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5 febbraio 1998

 

Prima di iniziare a parlare di retorica, facciamo una  precisazione. La logica si occupa di tutto ciò che non può togliersi dal linguaggio, salvo eliminarlo, dissolverlo; la retorica è tutto il resto. Tutto ciò che si dice, che si afferma, dalle affermazioni più rigorose, elaborate, fino a quelle più banali: tutto questo lo indichiamo con retorica. In altri termini, la retorica non è altro che l’insieme di tutte quelle proposizioni che stabiliscono le regole dei giochi che si vanno facendo. La logica abbiamo visto che invece non si occupa delle regole del gioco, fornisce gli strumenti perché le regole del gioco possano esistere. Cosa intendiamo con regole del gioco? Tutto ciò che parlando costituisce il motivo, l’occasione, il pretesto, il fine, lo scopo, tutto, e tutto ciò che viene utilizzato per perseguire uno scopo, per esempio o per stabilire una causa o tutto ciò che si utilizza per costruire comunque un’argomentazione, di qualunque tipo essa sia: tutto questo lo indichiamo con retorica, trovandoci nella condizione di dovere escludere la nozione di logica da tutto questo in quanto la logica, appunto, non è altro che l’insieme delle procedure che fanno esistere, che sono la condizione dell’esistenza del linguaggio. Ora, non è che sia possibile dividere o scomporre il linguaggio in  logica e retorica se non  ai fini prettamente descrittivi; non potrebbe darsi la logica senza la retorica e viceversa, perché questo? Perché una procedura linguistica senza un discorso che la ponga in atto è nulla, perché senza un discorso che la pone in atto non è possibile enunciare alcuna procedura linguistica.  E quindi siccome non può esistere una procedura linguistica fuori dal linguaggio, per definizione, necessariamente una qualunque procedura linguistica necessita di uno strumento, un apparato retorico, quindi di regole, per potere dirsi; d’altra parte non può esistere la retorica senza la logica cioè non può esistere un discorso senza le condizioni perché si diano. Ora, tutto ciò che è retorico, è arbitrario cioè non è necessario; cosa vuole dire questo? Che qualunque affermazione, qualunque discorso si ponga in ambito retorico, e solo lì può porsi, non è necessario, come dire, in altri termini, che in nessun modo per esempio può costringere all’assenso, perché non è mai qualcosa che non può non essere, è sempre qualcosa che può non essere benissimo, qualunque cosa sia, anche una dimostrazione matematica o un calcolo proposizionale della logica: tutto questo non è necessario, ma attiene alla retorica. La  non necessità di tali aspetti è fondamentale per quanto stiamo facendo, in particolare rispetto ad un itinerario intellettuale o itinerario analitico, perché consente di sapere immediatamente e inesorabilmente che qualunque affermazione io formuli, questa è arbitraria, gratuita, non è necessaria, cioè non ha questo carattere di necessarietà e quindi, qualunque essa sia questa proposizione o questa affermazione procede dal mio discorso, non ha un supporto extralinguistico che la renda necessaria, indubitabile. Come spesso si suppone, un’affermazione, per esempio, descrive qualche cosa che è fuori da questa affermazione e che essendo fuori dal linguaggio è immutabile, se io la descrivo non ne sono responsabile, posso avere descritto più o meno correttamente, ma non sono responsabile delle cose che descrivo. In questo caso sì: tutto ciò che avviene, che io penso, faccio, dico, immagino ecc.., di tutto questo sono responsabile: tutto ciò è una mia produzione ed essendo un mia produzione mi fornisce l’occasione di poter intendere quali sono le connessioni, le implicazioni che hanno permesso questa costruzione. Se io penso una certa cosa, una qualunque cosa, già muovo dalla considerazione che questa cosa che ho pensata, che ho detta, essendo arbitraria, gratuita, mi riguarda, ma non soltanto, posso a questo punto, sapendo che inesorabilmente mi riguarda, intendere da dove viene, da quali altri argomenti del mio discorso viene, cioè in definitiva quali aspetti, quali altre proposizioni, che mi concernono, hanno prodotto questo pensiero. In altri termini, mi trovo di fronte ad una assoluta responsabilità; è una responsabilità, potremmo dire, retorica in quanto rispondo a ciò che dico, più che di ciò che dico: rispondendo a ciò che dico, pongo già tutto ciò che dico come una domanda, un’interrogazione, qualcosa che mi questiona perché è lì ed  essendone io l’artefice non va da sé, ma va con me e quindi, essendo almeno in due, occorre che ci sia un confronto. Ecco, in effetti, di questo si tratta, di un confronto con ciò che mi accade di dire, vale a dire che ciò che si dice nel mio discorso, essendo esattamente ciò che io sono, se mi lascio interrogare da ciò che sto dicendo, allora il mio discorso prosegue, produce altri elementi, altri rinvii. Se non mi lascio interrogare da ciò che sto dicendo, allora si arresta, si arresta, per esempio, su una superstizione, una credenza, una qualunque cosa; a quel punto è come se fossi sicuro che le cose stanno in un certo modo e quindi non c’è più motivo di interrogare. Da qui una certa mobilità della parola, mobile perché non c’è nulla al mondo che possa arrestarla, assolutamente nulla. Con arrestarla intendo un qualche cosa che viene posto come l’ultima parola e quindi come ciò che è preposto ad arrestare il discorso, che non sarebbe altro che la verità, la realtà, ecc., in definitiva ciò oltre il quale non è possibile andare. Ora, un gioco linguistico dice che le cose stanno così, ma all’intero di quel gioco, e dice quale è il gioco e dice quali ne sono le regole e allora, all’intero di queste regole le cose sono messe necessariamente così, c’è una costrizione rispetto anche alle regole del gioco perché è noto che senza  regole non è possibile giocare. Potremmo domandarci se, in effetti, a questo punto l’esistenza delle regole di un gioco siano necessarie. C’è l’eventualità che lo siano; senza regole del gioco non è possibile giocare, senza il gioco non ci sono nemmeno le procedure, non c’è niente. Da qui una necessità indubbia dell’esistenza di regole per potere giocare e per potere parlare quindi cioè costruire discorsi: quindi da una parte abbiamo una sorta di hardware che ci dà l’impianto, per cui il linguaggio funziona, dall’altra necessariamente delle regole che consentono di giocare tutti i vari giochi possibili. Ecco perché possiamo immaginare le procedura e le regole, quindi la logica e la retorica come le due facce della medaglia che non sono scindibili; uno non può usare la logica senza trovarsi anche nella retorica e viceversa, non è possibile in nessun modo neanche nell’accezione che  stiamo fornendo. Quindi, tutta la polemica che esiste sin da quando esiste il linguaggio, circa una  eventuale supremazia della logica sulla retorica, o viceversa, non ha nessun senso ne alcuna portata. A tutt’oggi, se andate a vedere alcuni testi, si continua a chiedersi se, per esempio, la ricerca scientifica sia logica o retorica, se sia più corretta da utilizzare in un’argomentazione la logica oppure la retorica, questioni prive non solo di senso ma anche di interesse: non può darsi l’una senza l’altra in nessun modo, posta in questi termini così radicali come stiamo facendo. Nei termini in cui vengono discussi da questi dibattiti non sono altro che due aspetti retorici, entrambi, nessuno dei due ha a che fare con la logica, nessuno dei due risulta cioè un aspetto necessario. Dunque retorica è tutto ciò che si dice, necessariamente; può dirsi una procedura linguistica nell’accezione che abbiamo fornita? No, non può dirsi, perché di ciò che fornisce la condizione perché una qualunque cosa sia dicibile,  ma non può dirsi: dicendola, già ci si trova in un ambito prettamente retorico; come dicevamo la volta scorsa, una procedura linguistica è necessario che ci sia, ma l’affermare che è necessario che ci sia, non è affatto necessario, è assolutamente arbitrario. Questo, rende le cose per un verso molto più semplici, in quanto definisce già un senso, una direzione. Questo è un esempio della semplicità dell’elaborazione che andiamo compiendo, in quanto indica in modo assolutamente preciso quale sia la direzione, quale la direzione che non possa prendersi: tutto ciò che dà come acquisito, per implicito, per la sua stessa esistenza che almeno un elemento sia fuori dal linguaggio. Tutto questo viene eliminato, viene eliminato come un non senso o, più propriamente, come formulazione paradossale con la quale è possibile giocare, divertirsi, però non può in nessun modo essere utilizzata come elemento almeno di una elaborazione teorica in quanto impedisce una qualunque direzione. Retorica: esistono varie etimologie; una delle più accreditate, quantomeno una delle più suggestive è quella che la definisce: “ ciò che scorre nel discorso” , il famoso Panta rei. Come abbiamo visto in moltissime occasioni, l’etimo è più un divertimento che un possibile utilizzo teorico, prima perché non è verificabile e poi perché l’etimo di per sé dice molto poco, dice quale eventualmente poteva essere l’uso di un certo termine almeno duemila anni fa; in questo arco di tempo sono cambiate alcune cose e quindi non necessariamente un termine ha  la stessa accezione. Heidegger, con gli etimi ne ha fatto una serie di giochi, che può essere divertente ma non conduce a nulla, nemmeno attendibile, al massimo suggestivo. Ma comunque sia, aldilà di questo etimo, indubbiamente la retorica rende conto dell’andamento del discorso; le stesse figure retoriche non sono la retorica propriamente, però ne sono un aspetto, indicano i modi di dire e dicendo necessariamente dicono il modo, questo modo è, per esempio, una figura retorica. Alcune, le più ricorrenti, sono state sistemate nei famosi manuali di retorica dalla a alla zeta, e l’utilità di questi manuali, a parte la loro possibilità di fare divertire, di fatto, non è che conoscendo le più note figure retoriche una persona diventi un buon retore. Questa è un’altra questione: se la retorica sia acquisibile, cioè se sia una scienza una disciplina, una dottrina, che possa essere acquisita, imparata, oppure no e qui ci sono varie discordanze. Nell’accezione che abbiamo fornita, no, ovviamente perché non c’è nulla da acquisire, è semplicemente ciò che si dice e quindi si acquisisce acquisendo il linguaggio. Tutto ciò sempre tenendo conto della problematicità di questa affermazione, perché è sempre difficile stabilire se il linguaggio sia acquisibile; perché se non è acquisibile allora verrebbe di pensare che non c’è possibilità di entrare nel linguaggio; se è acquisibile, allora occorre domandarsi con che cosa, con quale strumento sarà possibile acquisire il linguaggio? Con un metalinguaggio? Questione a tutt’oggi aperta, che però sembra essere fatta dello stesso materiale di quella domanda famosa di Wittgenstein che si chiedeva: “come faccio a saper che questa è la mia mano” Perché ? Perché se voi riflettete su che cosa chiede esattamente questa domanda, che chiede se il linguaggio sia acquisibile oppure no, vi rendete conto che dà per scontato che ci sia un punto in cui c’è un prima del linguaggio e un dopo linguaggio. Ora, questa via non  è praticabile, perché un prima del linguaggio non è praticabile trovandosi nel linguaggio. Detta in altri termini, io non posso pensare in nessun modo se non attraverso il linguaggio, quindi non posso pensare che cosa potrebbe essere senza il linguaggio, per esempio, non lo posso fare perché non posso uscirne e quindi è una domanda almeno mal posta. Per cui, questo è un aspetto già retorico, laddove ci si pone una qualunque domanda, può essere interessante domandarsi che cosa  si sta chiedendo, ponendosi questa domanda, abbiamo fatto l’esempio prima: il linguaggio è acquisito oppure no? Che senso ha questa domanda, che cosa mi sto chiedendo esattamente? La retorica, nell’accezione che stiamo fornendo, non è acquisibile perché di fatto è semplicemente ciò che si dice e cioè è il linguaggio nel suo dirsi, nel suo esporsi continuamente e quindi in questa accezione no, sarebbe esattamente come domandarsi se il linguaggio è acquisito oppure no. Certo, la retorica, così comunemente intesa possiamo dire che è acquisibile. Questo, con tutti i limiti di questo significante “acquisire”, perché non è così automatico che questo verbo descriva un’azione così facilmente descrivibile. L’acquisizione nella dizione di un’informazione della conoscenza di una qualunque cosa; a quali condizioni io posso affermare di avere acquisito un’informazione, una conoscenza, un sapere? Questioni non semplicissime da affrontare, e tutto questo si svolge in ambito prettamente retorico. Stabilire, per esempio, una definizione possibile di acquisizione o di conoscenza è un gioco retorico; qualunque cosa io stabilisca o definisca essere l’acquisizione, la conoscenza, il sapere, qualunque altra cosa, io sto facendo un gioco retorico e a qualunque  conclusione io giunga, questa conclusione sarà sempre necessariamente arbitraria, non necessaria, cioè non indicherà nient’altro che una conclusione legittima cui si giunge a partire da alcuni assiomi stabiliti e avendo seguite scrupolosamente delle regole prefissate, esattamente così come avviene un calcolo matematico o un calcolo proposizionale. Facendo il calcolo delle proposizioni, si arriva ad un teorema che non significa nient’altro che ci si è attenuti con scrupolo a regole inferenziali muovendo da certi assiomi stabiliti, ma qualunque definizione io possa avanzare, di conoscenza, di sapere, ecc., sarà sempre assolutamente arbitraria, gratuita: può solo essere utile per continuare a giocare ma non ho raggiunto nessuna certezza. Tutto questo non mi consente, ed è per questo che sottolineiamo che si svolge in ambito retorico, di raggiungere nulla che sia necessario, assolutamente nulla. Io posso fornire la definizione più precisa, più interessante, più elaborata, ma sarà sempre assolutamente e inesorabilmente gratuita, non necessaria. E questo comincia a mostrare qual è la portata, per esempio, di una dottrina scientifica o di un sistema di definizioni; dire che non servono a nient’altro che a proseguire a giocare, significa togliere a tutto ciò, inesorabilmente, il carattere di necessità, come se il fine da raggiungere fosse la verità, l’ultima parola. Dunque, tutto ciò è fatto soltanto per continuare a giocare? Esattamente, proprio così, non c’è nessun altro scopo, nessun altro motivo, nel senso che qualunque motivo io possa trovare sarà sempre e comunque una proposizione retorica e quindi assolutamente arbitraria, gratuita, e cioè non necessaria, dal momento che l’unico elemento che ha questa prerogativa, cioè di essere necessario, è ciò che non posso eliminare per il fatto stesso che parlo, tutto il resto sì.

Qualunque proposizione in se è finita, esattamente come una frase musicale, cioè ha un senso compiuto, se non lo fosse, in questa accezione, non sarebbe utilizzabile, perché? Perché a questo punto la direzione che si dà questa proposizione sarebbe a raggiera e quindi inutilizzabile, quindi occorre che abbia un senso finito. Ora, questa proposizione, come qualunque altra, non può essere sganciata, cioè enucleata dal linguaggio, non può essere fuori dal linguaggio. Se è nel linguaggio, e non può non esserlo, per definizione, ciascuno di questi elementi è un elemento linguistico ed essendo un elemento linguistico è connesso ad altri elementi linguistici, se no non sarebbe un elemento linguistico e, se tale non fosse, non potrebbe dirsi. Quando produco una proposizione finita è finita in quanto dice qualcosa di compiuto, poi è chiaro che ha un’infinità di agganci. La proposizione di per sé è compiuta, ma il fatto che non sia sganciata dal linguaggio, cioè che non esista fuori dal linguaggio, comporta che necessariamente è connessa con una quantità sterminata di altri elementi. Ora, questa prerogativa di ciascun elemento linguistico viene utilizzata certamente in un itinerario intellettuale, laddove una proposizione, anche se il suo senso è incompiuto, allude o indica che la compiutezza di questa proposizione è come se comportasse la chiusura del linguaggio. Supponiamo che io affermi un’altra proposizione: Dio esiste. Anche questa è una frase di senso compiuto ma può essere inteso in questo caso compiuto in una accezione un po’ particolare, compiuto in quanto definisce, descrive qualcosa di necessario e cioè che esiste necessariamente fuori dal linguaggio. Io ho fatto un caso limite; considerare la proposizione di senso compiuto come un fatto compiuto ma fuori dl linguaggio cioè che descrive un elemento extralinguistico, questo può creare qualche intoppo nella propria esistenza. E’ interessante questa cosa, perché al di là dell’esempio, consideriamo un altra frase che per esempio un uomo può dire ad una donna: “ Non ti voglio più”. Cosa succede in questo caso? Succede o che questa proposizione è possibile considerarla in un ambito prettamente logico e cioè come uno degli elementi del gioco o c’è l’eventualità di crederci. C’è l’eventualità di crederci al punto tale che chi l’ha detta, per il solo fatto di averla detta non può più tornare indietro, se ci crede fino a questo punto: perché è come se ciò che ha detto in quell’occasione costituisse una sorta di pietra miliare che, una volta detta, rappresenta un qualche cosa di necessario. Tutte le proposizioni che noi costruiamo fanno parte di un discorso più ampio, solo che in alcuni casi l’ampiezza di questo discorso non ha un rilievo, nell’ambito del gioco che si sta facendo, tale da potere essere messo in gioco o comunque da potere essere proseguito; però in diversi casi, generalmente, non viene nemmeno pronunciato. In questo senso possiamo parlare di aggancio, c’è sempre l’aggancio, in effetti, perché ciò che si dice, per il solo fatto che si dica, è già implicato in una serie di cose, altrimenti non viene formulato. Che necessariamente ci sia un aggancio, è una questione logica, quale sia no, però dicendo un elemento questo non può non essere agganciato ad un altro per una questione logica, proprio perché è un elemento linguistico che come tale è inserito in una combinatoria. Non bisogna confondere il rilancio con il rinvio, perché il rinvio è qualcosa di necessario; che una parola abbia un rinvio è necessario; il rilancio, spesso lo abbiamo inteso, invece come l’intervento dell’analista che rilancia una questione, cioè ripropone una questione perché se dica ancora qualche cosa in più. Rispetto alla retorica, la questione importante che è emersa, per esempio, riguardo questa proposizione finita e che sembra che non avere nessun aggancio; in effetti, perché non si dice una cosa del genere se non ho un motivo per farlo? Perché non ha nessun utilizzo, e questa dell’utilizzo è una questione importante, come dire che ciascun elemento interviene proprio in ambito retorico soltanto se ha un utilizzo, cioè se agganciato a questo elemento posso metterne un altro; in caso contrario non ha nessun utilizzo, è niente, come se mentre parlo, faccio una pausa e dico: “gli elefanti sono erbivori”. E allora? Questo: “e allora?” chiede in che modo dobbiamo utilizzare questa affermazione, qual è l’utilizzo, a che cosa serve, altrimenti non sappiamo cosa farcene, è solo un suono, è assolutamente inutile. Ecco perché una proposizione come questa che viene detta, sganciata da ogni cosa, di per sé è assolutamente inutile, questo è il motivo per cui non viene detta, perché non ha nessuna utilità, non significa niente. E qui sottolinea ciò che dicevo prima e cioè il linguaggio, l’aspetto retorico è fatto in modo tale per cui necessariamente deve proseguire e un’affermazione che non la prosegue non è utilizzabile, non serve a niente, è niente. Non ha nessun utilizzo e ciascun elemento linguistico, in ambito retorico, funzione proprio in questo modo: per l’utilizzo che ha nell’ambito del gioco in cui è inserito, però è questo  utilizzo che  è essenziale: una regola è tale perché ha un utilizzo. L’utilizzo è sempre la produzione di un’altra proposizione. Necessariamente, se c’è una proposizione ce n’è un’altra; che ci siano delle regole, questo è assolutamente necessario. Adesso si tratta di stabilire, per esempio, o di riflettere sul fatto che per quanto riguarda l’utilizzo se questo  rientri in un ambito di necessità oppure no. Probabilmente sì, perché una regola, per definizione, è tale in quanto è utilizzabile. L’utilizzo comporta la produzione di altre proposizioni e che, una proposizione  produca altre proposizioni, questo si che è necessario, non può non produrle, proprio per un aspetto linguistico, logico. Noi sappiamo che determinati termini hanno un utilizzo, cioè sono all’interno di un gioco quale sia viene stabilito di volta in volta, a seconda del gioco che si sta facendo. Le regole del gioco limitano i rinvii, lo regolano, altrimenti non sarebbe possibile giocare all’interno di un gioco; all’interno di un certo gioco sono possibili un certo numero di mosse, che possono essere anche infinite, ma sempre all’intero di una certa struttura. Quindi, in un discorso,  questa interferenza di altri discorsi, di altri giochi, è continua, per cui un elemento che è fuori gioco interviene all’improvviso ad imporre una variazione delle regole del gioco; ciascuno parlando segue delle regole che possono essere variate da elementi esterni, che mi fanno cambiare direzione. Questo elemento che interviene dall’esterno io posso pensare che è fuori dal linguaggio, ma non lo posso provare; tutto il pensiero religioso fa questa operazione:  pone  Dio ad esempio fuori dal linguaggio. Non si può utilizzare un elemento che è fuori dal linguaggio, perché come ne verremmo a sapere di questo elemento, in che modo potremmo coglierlo prima ancora di accoglierlo, cosa fa sì che un certo elemento ad un certo punto diventi un qualche cosa, qual è la struttura che consente tutta una serie di operazioni rispetto a questo elemento. Un elemento è colto come tale proprio perché si trova preso in una struttura, che chiamiamo linguaggio, che dice che un elemento è questo, che serve a quest’altro e quindi può essere utilizzato per quest’altra cosa: necessita di una struttura per potere compiere queste operazioni, per cui qualunque spunto, occasione, pretesto, per parlare è comunque quasi sicuramente la conclusione di un altro discorso. Perché si mette in gioco un’affermazione? Per qualunque motivo, possono essere infiniti e qualunque sarà interessante, legittimo, motivato, ecc.., ma può essere uno qualunque.uesta è un’altra questione, se la retorica sia acquisibile, se sia una dottrina, una disciplina che possa essereggggggjpppppiigggg Quetione a tuttoggi aperta che però sembrahhh