controllo perché rischio il disordine rischio la catastrofe… immaginati l’idea di una società senza regole, qual è l’idea comune? Il caos… forse la questione che riguarda il potere perché è il potere su di sé è un potere limitante… è come se ciascuno avesse paura della propria infinita libertà, come se venisse fuori il desiderio allo stato puro…

Intervento: però questa rappresentazione che si fa il pensiero è concretato da una storia di distruzione e quindi ritorniamo alla catastrofe, ritorniamo a tutti questi luoghi comuni…

Quando crollò il muro di Berlino ci furono alcuni che temettero proprio questo: non ci sono più i due blocchi contrapposti e adesso succederà l’ira di dio perché il mondo è fuori controllo mentre era controllato da due cose equidistanti, equivalenti, equipotenti…

Intervento: sì però tutto questo ha questo grande potere di fascinazione e quindi di verità perché nessuno può considerarsi discorso, ma il discorso è un mezzo che ha un corpo per dire delle cose ma nessuno ha la possibilità di fare i conti con il proprio pensiero perché è limitato dal pensiero dell’altro in qualche modo da un altro corpo e questo è naturale siamo sempre lì e perché funziona così questa storia? Per i limiti del pensiero, un pensiero limitato dalla vista cioè qualcuno mi deve vedere perché se non mi vede allora io non esisto, io non ci sono e quindi sono falso, questo per intendere proprio il funzionamento del linguaggio che è fatto di elementi linguistici che funzionano presi in un sistema verofunzionale, porte che si aprono e che si chiudono e se io sono falso allora non c’è più nulla da dire, non ho più possibilità di parola…

Da alcuni viene enunciato proprio in questi termini, se nessuno mi desidera, se nessuno mi vuole allora non esisto, sono niente…

Intervento: non è possibile che sia quello che raccontavo io prima che senza limiti immagino una sorta di massacro universale? è un po’ una fantasia ossessiva quella del bisogno di controllo mentre la paranoia la utilizza…

Il paranoico il controllo lo esercita sull’altro…

Intervento: ma l’altro ha bisogno di essere controllato…

Infatti il paranoico e l’ossessivo vanno spesso a braccetto, uno viene controlla e l’altro viene controllato…

Intervento: infatti la rivoluzione, diceva Lacan, tolto un padrone se ne fa un altro perché il popolo ha bisogno di essere controllato… alla fin fine poi il controllo non è altro che la propria verità tutto sommato cioè io sto bene in quanto mi controllo perché ritengo che controllando certe mie manifestazioni sia qualcosa di giusto da farsi… alla fin fine tutto questo controllo è solo un senso al proprio discorso…

Intervento: secondo me la questione dell’assenza di controllo, la catastrofe ecc. è stata scritta da Freud in Totem e Tabù poi alla fine il discorso è quello… anche questa idea dell’incesto in qualche modo l’ha scritta in quel modo chiaramente questa è una fantasia però tutto sommato è sempre un’idea di far fuori il padre…

Sì lui non ha potuto andare oltre, infatti il padre lui lo pone come la legge, ciò che è scritto, ciò che deve essere, quindi la verità assoluta, se io ho la verità assoluta o se qualcuno mi impone la sua verità allora per imporre la mia devo eliminarlo, è il sistema più radicale e più tradizionale, una guerra di religione in Totem e Tabù descrive la guerra di religione tra verità, se io conosco la verità e l’altro dice un’altra cosa deve essere eliminato…

Intervento: quando dice che ucciso il padre quello poi funziona da barriera al godimento in un certo senso è come dire che questa verità che ad un certo punto si è affermata abbisogna di qualche cos’altro che in qualche modo la garantisca

Intervento: ucciso il padre interviene l’amore per il padre, la sua nostalgia…

Intervento: perché altrimenti questa verità non ha più nulla da combattere e se non ha più nulla da combattere non c’è più nulla che la garantisca…

La questione è complessa: qualcuno scalza altri dal potere e si mette al suo posto, però bisogna garantire questo potere, come? Il sistema più rapido è quello di invocare la volontà di dio, il secondo è la volontà del popolo il quale popolo è soggetto a continui malumori mentre la grazia di dio non è soggetta a malumori. Laurent Dispot ha scritto un saggio di qualche interesse La machine à terreur proprio sulla necessità di ciascuno stato, di ciascun governo, nazione, istituzione, di fondare il proprio potere su qualcosa di sacro, se no non è legittimato né legittimabile in nessun modo, è soltanto un abuso dettato dalla forza bruta…

Intervento: legittimato forse da una forza invincibile…

Come quella di dio alla quale ci si è approssimati negli anni, 50/60 con la forza delle bombe atomiche che ha pareggiato quella di dio, la catastrofe finale…

Intervento: c’è sempre la questione del potere nelle questioni che stiamo affrontando…

Sì, il potere di imporre la propria verità, come dire: io sono la verità, mettersi al posto di dio, non era lui che diceva “io sono la via, la verità, la vita”? Se sono io la verità chiunque si opponga è nell’errore e quindi deve essere ricondotto alla verità. Dobbiamo considerare attentamente la questione del controllo sul proprio discorso, già da Freud in poi è considerato una prerogativa del discorso ossessivo ma non soltanto, diciamo che il discorso ossessivo ne fa una caricatura più evidente…

Intervento: stavo considerando la responsabilità in questo controllo è controversa di fronte alle questioni portanti del proprio discorso quelle che mantengono lo statuto di sub specie æternitate, questo riportare alla responsabilità e quindi al discorso e a “qualsiasi cosa è un elemento linguistico” in certi casi necessita di un esercizio ferreo…

Sì perché la paura della perdita del controllo cosa comporta? Perdita del controllo di che? Cosa deve controllare? Sembrerebbe così d’acchito le proprie certezze, le proprie sicurezze, è questo che generalmente si teme di perdere, la propria verità forse? Se ci atteniamo alla struttura del linguaggio non dovrebbe essere altro che questo, il timore che ciò su cui si è fondata la propria esistenza, la propria verità possa rivelarsi infondato...

Intervento: d’altra parte questo controllo è dato dalle regole della premessa e quindi dalla credenza che sostiene il discorso…

Intervento: e come se ciascuno si accorgesse che ciò che pensa adesso stavo pensando all’anoressica… come se la propria verità andasse contro a quella, per esempio, dei propri genitori della madre, del padre ecc. e in qualche modo cercasse una sorta di compromesso come dire accorgersi dell’irrinunciabilità del proprio desiderio perché al desiderio non si rinuncia e nello stesso tempo non si possa rinunciare all’amore verso i genitori, per esempio, e quindi questo crea una sorta di contraddizione perché i genitori sono la legge… una sorta di contraddizione che il “disagio” tra virgolette può essere la soluzione… alla base c’è il fatto che al proprio desiderio non si rinuncia quindi alla propria verità…

Bene, proseguiremo mercoledì, riflettete su queste questioni, sono importanti.