5 marzo 1998
Questa sera rifletteremo su come si formano le credenze, per parafrasare Peirce, su come avviene, quale struttura le consente. L’altra volta abbiamo accennato alla questione del controesempio, di come sia possibile costruire proposizioni che confutano degli esempi e cioè delle cose credute generalmente. Quando parlo di una cosa che è creduta non mi riferisco soltanto a ciò che viene dato come creduto, cioè affermato come tale, per esempio “io credo nell’esistenza di Dio” o qualunque altra cosa, ma intendo più propriamente tutto ciò che interviene, come non detto nel discorso e generalmente nemmeno pensato, ma che serve come principio, come assioma, come fondamento per i propri pensieri, per le proprie considerazioni, è generalmente non detto perché il più delle volte è non saputo. Quando ciascuno di voi parla, parla muovendo da dei principi, degli assiomi, delle considerazioni che stanno a fondamento di ciò che segue o che costituiscono quantomeno le premesse di ciò che segue; ma l’antecedente di tutto ciò che segue, essendo ciò che consente le proposizioni che seguono, ha una funzione importante. Quando io affermo una qualunque cosa, non ha nessuna importanza quale, affermando questa cosa io do per acquisite una quantità notevolissima di elementi, la più parte dei quali è sottaciuta, però questa più parte ha una funzione notevolissima nel discorso generalmente e cioè ne costituisce il fondamento cioè si basa su queste cose; queste cose devono essere vere, devono essere certe, nel discorso comune ovviamente, devono essere, in altri termini, immaginate come un qualche cosa su cui appoggiarsi saldamente per potere proseguire a parlare. Ma provate a considerare la cosa in questi termini: c’è una premessa, poi una concatenazione di conseguenze e quindi la conclusione. Supponete che la premessa non sia esposta, non sia esplicita, ma che serva tuttavia a consentire tutta una serie di inferenze che ne seguono; queste inferenze perché si fanno? Si fanno perché una premessa lo consente, per il solo fatto che vengono formulate queste inferenze generalmente si stabilisce che la premessa c’è ed è necessaria. Che ci sia è fuori dubbio, che sia necessaria invece è piuttosto discutibile. Questa premessa di cui sto parlando Aristotele la chiamava “luogo comune”, vale a dire ciò che è accolto per lo più dai più, ciò che generalmente non viene messo in discussione. Dunque, tutto ciò che segue, seguendo un elemento che non è né può essere messo in discussione risulta affidabile. Ora, la conclusione se è costruita in modo tale da essere difficilmente attaccabile, a questo punto risulta certa e creduta vera. Ora, una credenza viene formata così generalmente, ma non soltanto, può essere rafforzata e viene rafforzata una credenza tanto più quanto più i passaggi dalla premessa alla conclusione sono brevi. L’effetto che ne risulta è quasi quello di una slogan per esempio, di una massima, di un proverbio. Quasi in un modo tale che questa proposizione sia come chiusa, rinserrata all’interno di una struttura il più possibile rigida, tale da consentirle di essere chiusa in se stessa, come una sorta di prodotto finito, così come una frase musicale o come il verso: un verso non è altro che un discorso inserito all’interno di un struttura rigida, chiusa in se stessa, un verso è compiuto in sé, ha un inizio e una fine. Questa finitezza ha una funzione particolare, perché essendo in tal modo chiusa è come se costituisse una sorta di elemento a se stante che non necessita di altro. Ora, un elemento è tanto più forte quanto meno necessita di altro: un motto, una massima, un proverbio, queste frasi brevi e chiuse in se stesse, che apparentemente non necessitano di nulla, sono più efficaci invece di un lungo discorso che necessita di molte spiegazioni. Per quale motivo? Il lungo discorso che necessita di molte spiegazioni, tanto più è lungo tanto più offre il fianco a dubbi, a confutazioni, a perplessità. Perché è così efficace lo slogan? Perché è breve e racchiude in sé un’affermazione che in sé è compiuta e apparentemente non necessita di nessuna aggiunta. Così come il verso, essendo chiuso in se stesso, non necessita di altro per esistere, per questo fornisce questa sensazione di perfezione, di compiutezza e quindi di verità. Dico di verità, perché la verità, direi quasi per definizione, almeno nel luogo comune, è qualcosa di assolutamente stringato che non necessita di altro; una volta che si è raggiunta la verità non si può aggiungere altro, a meno che non venga messa in dubbio, ma se questo non avviene, la verità chiude la questione. Che non necessiti di altro è importante perché rende questa proposizione, questa frase, autosufficiente come un mondo a se stante e, se non necessita di nient’altro per sussistere, allora capita un fenomeno importante che è questo, che non viene intaccata da niente perché non necessita di nulla, è autosufficiente. Da qui, a ritenere questa frase sia necessariamente vera il passo è breve. Poi, questo viene utilizzato dalla retorica, soprattutto dai retori. L’idea è che una frase breve, chiusa in se stessa, sia più facilmente recepibile, più difficilmente attaccabile, per il motivo che suona effettivamente come il verso di una poesia. Ora, il verso di una poesia non è generalmente sottoponibile ad un criterio verofunzionale; la struttura in cui è formato è come se esprimesse una verità naturale, necessaria. Dunque, le cose che vengono credute si formano generalmente in questo modo: sono dei pensieri brevi, rapidi, che tagliano corto così come un proverbio o un motto, una massima, taglia corto e giunge rapidamente ad una conclusione. Questa rapidità impedisce l’inserimento di elementi che potrebbero eventualmente creare dei problemi. Tempo fa avevamo considerato, per esempio il proverbio, i proverbi sono brevi. Questa brevità è fatta anche per impedire che possano insinuarsi elementi nocivi. Provate a trasformare un motto, un proverbio, una massima in un lungo discorso e immediatamente sorgono dei problemi, sorgono delle domande, sorgono delle questione che invece la massima, il motto o il proverbio non consentono; per esempio “chi la fa l’aspetti” è una cosa breve e sembra una legge naturale, come dire, sempre dovrà accadere questo. Provate a trasformare questo proverbio in un lungo discorso, immediatamente sorgono dei problemi di ogni sorta. Ciò che interviene in una credenza, soprattutto, è la naturalezza della conclusione a cui giunge, come se le cose non potessero effettivamente andare altrimenti che così. E questo avviene anche per una generalizzazione; il proverbio è nella struttura dell’induzione generalmente e si appoggia sul luogo comune. Dunque, potremmo riassumere schematizzando un po’ le cose in questo modo: c’è un luogo comune che funziona da assioma, da premessa, da questo luogo comune io traggo delle conseguenze, delle implicazioni. Il luogo comune non viene enunciato, viene dato semplicemente come fondamento dell’attendibilità delle inferenze. A questo punto giungo alla conclusione e questa conclusione non potrà essere messa in dubbio né in discussione e non potrà perché ciò che ho dato per implicito è la naturalità dell’assioma da cui sono partito, mi sono mosso correttamente nelle conseguenze e quindi la conclusione e altrettanto naturale. E naturale che “chi la fa l’aspetti?”; viene posto così generalmente. Ora, nessuno potrebbe affermare, così a cuor leggero, che una cosa del genere è assolutamente sicura e necessaria, perché magari già di per sé ha sottomano degli esempi in cui le cose non si sono verificate in questi termini. Tuttavia, è come se il fatto che non si sia verificato potesse a questo punto addirittura porsi come una sorta di eccezione ad una legge naturale: le cose occorre che vadano così, poi può accadere che una volta non succede, però è l’eccezione che conferma la regola. Questa è una riflessione su come si formi una credenza, facendo l’esempio del luogo comune, del proverbio. Si può considerare che di fronte ad un proverbio come questo , “chi la fa l’aspetti”, chiunque saprebbe obiettare ma non è tanto il proverbio in sé, quanto la sua struttura, ed è la stessa struttura con cui ciascuno si trova ad un certo punto, senza sapere né come né perché, a credere una quantità sterminata di cose. Come avviene che una persona creda nelle cose in cui crede? Perché? Che cosa supporta queste credenze e che cosa gli impedisce di accorgersi che sono delle credenze, delle superstizioni e cioè affermazioni assolutamente arbitrarie e tutt’altro che necessarie? Cosa invece fa sì che si trovi ad immaginare che le cose che crede siano necessarie? Ecco perché ero partito dall’esempio del proverbio, per via della sua struttura, quando si forma una credenza c’è il più delle volte la necessità che il pensiero che la costruisce sia breve, per i motivi che ho elencati, lo stesso motivo per cui una persona che crede una certa cosa cercherà di sostenerla utilizzando dei sistemi chiusi, compatti, soprattutto quando pensa tra sé e sé, se deve dimostrarlo ad un’altra persona certamente utilizzerà argomentazioni più sofisticate, più articolate. Nel soliloquio, invece, quando si trova per esempio di fronte ad un dubbio, ad un’incertezza rispetto alle cose in cui crede, ciò che opporrà a questi dubbi sono strutture argomentative che hanno una struttura molto simile a quella del proverbio e cioè qualche cosa che taglia corto e che in definitiva elimina tutto ciò che potrebbe mettere in discussione ciò che crede. Il proverbio è fatto apposta per impedire, per evitare di mettere in discussione una sorta di affermazione che si vuole fare passare come legge naturale. Ecco, questa struttura che consente di credere ad un certo punto anziché no, è una struttura particolare. Vediamo di costruirne una, costruiamo una credenza: per esempio “prendere il caffè alla sera provoca insonnia”. Se una persona ascolta una cosa del genere, cosa succede? Succede che se c’è una sorta di disposizione da parte sua ad accogliere questa proposizione, la accoglierà, ma questa disposizione di cosa è fatta? Supponiamo che questa persona la sera, abbia qualche problema ad addormentarsi e che avendo qualche problema ad addormentarsi sia afflitto da una serie di pensieri, che lo preoccupano, lo spaventano, lo angosciano. Allora, ciò che cercherà di fare sarà di sbarazzarsi di questi pensieri, di ciò che lo infastidisce; non sa ovviamente perché questi pensieri insorgano e quindi non riesce a dormire. A questo punto cerca qualche cosa che risponda alla sua domanda cioè “perché non riesco a dormire?”; che funzione ha un’eventuale risposta? In qualche modo, lo pone nella condizione di affrontare questi pensieri non più come dei pensieri che gli appartengono, che lo riguardano e che quindi lo interrogano, ma come una sorta di corpi estranei introdotti inopinatamente da qualche cosa che è avvenuto. Tutto questo quindi ha una funzione perché a questo punto è come se questi pensieracci non gli appartenessero più, cioè può considerarli come una sorta di corpo estraneo. Ora, se trova qualcuno che gli dice che “il caffè la sera non fa dormire”, allora cosa succede? Succede che crederà a questa cosa, ma perché? Forse perché ha fatto studi precisi di fisiologia, di neurologia? A parte il fatto che tali studi non gli consentirebbero di giungere a nessuna conclusione certa, sicura, comunque ci crederà perché in questo modo potrà considerare i suoi pensieri come qualcosa che non gli appartiene e quindi sarà disponibilissimo a credere a tutte le prove scientifiche a vantaggio dell’affermazione che “il caffè rende nervoso”, cioè gli serve. Questo utilizzo della proposizione, che afferma che “il caffè non fa dormire”, ha la struttura di qualunque certezza, di qualunque cosa si trovi credere, che è creduta perché ha un utilizzo. Ora, “il caffè rende nervosi” è una proposizione piuttosto breve che ha un’efficacia differente da una lunghissima disquisizione scientifica, comunque sempre piuttosto opinabile intorno agli effetti della caffeina, ma soprattutto non ha bisogno questa frase di essere supportata scientificamente. La stessa cosa può avvenire per altro verso rispetto al proverbio che “il gatto nero porta sfortuna se attraversa la strada”, qui la cosa è ancora più manifesta, perché non c’è nulla al mondo che possa provare una cosa del genere.
Dunque, ci si trova a credere qualcosa perché questo qualcosa ha una funzione ben precisa nel proprio discorso; solo a questa condizione viene accolta come una credenza; non importa quale sia l‘utilizzo, ma ha un utilizzo e l’utilizzo è questo: di rispondere ad una domanda che inquieta, esattamente così come i pensieri che sorgevano al nostro amico insonne e che lo inquietavano, e che consente quindi di potere considerare i propri pensieri, o alcuni dei propri pensieri, come una sorta di corpo estraneo e quindi giustificarli in qualche modo e, una volta giustificati, eliminarli come cose di cui non occorre tenere conto, non rilevanti: tutto il discorso occidentale è costruito in modo da consentire queste operazioni cioè di potere sbarazzarsi della più parte dei pensieri imbarazzanti. Ma perché la frase breve, così come lo slogan, è quella che convince,? Per un motivo molto semplice, pensate all’omino e al suo caffè, prima arriva alla conclusione e meglio è, meno giri fa e meno c’è la probabilità che si trovi a dovere rimettere in discussione questa nuova trovata e cioè che per esempio il caffè rende nervosi. Quindi, raggiungere la conclusione al più presto possibile, come se ci fosse una certa fretta e, in effetti, in alcuni casi è così, c’è la fretta di concludere. In alcune strutture di discorso questa fretta di concludere è rappresentata, dice quattro parole e poi la conclusione; per esempio, nel discorso isterico c’è una grande rapidità a giungere alla conclusione. Ma, aldilà del discorso isterico, la frase breve, lo slogan, il motto, sono fatti, sono costruiti per consentire di non dovere pensare. Contrariamente a quanto qualche volta si possa ritenere, hanno questa funzione di consentire di non pensare, come se fosse già stato pensato e si offre la conclusione, il prodotto finito. Questa rapidità, tra l’altro, va riscontrata anche nelle dimostrazioni più articolate, più sofisticate e cosiddette scientifiche. Come possiamo intendere la rapidità della conclusione? Per esempio l’eliminazione del regresso all’infinito, per esempio l’eliminazione di tutto ciò che non può essere provato, per esempio l’eliminazione della considerazione che sia sempre possibile costruire una proposizione che confuta una qualunque affermazione. In questo senso possiamo dire che anche una dimostrazione scientifica taglia corto, cerca di essere il più breve possibile e cioè eliminare tutto ciò che non le consentirebbe di stabilirsi.
Il discorso fa esattamente così; il formarsi di una credenza funziona esattamente allo stesso modo: eliminando tutto ciò che potrebbe metterla in discussione. Se volete, ciò che fa un’analisi e reinserire tutto ciò che la mette in discussione o che potrebbe metterla in discussione, cioè tutto ciò che una superstizione ha eliminato: inserendo tutto ciò che la superstizione ha eliminato, si elimina la superstizione. E’ semplice. La superstizione sorge per togliere dei pensieri che infastidiscono, e i pensieri che infastidiscono sono quelli che continuano a domandare cioè che non si riesce a mettere a tacere. E quindi, tutti i pensieri che continuano a insistere e a domandare vengono, almeno provvisoriamente, zittiti da una credenza; si tratta di trovare il modo perché questi pensieri possano ritornare a parlare, possano tornare a dirsi, in modo che, tutto ciò che è stato costruito, magari in trenta, quarant’anni di duro lavoro, possa dissolversi. La difficoltà sta nel fatto che ciò che si avverte a questo punto è un pericolo, un pericolo gravissimo, come dire “se demolisco una cosa del genere è la fine”, nel senso che tanto si è spaventati da alcuni pensieri che l’eventualità di potercisi ritrovare di fronte, impone di credere qualunque cosa pur di non trovarsi a riconsiderare alcune cose. E’ per questo che gli umani sono così inclini a credere qualunque cosa e il suo contrario, perché credere una qualunque cosa ha la funzione di sbarazzare dai pensieri che inquietano. I pensieri che inquietano generalmente sono quelli che paradossalmente costringono il discorso a proseguire. Dico “paradossalmente” perché il più delle volte le persone enunciano di cercare cose che le stimolano, cercare sempre nuove cose che le spingano avanti; si tratta poi di verificare nel discorso di ciascuno se è esattamente così oppure no o se invece l’intento sia esattamente il contrario, vale a dire quello di impedire che altro possa aggiungersi, cioè impedire che delle cose intervengano a rimettere in discussione tutto ciò che è stato consolidato. In definitiva, alla domanda perché si crede, potremmo rispondere che “si crede per non pensare o per potere cessare di pensare”; pensare in termini radicali. Tutto ciò che impedisce il pensiero in termini radicali possiamo chiamarlo credenza. Pensare in termini radicali non è altro che avere la possibilità di giocare, tutto sommato, con qualunque elemento e di qualunque elemento potere considerare l’eventualità che non sia affatto così come si pensa che sia, ma per esempio il contrario, e che l’eventualità che sia il contrario non abbia né minore dignità, né minore probabilità di quello che sto pensando, e che in definitiva ciò che penso è totalmente arbitrario, cioè è una produzione del mio discorso che io costruisco per alcuni fini che posso anche individuare e che non ha nessun altro scopo: cioè io mi costruisco una cosa perché mi serve, mi costruisco una paura, mi costruisco una superstizione perché mi serve, mi serve a non pensare. Il pensiero non è cosa semplice, è tutt’altro che semplice, è di una difficoltà estrema; difficoltà di fronte alla quale generalmente si recede perché disorienta, perché toglie ogni possibilità di aggancio, di ancoraggio, di sicurezza, di tranquillità. Parafrasando Freud, potremmo dire che il pensiero è un incubo continuo, un incubo nell’accezione particolare come diceva lui, cioè l’incubo come ciò che sveglia di soprassalto, il contrario della quiete, un movimento continuo, e che produce un disorientamento, il panico in alcuni casi, quello che gli antichi chiamavano horror vacui, la paura del vuoto, del nulla. Questo nulla di cui sto parlando non è altro che l’assenza di religione. In fondo chiedersi perché credere non è altro che domandarsi perché la religione, qualunque essa sia: la religione è fatta di tutte quelle cose che io ritengo naturali, una religione naturale. Potremmo dire che per definizione ciascuna religione è naturale, che cioè ritiene necessariamente ci sia una legge naturale delle cose, un ordine naturale delle cose. Quando parlavo della premessa da cui ciascuno muove per giungere alla sua conclusione, e questa premessa viene posta come legge naturale e pertanto non può né deve essere messa in discussione, intendevo questo, cioè come una religione naturale: una religione naturale si pone in questi termini e cioè fornisce il fondamento, la base. Ma il nulla è un nulla rispetto ad un tutto, cioè per essere un nulla deve configurarsi nulla rispetto a qualche cosa, grammaticalmente: se presa realisticamente diventa una religione naturale. Ma, non essendoci quel qualche cosa per cui il nulla può essere nulla, il nulla ha ragione d’essere? Il nulla è un significante che ha una funzione grammaticale, ma non ha nessun referente, come qualunque altro significante, però ha un uso. Lo smarrimento di fronte alla possibilità del nulla ha senso nell’ambito di un discorso religioso; soltanto all’interno di un discorso religioso è pensabile che se c’è il nulla allora c’è il tutto, un po’ come faceva Anselmo rispetto a Dio. L’assoluto posso pensarlo, diceva Anselmo, se lo penso non posso dire che non esiste, ma posso provare l’assoluto? No, per definizione, perché se è assoluto, qualunque cosa faccia sarà sempre un passo in là; tuttavia lo penso e quindi esiste, esiste e non è provabile; quindi qualcosa che non è provabile ma di esistente, esiste necessariamente. E se io chiamassi questo assoluto Dio, allora esiste necessariamente e necessariamente non è provabile. Però secondo la logica tradizionale risulta difficilmente confutabile una prova di questo tipo e qui interviene una distanza fra il discorso che stiamo facendo e la religione naturale. E’ chiaro che tutto ciò può essere preso come una legge naturale; se dico che una cosa esiste, per il fatto stesso che la dico esiste naturalmente, oppure, facendo tutta questa costruzione, cioè provando in modo inconfutabile la esistenza di Dio, tutto ciò che ho fatto è un esercizio retorico. Nessuno di questi significanti che ho utilizzati ha nessun referente da nessuna parte, ho costruito una proposizione che se si accoglie un certo gioco, che è quello della religione naturale, non è confutabile; se non si accoglie la religione naturale, allora non è né confutabile né non confutabile, è un gioco linguistico, un gioco di parole. Ecco, in questo modo si può creare una credenza, in questo caso nell’esistenza di Dio. Perché si crea? Supponiamo che io non abbia gli strumenti, i mezzi per confutare una simile prova dell’esistenza di Dio; allora, per il fatto stesso di non sapere confutare questa proposizione, questa proposizione automaticamente diviene vera, creduta e quindi reale. In questo modo si è creata una credenza: diventa una legge naturale che il pensiero non può eliminare e quindi diventa necessaria; a quel punto una religione è costruita, almeno nel suo impianto fondamentale. Chi saprebbe confutare questa prova dell’esistenza di Dio? Una religione naturale non è confutabile e infatti è questo l’inghippo, l’intoppo fondamentale, che se tu accogli necessariamente quel tipo di gioco, sei bloccato, non puoi fare niente. Posso pensare l’assoluto, ma se lo penso esiste, ma se esiste e non è provabile, è una cosa interessante.Ma l’interessante di tutto questo è il trovarsi presi in questo gioco, che è un gioco linguistico e immaginare che sia la realtà delle cose, la realtà necessaria e quindi costrittiva: se io provo l’esistenza di Dio e nessuno lo potrà confutare, allora Dio esiste.
Ma ciò che mi interessava dire questa sera è che le cose in cui ciascuno crede hanno esattamente la stessa struttura: sono date ad un certo punto come non confutabili quindi necessariamente vere, cioè non è autocontraddittorio, almeno questo, come voleva Kant, e quindi è vero. Davanti ad una possibile confutazione si cerca di reperire l’assioma, che è quello che consente poi ai valori di sussistere e cioè qualcosa che afferma, ad esempio, che un valore è necessario, qualcosa su cui si supporta tutto un discorso. Se una persona crede fortissimamente in Dio, sarà molto difficile persuaderla del contrario, ma tanto più fortemente ci crede, tanto più forte è l’utilizzo che ha questa credenza. Occorre allora iniziare a riflettere sull’utilizzo di questa credenza, e allora lì è possibile cominciare ad incrinare qualcosa, però non è semplice, in alcuni casi è anche molto difficile. Quando ciascuno fa una qualunque cosa, questa cosa che fa alcune volte e mossa da un’intenzione, altre volte no, tuttavia, cosa distingue il pensare religioso dal non pensare religioso? Tutto ciò che io mi trovo a fare può essere considerato come l’effetto di una serie di considerazioni generalmente; queste considerazioni possono procedere da una credenza in questo caso, una sorta di religione naturale, cioè che le cose sono così e devono andare così oppure, semplicemente, io faccio queste cose ogni giorno, le faccio ogni giorno tranquillamente sapendo di farle attenendomi a delle regole di un gioco, così come quel tale che diceva “tutte le mattine quando io mi alzo dal letto, per alzarmi dal letto devo sapere che fuori dal letto c’è il pavimento e non il vuoto e poi per scendere giù devo sapere che ci sono le scale e che non precipiterò di sotto”, insomma deve sapere un sacco di cose e lui crede in queste cose. Ma questo credere non è altro che l’utilizzo di una regola di un gioco che di per sé non ha nessun senso, nessun significato, fuori dal linguaggio sarebbe niente. Qualunque cosa io faccia, posso essere perfettamente consapevole che la faccio utilizzando regole di un gioco linguistico ben precise, oppure posso credere che le faccio perché le cose sono fatte così e perché questo è naturale che sia: intendo con questo la differenza tra il pensare religioso e il pensare non religioso. La possibilità di potere mantenere questa consapevolezza di trovarsi comunque in un gioco linguistico e quindi che ciascuna operazione che si compie è un atto linguistico, e poterne considerare le conseguenze, le implicazioni di questo; in caso contrario se queste implicazioni non possono essere considerate, allora il fatto che io cammini, che tutte le mattine mi alzi, che esista il sole ecc., costituisce il fondamento per una religione naturale: queste cose ci sono, eppure ci sono queste cose, io cammino, io mi alzo, io vivo…