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5 gennaio 2022

 

Il Sofista di Platone di M. Heidegger

 

Questa sera abbiamo un capitolo molto interessante, chiarificatore di molte cose. La volta scorsa ci siamo fermati su una domanda, che si poneva Heidegger riferendosi ad Aristotele, e cioè il concreto, il tutto, l’intero, deve essere percepito per quello che è, quindi, senza il λόγος, deve essere solo θεωρέιν, pura contemplazione. La questione, con cui chiudeva il precedente capitolo è: se questo tutto, questo intero, non è nel λόγος, dov’è? Adesso questo capitolo ci illustrerà la risposta a questa domanda. Le considerazioni svolte finora avevano il senso di preparare alla comprensione di un dialogo scientifico di Platone. Fin qui, quindi, è solo una preparazione. Sottolineo espressamente di un dialogo scientifico. Intendo con ciò il fatto che non tutti i dialoghi platonici recano in sé una tale profondità di trattazione scientifica, anche se tutti mirano in qualche misura alla conoscenza. Non si dà nessuna comprensione scientifica di Platone, che vuol dire un cammino a ritroso sino a Platone, senza passare per Aristotele. Cosa che lui ha fatto. La scienza di una filosofia o di un filosofo non è mai arbitraria. Se normalmente può essere permesso, con le più diverse motivazioni e predilezioni culturali, selezionare dalla storia possibilità di esistenza, di idee e di modelli, insomma, aggirarsi nella storia a proprio piacimento, ciò non vale per la ricerca filosofica. Se questa deve scoprire l’esistere nei suoi fondamenti e se questo esistere la storia siamo noi stessi. Sta dicendo che non possiamo andare tanto in giro perché questa cosa che stiamo interrogando siamo noi stessi. In tal senso il fatto che un’interpretazione si muova più o meno espressamente attraverso il pensiero di Aristotele è una cosa che si comprende da sé, tanto più se si pensa che nell’indagine aristotelica non c’è nient’altro che una formulazione più radicale di quei problemi con cui hanno lottato Platone e i suoi predecessori. La questione fondamentale dell’indagine filosofica greca è la domanda sull’essere, sul senso dell’essere e, insieme, caratteristicamente, la domanda sulla verità. La domanda, quindi, sull’essere e sulla verità sono due facce della stessa cosa. L’atteggiamento del sofista… Vi ricordate che la domanda nel Sofista era chi è il sofista, che cosa il sofista. … è una τέχνη nel senso più ampio del termine. In precedenza ho accennato al fatto che in Platone l’espressione τέχνη, πιστήμη, σοφία, φρόνησις, ricorrono ancora in parte alla rinfusa. Per Platone il termine τέχνη possiede quell’ampiezza di significato che ancora si rinviene in Metafisica I di Aristotele, la dimestichezza, nel senso ampio del termine, con un qualche atteggiamento. Questa è la tecnica: la dimestichezza con qualcosa, familiare con qualche cosa. Qui nel caso del sofista si tratta della dimestichezza con il parlare di tutto ciò che vi è … Questa è la dimestichezza del sofista. …vale a dire, una dimestichezza con il discutere dell’ente. Procedendo a una più ampia caratterizzazione del sofista, a ciò si aggiunge una strana determinazione, secondo cui tale dimestichezza corrisponde a un ingannare su ciò di cui si parla, la possibilità dell’inganno. Nel suo discorso il sofista spaccia ciò di cui parla qualcosa che in fondo, se osservato più attentamente, non è, ovvero, non è come egli lo mostra. La poliedrica caratterizzazione del sofista, che senz’altro balza agli occhi dalla prima lettura del dialogo, fatta di continua e ripetute aggiunte da punti di vista del tutto differenti, ha il senso di far conoscere in modo massimamente concreto l’esistere concreto del sofista entro il quadro della vita greca. Ma da questo ineluttabile esistere fattuale del sofista, del suo atteggiamento, che certo presentava una potenza peculiare all’interno del mondo spiritual dei Greci, da questo indiscutibile essere potente dell’atteggiamento sofistico, risulta chiaro allo stesso tempo che questo è appunto ciò rispetto a cui egli si atteggia, ciò con cui il sofista ha a che fare, l’illusione e l’inganno. In quanto però illusione e inganno sono qualcosa che in fondo non è, un ente che spaccia per essente un non-ente, l’esistere del sofista getta luce anche sull’essere del non-ente. Appare così dalla concretezza e dalla fatticità dell’essere sofistico, dall’esistenza di qualcosa come un sofista, sempre a patto che la trattazione si sviluppi a un livello superiore, che il non-ente, illusione e inganno, è. Dicevo che è una questione importante perché a breve ci mostrerà la differenza fondamentale fra il sofista e il filosofo, cercando di mostrare – ovviamente, qui è Heidegger che parla – come il sofista inganni e il filosofo no, giungendo a mostrare esattamente il contrario. Questo non lo fa Heidegger, lo faremo noi. Tutto si basa sull’ληθεεινSull’essere scoprenti, sullo scoprire l’ente. Ma questo ληθεειν, come abbiamo visto, è ben radicato nel λόγος, cioè, non si scopre niente se non c’è il λόγος. Il λόγος è la condizione perché ci sia l’ληθεειν, lo scoprire l’ente, il suo apparire. Per quanto riguarda l’ληθεειν, la modalità di accesso all’ente scoperto, possediamo già un orientamento sufficiente. Fra le possibili modalità dell’ληθεειν ne abbiamo conosciuta una eccellente in cui ne va solo e unicamente di un puro scoprire, il θεωρέιν (pura contemplazione) e precisamente il θεωρέιν della σοφία, che ha il senso di rendere visibile l’ente nelle sue ρχαι, a partire da ciò che esso, in quanto essere, sempre già è: l’ν ληθεειν ovvero l’λήθες dell’ν (l’ente in quanto scoperto, cioè, il vero dell’ente). In base a questa intina interconnessione di essere e essere scoperti, i Greci possono dire in una forma abbreviata: la filosofia mira alla λήθεια. ‘Αλήθεια significa, da un lato, il puro e semplice essere svelato di qualcosa, ma al tempo stesso e, conformemente al significato di λόγος, indica anche lo svelato stesso, l’ente svelato. Usato in senso puro e semplice, il termine λήθεια non significa nient’altro che l’ente nel suo essere in quanto esso è propriamente scoperto. Adesso vedremo che è scoperto dal e nel λόγος. Qui ancora pone la questione del θεωρέιν come qualcosa che dovrebbe essere fuori del linguaggio perché ci sia pura contemplazione, perché se il θεωρέιν è nel linguaggio dipende da qualche cos’altro e, invece, per essere quello che è non deve dipendere da nulla. Se vogliamo che la preparazione alla comprensione del dialogo, attraverso l’esplicazione dell’ληθεειν, sia fondata e autentica, è necessario che essa venga comprensibile la specifica modalità di accesso adottata nel dialogo, il διαλéγεσθαι (dialogo), lo specifico atteggiamento di discutere nel dialogo. Con il chiarimento del senso del διαλéγεσθαι opiniamo contemporaneamente una comprensione del perché in generale la discussione, che localizza ciò di cui tratta il dialogo, venga appunto in forma di dialogo, perché Platone faccia filosofia attraverso i dialoghi. Quindi, perché si renda comprensibile la questione dell’ληθεειν occorre il διαλéγεσθαι, cioè, il dialogo, la parola. Ciò non accade per la ragione che viene volgarmente addotta, che cioè Platone era un artista che voleva esporre questo genere di cose anche con dello stile oltre che con argomenti; ciò accade invece per un’urgenza intima dello stesso filosofare, per un accoglimento radicale di quell’impulso e di quella pulsione che Socrate gli aveva comunicato: soppiantare il λόγος come chiacchiera, come dato immediato, che si dice e viene detto in giro a proposito di tutte le cose onde pervenire attraverso il retto discorso a un λόγος che, in quanto λόγος λήθες (discorso vero), sappia effettivamente dire qualcosa su ciò di cui parla. Il διαλéγεσθαι è un passare attraverso il parlare. Esso prende le mosse da qualcosa che è detto, che ha lo scopo di pervenire a un enunciato, a un λόγος in senso proprio, concernente l’ente stesso. In questo senso il διαλéγεσθαι è, come si dice più avanti nel Sofista di Platone, un passare in rassegna ciò che viene detto e precisamente in modo tale da mostrare che cosa potrebbe esservi inteso in fatto di essere. Il διαλéγεσθαι ha pertanto, al pari del λόγος, la funzione di scoprire, ovvero di scoprire nel modo del discutere. Questa discussione prende le mosse da ciò che in primo luogo viene detto a proposito dell’argomento trattato, vi passa attraverso, si orienta verso il fine e lo reperisce in un dire che enuncia effettivamente un qualcosa sul tema, e lo fa nell’enunciato nel λόγος genuino. Se diciamo che il λόγος, inteso qui come διαλéγεσθαι, è scoprente, almeno se preso in tale sua fatticità, ciò implica che al λόγος pertiene un’ληθεεινÈ il λόγος che scopre. A guardar meglio bisogna dire che il λόγος, in quanto λόγος, non costituisce di per sé senz’altro la perfezione dell’ληθεειν e che perciò lo scoprire non è radicato nel λόγος in quanto λόγος; invece, il λόγος può ma non deve necessariamente farsi carico del compito di scoprire. Qui c’è tutto il discorso che fa rispetto al λόγος, che è significativo. Il λόγος può dunque farsi carico dell’ληθεειν, ma non ce l’ha già in sé, bensì lo riceve di volta in volta dal νόηιν e dal διανόηιν, ovvero, dalla ασθησιςRiceve dall’intelletto, dal pensiero. Nel consenso più originario e pure nella fatticità originaria il λόγος non è affatto scoprente, bensì, se posso estremizzare, addirittura occultante. Il λόγος è anzitutto la chiacchiera, la quale possiede la fatticità di non fare vedere le cose ma di sviluppare quel peculiare atteggiamento per cui si accontenta facilmente arrestandosi a quel che si dice. La supremazia della chiacchiera fa sì che l’ente sia precluso proprio per l’esistere e, quindi, rede ciechi nei confronti di ciò che è scoperto e del possibile scoprire. Ma se l’esistere è innanzitutto dominato dal λόγος in questa sua fatticità di chiacchiera, la penetrazione sino all’ente scoperto dovrà necessariamente passare proprio attraverso il λόγος. Deve, cioè, passare attraverso la chiacchiera. Si parte dalla chiacchiera, da ciò che si è imparato, da ciò che si è appreso, da ciò che si crede, ecc. Ci deve essere una modalità del parlare la quale, parlando a favore e parlando contro, conduca via via su ciò su cui verte il discorso e lo faccia vedere. Il διαλéγεσθαι ha, dunque, in se stesso la tendenza immanente a un νόηιν. Lui traduce νόηιν con vedere. In effetti, νόηιν è il pensiero che vede. Ma fintanto che la trattazione rimane nel λέγειν, si mantiene cioè come διαλéγεσθαι nell’ambito della discussione, questo discutere potrà certo abbandonare la chiacchiera ma rimarrà un mero tentativo di spingersi verso le cose stesse. Il διαλéγεσθαι resta fermo a discutere, non perviene al puro νόηιν (alla pura conoscenza, al puro vedere), non possiede i mezzi idonei per giungere là dove dovrebbe essere il suo fine, il θεωρέιν medesimo. Questo il suo fine: la contemplazione dell’ente in quanto tale. Sebbene il διαλéγεσθαι non raggiunga il proprio fine finché rimane λέγειν, non porti semplicemente allo scoperto l’ente, non per questo esso rimane un mero gioco, bensì possiede anche una funzione genuina in quanto interrompe la chiacchiera. Controlla la chiacchiera puntando in un certo senso il dito su ciò che il discorso intende dire. In tal modo esso ci porge le cose discusse cominciando per la prima volta a indicare e rivelare il loro aspetto immediato. Questo è il senso di fondo della dialettica platonica. Rivela il loro aspetto immediato, che è quello della chiacchiera, dalla quale bisogna allontanarsi per incominciare a discutere. Essa possiede in se stessa la tendenza a vedere, a scoprire. Non è quindi possibile afferrare la dialettica operando una distinzione fra intuizione sensibile e pensiero, collocando poi la dialettica dalla parte del pensiero. La dialettica non è una sorta di livello superiore del cosiddetto pensiero, in contrapposizione con la cosiddetta mera intuizione sensibile. Al contrario, il suo unico senso e la unica tendenza sono di passare attraverso ciò che viene veramente discusso preparandone e sviluppandone l’autentica originaria visione. Comincia a dire che per arrivare a questa visione, a questo θεωρέιν, occorre passare dalla dialettica. Questo è interessante perché già in Platone l’intendimento è quello, sì, di arrivare al θεωρέιν, al tutto, all’intero, ma come? Attraverso la dialettica, quindi, attraverso il linguaggio. Naturalmente, di questo se ne accorgeranno e questo sbarra l’accesso al θεωρέιν pensato come qualcosa che esiste per sé. Il predominio del λόγος fa maturare in seguito fino a oggi una ripercussione sul teoretico e soprattutto sul logico. La storia della filosofia e la riflessione filosofica di orientamento dialettico hanno trovato in questa dialettica platonica l’ideale più elevato ravvisandovi una modalità superiore del filosofare. Quella che per Platone è un’intima necessità di pervenire alle cose stesse qui diventa un principio che autorizza a giocare con le cose. Sta parlando dei sofisti. Richiamandosi a questa (la verità del filosofare) è stata messa a punto una prodigiosa tecnica del pensiero, una tecnica dell’andirivieni dialettico, un metodo che dà il meglio di sé qualora sia il meno possibile gravato da conoscenze specifiche e non contenga nient’altro che un intellettualismo vuoto e inselvatichito. Un intellettualismo spregiudicato che non ha limiti. Lo sforzo compiuto da Platone nella dialettica percorre anzitutto la via opposta: vedere l’ν λήθειον (ciò che è in quanto tale). Sono tutte parole, come λήθειον debitrici della parola λήθεια, hanno sempre a che fare con il vero. L’altra faccia di questo fraintendimento del senso della dialettica platonica, e forse della dialettica in generale, è il giudizio dispregiativo riservato alla posizione di Aristotele sulla dialettica. Ancora in tempi recenti è stato nuovamente sottolineato che Aristotele avrebbe privato la parola dialettica della sua alta dignità platonica. Ebbene, tali dichiarazioni, che non significano granché su piano filosofico scaturiscono da una concezione romantica della filosofia, l’affermazione coglie nel segno solo se la si accompagna alla giusta motivazione /…/ alle sue spalle si nasconde una commiserazione di stampo romantico. Aristotele privò la dialettica della sua dignità non già perché non la capisce più ma perché la comprese in un modo più radicale, cogliendo nella dialettica di Platone un cammino che procede verso il θεωρέιν e riuscendo a rendere effettivo tutto ciò a cui Platone aspirava. Aristotele vide i limiti immanenti della dialettica perché faceva filosofia in modo più radicale. Grazie a questa delimitazione della dialettica platonica, egli fu in grado al tempo stesso di restituirle i suoi diritti, per quanto relativi. Poté farlo, tuttavia, solo perché comprese quale funzione spetti al λόγος e al διαλéγεσθαι. /…/ La dialettica non è un’arte della persuasione, anzi, proprio il contrario, essa vuole far sì che l’interlocutore veda, vuole aprirgli gli occhi. E qui arriviamo alla questione. Platone parla di λόγος con significati assai differenti. Λόγος significa: 1) λέγειν, discorso; 2) λεγόμενον. Precisamente, tale significato di λεγόμενον è: ciò che è detto, il detto, che può significare ciò di cui parla ovvero il contenuto ma anche il fatto che questo contenuto viene detto, espresso da questo o da quell’individuo. Si tratta di un modo di essere del λόγος che è dominato propri nell’esistere quotidiano, sicché, come dice Aristotele, spesso basta ciò che è detto per destare una πστις, una convinzione intorno a ciò che è detto. Il termine λόγος oscilla innanzitutto all’interno di questi tre diversi significati. Inoltre, λόγος significalo stesso che εδος (immagine). Tale significato dipende dal fatto che λόγος può voler dire λεγόμενον, ciò che è detto, e precisamente, poiché λέγειν significa ποφαίνεσθαι, manifestazione, fa vedere ciò che il dire fa vedere dell’ente ossia l’ente così come appare, come è mostrato nel λόγος in quanto ποφαίνεσθαι, sicché il λόγος può essere spesso identificato con εδος ovvero idea. Qui intanto vediamo come lεδος, idea, sia strettamente connessa con il λόγος, è il λόγος che fa vedere l’idea, cioè mi fa vedere l’immagine. E questo non è trascurabile. Con significato ancora diverso troviamo: un’identificazione di λόγος con νος, νόηινCon l’intelletto, con il pensiero. Questi sono tutti significati che si possono attribuire al λόγος. Da quanto già detto sappiamo che il λόγος è quel fenomeno che viene indicato come determinazione fondamentale dell’essere dell’uomo: l’uomo è quel vivente che parla. Poiché, però, questo parlare è la modalità di attuazione del vedere… Qui Heidegger fa delle affermazioni sulle quali si sarebbe dovuto soffermare, perché dire questo parlare è la modalità di attuazione del vedere…, cioè io vedo se parlo, se non parlo non vedo. In effetti, è così, il bruco non vede quello che gli sta intorno e non può vedere perché non parla. Noi vediamo le cose perché parliamo. Poiché, però, questo parlare è la modalità di attuazione del vedere, del percepire, tanto quello della ασθησις quanto quello del νόηιν, accade che il λόγος, come carattere fondamentale dell’essere dell’uomo, stia al tempo stesso al posto dell’altra determinazione della ζωή dell’uomo, cioè il νος (pensiero). Quindi, il pensiero, seguendo il discorso di Heidegger, determina tanto il vedere quanto, di conseguenza, il pensiero. Attraverso questa implicazione platonica si perviene indirettamente a tradurre il λόγος con ragione, però λόγος non significa ragione, non possiede in se stesso il senso del νόηιν (del pensiero ragionante) ma può essere soltanto la modalità di attuazione del percepire stesso. A proposito di questo uso bisogna fare chiarezza su certi dati di fatto, che ne costituiscono implicitamente il presupposto: λόγος significa relazione. Più chiaro di così: λόγος è relazione. Che cos’è la relazione? È un rinvio da un elemento a un altro, è un segno, direbbe Peirce. Questa accezione si comprende per via del significato fondamentale di λέγειν. Λέγειν significa: λέγειν ti katà tinòs, rivolgersi a qualcosa in quanto qualcosa ovvero chiamare in causa qualcosa in riferimento a qualcosa. È il linguaggio che fa questa operazione. Nel λέγειν è insito un riferimento a: il riferimento di una cosa a un’altra… Un rinvio, nient’altro che questo. …perciò λόγος vuol dire anche relazione. Oltre a tutti i significati che abbiamo prima elencati, che sono solo una piccola parte. Questo significato derivato di relazione risale al λόγος in quanto rivolgersi a qualcosa. Pertanto, è anche comprensibile che λόγος significhi νάλογον, corrispondente, come ciò che corrisponde. La corrispondenza è una determinata modalità dell’essere riferito a… /…/ Se prendiamo il dialogo Il sofista nel suo insieme e prescindiamo dal titolo, a un più attento esame esso risulta introdurre una innovazione degna di nota rispetto alle precedenti trattazioni della filosofia greca, nel senso che ora, per la discussione dell’essere e dell’ente, viene assunto come terreno di indagine un determinato tipo di esistenza, quella del filosofo. Infatti, il dialogo non ha altro scopo che l’esplicazione di questo terreno dell’esistere concreto e in tal modo la creazione, per dir così, dell’ambiente all’interno del quale l’ente possa mostrarsi nel suo essere. Ecco, quindi, la differenziazione tra il sofista e il filosofo. Qui riprende la differenza che fa Platone tra il sofista, il filosofo e il dialettico … approcciarsi di tale terreno diventi difficile ma il risultato è più ricco, lo mostra il fatto che anche il non-ente viene riconosciuto nel suo essere e comunque viene posto in questione sia dal dialettico che dal filosofo. In entrambi i casi e in generale risulta che dell’ente si può decidere qualcosa solo dal punto di vista del suo essere, in quanto l’ente c’è, come diciamo noi, in quanto l’ente può farsi incontro. Unicamente di questo si tratta di fissare: l’ente che si fa incontro, nel suo modo più immediato e più originario di farsi incontro, e all’interno di questa modalità interrogarsi sulla maniera in cui si mostra. /…/ Questa domanda sull’essere, sulla scorta del λέγειν, è nel contempo la vera e propria origine della logica. La domanda sull’essere. La logica in senso greco innanzitutto non ha assolutamente nulla a che fare con il pensiero ma sta tutta all’interno del compito di interrogare l’essere. Per il pensiero greco, cioè, la logica è un domandare. Così il Sofista, e con esso gli altri dialoghi, è un mutamento degno di nota tra la posizione di Parmenide e quella di Aristotele, la quale porta a compimento tutte queste istanze della ontologia greca. Quindi, la logica come il domandare, semplicemente. Mentre la logica, così come è pensata oggi, è quel meccanismo che consente di fornire risposte. Per il greco no, non dà risposte, la logica consente di domandare. Il λόγος, dunque, il discutere del mondo e dell’ente, ha un ruolo di filo conduttore in quanto nel λεγόμενον (il detto) c’è l’ente. Anche laddove, come in Aristotele, l’indagine sull’essere va al di là della dialettica, senza restare prigioniera dell’ente cui ci si rivolge, fino al puro coglimento delle ρχαι al θεωρέιν, anche in questo caso si può mostrare che il λόγος è ancora fondamentale per il definitivo coglimento dell’essere. Anche Aristotele, pur superando la dialettica, resta comunque orientato al λόγος in tutta la sua indagine intorno all’essere. Aristotele non si discosta mai dal λόγος, si rende conto che lì c’è il nodo di tutta la questione. Che poi riesca a scioglierlo oppure no, questo è un altro discorso, però si accorge che lì c’è la questione. Questo stato di cose è l’origine di ciò che oggi viene chiamata ontologia formale /…/ Il διαλéγεσθαι (dialogo) è un modo di interrogare l’ente in vista del suo essere, un modo il cui filo conduttore è e rimane il λόγος, ma per Aristotele il λόγος si mostra nella sua peculiare struttura relazionale. Il λέγειν è sempre un λγειν τ κατά τινς (un dire qualcosa su qualcos’altro). Nella misura in cui il λόγος si rivolge a qualcosa in quanto qualcosa, esso è fondamentalmente inadatto a cogliere ciò che per il suo stesso senso non può più essere preso per qualche cos’altro, ma può essere colto soltanto in se stesso. Assolutamente inadatto il λόγος a cogliere che cosa? Risponde alla domanda da cui siamo partiti: a cogliere il θεωρέιν; non lo può fare, non può cogliere qualcosa che può essere colto soltanto in se stesso. Qui, in questa struttura immediata e predominante, il λόγος, per così dire, fallisce. Rispetto al θεωρέιν fallisce. Rimane, se si procede oltre a esso, soltanto una nuova idea di λόγος: il λόγος κατά ατ (il linguaggio per se stesso), come ha mostrato Aristotele in Metafisica VII, Cap. IV. Ricollegandosi all’idea di una scienza dell’essere originaria e primaria, Aristotele si richiama anche ai dialettici e ai sofisti, in quanto dice: “Anche costoro hanno la pretesa di essere filosofi”. Unitamente a tale pretesa di filosofia, la loro conoscenza e il loro interesse gnoseologico sono rivolti all’intero, allo όλον (il tutto), a tutto l’ente e non a un determinato ente. In questa trattazione Aristotele, dal fatto che vi sono filosofi inautentici come i dialettici e i sofisti, trova una conferma dell’idea secondo cui la filosofia mira all’intero. Il fatto è che anche i sofisti miravano all’intero, ma in un altro modo. Tuttavia, essa avveniva all’intero, όλον, in un senso ben determinato, non nel senso quasi di enumerare le peculiarità che sono contenute in tutti gli enti che ci sono e di raccontare di che tipo di enti si tratti, come siano fatte nel dettaglio le cose; essa mira, invece, all’ente in quanto esso è. Essa non si indirizza pertanto, come diremmo noi, all’ontico, all’ente stesso, in maniera che io sia del tutto assorbito dall’ente, ma all’ente chiamato in causa, l’ν in quanto ν. /…/ C’è una scienza siffatta, dice Aristotele, che θεωρέιν osserva το ν ν θεωρέιν osserva l’ente in quanto ente. …ciò appunto in vista del suo essere. Dunque, non l’ente in quanto altro, in quanto è affatto in questo o in quel modo, bensì in quanto esso è, e ciò che in esso, vale a dire nell’ente in quanto ente, iparchei, è sin da principio. /… / una scienza che contempla i caratteri ontologici dell’ente, Aristotele la chiama πιστήμη, e però πιστήμη non è una scienza originaria rispetto a σοφία. Infatti, πιστήμη è un conoscere teoretico che presuppone determinati principi, assiomi e concetti fondamentali… Il θεωρέιν no, non presuppone niente. …e, dunque, a rigore è contrario al senso dell’πιστήμη che essa possa afferrare tematicamente alcunché di originario nell’originarietà che gli compete. L’πιστήμη non può cogliere il θεωρέιν, perché l’πιστήμη è un’articolazione, è un avvicinarsi a qualche cosa, è un discutere di qualche cosa. Quello che Aristotele vuole dire, senza alcun ricorso a una terminologia specifica, è che a fronte delle singole scienze concrete vi è, come diremmo noi, una scienza che osserva, θεωρέιν, l’ente nel suo essere. Qui, dunque, il termine πιστήμη possiede il senso amplissimo di θεωρέιν. Non è possibile appiattire questa espressione nel senso dell’idea apodittica (dimostrazione); quello che è in gioco qui è un tipo di conoscenza le cui modalità sono appunto ancora da definire. Di fronte all’ν ν, cioè all’ente in quanto ente, è proprio la σοφία a costituire problema. Cioè: questa conoscenza del θεωρέιν, questa conoscenza come contemplazione del tutto. Ci sono varie scienze, ciascuna si occupa di un certo ritaglio. Ciascuna di queste scienze possiede il suo ambito specifico, a ciascun settore di tali scienze corrisponde una determinata ασθησις (percezione), una percezione originaria in cui è afferrato in modo più o meno esplicito quel carattere fondamentale di un certo ambito, in geometria la relazione spaziale o posizionale, che non è già data, fatto con l’essere in quanto tale; nella fisica l’ente in quanto tale è mosso, il fisico non parte dalla dimostrazione che l’ente di cui si occupa è in movimento, perché questo è già visto sin da principio come mosso… Come Zenone: lui vede che la cosa si muove. Ciascun ramo, ciascun settore autonomo dell’ente possiede una determinata ασθησις, che offre accesso al suo carattere primario, spazio, movimento, ecc. Ciò significa che questa μία ασθησις è in rifermento a ciò che viene visto, cioè al veduto per ritagli, ritagliati dall’όλον, dall’intero. Sarebbero gli astratti rispetto al concreto. Invece la scienza che considera l’essere dell’ente non coincide con alcuna di queste, le quali chiamano in causa l’ente per ritagli. /…/ Aristotele non può più dire, come ancora aveva fatto Platone, che l’essere dell’ente stesso sia a sua volta un ente… È l’accusa che Heidegger fa a tutta la filosofia, e cioè di avere scambiato l’essere per l’ente, perché parlando dell’essere, di fatto, trasformo l’essere in ente. L’essere dell’ente è invece appunto qualcosa di affatto peculiare, che dal canto suo non può più essere caratterizzato servendosi di ciò che esso stesso determina in senso categoriale. Pertanto, Aristotele si aiuta dicendo: l’essere e la moltitudine di caratteri d’essere che vi pertengono, che vi è già di per sé se stesso. Ecco: l’essere e la moltitudine di caratteri d’essere che vi pertengono sono già lì, sono già in lui, cioè, l’essere è qualche cosa che ha già in sé tutto ciò che ne possiamo dire. Lui non dice del linguaggio, è ovvio, ma se noi intendiamo meglio la cosa è il linguaggio che ha già in sé tutto ciò che posiamo dire di lui, è già tutto lì. Lui (sempre Aristotele) usa il termine Φύσις per sottolineare che questi caratteri dell’essere dell’ente non sono qualcosa che pertenga all’ente solo quando esso viene apostrofato nel discorso, bensì qualcosa che per l’ποφαίνεσθαι, per il mostrare nel λέγειν, c’è già. È già tutto lì, è questa la questione straordinaria che Aristotele pone tra le righe, perché non la porta a compimento, il suo intendimento era un altro. Nell’essere tutte le sue caratterizzazioni, tutto ciò che possiamo dirne è già presente nell’essere. L’essere è queste cose qua, è tutte queste cose che possiamo dire, è il linguaggio. Φύσις denota appunto un ente che ha in se stesso l’ρχή del suo essere, mentre nella ποίησις (produzione), che è il suo contrario… ποίησις è la produzione, Φύσις è ciò che si produce da sé. …l’ente c’è solo in virtù del conoscere, per il fare dell’uomo. Adoperando per l’ν (ente) o, più precisamente, per i caratteri dell’esistere dell’essere questa espressione Φύσις……, Aristotele vuole alludere al fatto che essi ci sono, come determinazioni a partire da sé medesimi. Anche l’idea di Φύσις, di qualcosa che è per sé, che non viene dall’uomo, non è un artefatto dell’uomo, è qualcosa con cui l’uomo esiste, è ciò per cui e in cui esiste. Sono tutti modi per incominciare ad approcciare duemilacinquecento anni fa la questione del linguaggio. Gli antichi si interrogavano sugli στοιχεα, sugli elementi, quindi, sull’acqua, sul fuoco, ecc. Essi però non erano ancora giunti a quel livello di osservazione in cui si comprende che l’ente in quanto ente non può essere spiegato a partire da un determinato settore dell’ente, bensì solo dall’essere. La questione è questa: non posso cogliere l’astratto al di fuori del concreto. Il tentativo è sempre stato e continua a essere quello di cogliere l’astratto fuori del concreto, cioè, di cogliere l’ente senza l’essere. Era questa la critica che Heidegger fa a tutto il discorso occidentale: cogliere l’ente senza l’essere, addirittura pensando di avere colto l’essere non accorgendosi che invece sta parlando dell’ente. Questo essere è quello che diceva prima, e cioè è ciò che da sempre c’è già, e per ciò che da sempre c’è già i Greci avevano questa parola Φύσις, per indicare ciò che è da sempre e che non dipende dalla tecnica, dal fare dell’uomo. L’ente viene dalla Φύσις, viene da qualcosa che c’è già da sempre, cioè dal linguaggio, che è da sempre lì e che è quella cosa che consente di pensare tutte queste cose. Questa scelta è quella che rientra in senso precipuo nel campo di competenza del filosofo, περί τατόν (da se stesso), vale a dire sulla determinazione dell’ente è necessario mostrare l’essere dell’ente. Il compito del filosofo è quello di δύνασθαι, recare in sé in quanto conosce la possibilità di impostare l’indagine περί τατόν su tutto. Ora, qui pone una questione interessante. L’unità, il fatto cioè che ogni alcunché è appunto un qualcosa, rientra anch’essa in questa scienza. Lo ν (uno) appartiene anch’esso la campo tematica della scienza originaria dell’essere, al quale pertengono anche altre queste questioni, se ci sia cioè qualcosa che, essendo uno, sia contrapposto all’uno. Inoltre, che cosa sia propriamente questo stare di contro (in quanti sensi, in quanti modi) si possa parlare di questo stare di contro, questo è il problema. Almeno per Aristotele. La dialettica si distingue, dunque, dalla filosofia vera e propria, le rimane preordinata e subordinata; rispetto a quell’altra, cioè alla sofistica, la filosofia si distingue nel modo di anticipazione del tipo di esistenza. In altri termini, il βίος, la vita del filosofo è improntata al puro realismo. Il filosofo si è assolutamente deciso a essere il rappresentante di questa indagine radicale della pura realtà delle cose. Per Aristotele, il filosofo deve dire esattamente come stanno le cose: tutta la ricerca deve andare in questa direzione, questo è il suo τέλος. Qual è la critica che invece fa ai sofisti? Riguarda la paideia, la formazione, l’insegnamento. Mentre il filosofo insegna a cercare l’essere dell’ente, nel senso di ciò che l’ente veramente è, il sofista sa che questa ricerca è inutile, vana, e quindi non se ne occupa. Il sofista non vuole insegnare a trovare la realtà delle cose, perché sa che non c’è. Quindi, che cosa fa? Insegna a giocare con le parole, a giocare con i discorsi. Ma la differenza tra il filosofo e il sofista sta proprio nella paideia, cioè nel tipo di formazione, di insegnamento che questi fanno. Il sofista, come dicevamo, insegna ai giovani, facendosi pagare, a parlare bene, a sapersela cavare nei discorsi, a vincere gli agoni dialettici. La sofistica persegue l’ideale di una esistenza spirituale orientata meramente alla forma del saper parlare, la quale aveva certo per i Greci un significato speciale, essa coltiva l’ideale del saper prettamente e ben discorrere e parlare di ogni cosa a prescindere dal fatto che quanto detto quadri oppure no. Il sofista si decide per questo ideale estetico-formale dell’esistenza umana, cioè propriamente per l’irrealismo, mentre il filosofo ha la προαρεσις (intendimento) per il βίος del puro θεωρέιν dell’ληθες, cioè per la vita puramente contemplativa di ciò che in esso stesso è scoperto. Questa è la differenza fondamentale tra il sofista e il filosofo. Il sofista non si ferma al gioco di parole perché non sa trovare l’ente, ma è il contrario, si ferma al gioco di parole perché si è accorto che la verità dell’ente non è reperibile, se non in quanto contrario a se stesso. È problema dell’ente e del non-ente che Platone cerca di risolvere. Il problema è che non riesce a separare l’ente dal non-ente, il vero dal falso. Questo è il problema reale del Sofista, e non ci riesce. Il che significa che, non riuscendo a separare le due cose, non c’è l’ente in quanto tale da contemplare, non c’è questo θεωρέιν da mettere in atto e vedere l’ente senza il λόγος, cioè, senza il non-ente, perché il λόγος impone all’ente che ci sia anche il non-ente, perché è un rinvio. L’ha detto prima: il λόγος è relazione di qualcosa con qualcos’altro. Con che cosa? Con qualcosa che lui non è. La considerazione del fatto che ogni volta che dico A in realtà dico B, dicendo A dico B, sempre e necessariamente. Mentre il sofista non bada al contenuto del discorso, bensì solo e unicamente al discorso stesso, a ottenere ragione e risultare brillante. Il sofista non è interessato a una verità che dovrebbe essere dentro il discorso; no, perché sa che non c’è; ecco perché non la cerca. Più del sofista gli eleati – infatti, qui Heidegger fa una certa confusione – Zenone non è che non si accorge che Achille supera la tartaruga, non è che non lo vede, lo sa, ma sa anche molte atre cose, sa che lo vedo ma che non lo posso dimostrare. Questa è la questione del vero. Questo termine, il vero, l’ληθες, per potere essere utilizzato deve essere dimostrato essere tale, sennò non me ne faccio niente di questa parola. E come lo dimostro se la dimostrazione è un rinvio senza fine? Non lo dimostrerò mai, cioè non c’è la possibilità di dimostrare che il vero è vero. Ma se il vero non è vero è falso, cioè propriamente è non-vero. Quindi, il vero è non-vero. Questo è il messaggio degli eleati; è contro questo che Heidegger chiama i dialoghi scientifici di Platone cercano di porre riparo a questo fatto. Pertanto, l’idea qui dei sofisti, la παιδεία, è una certa educazione che insegna a parlare di tutte le cose. Tale παιδεία ha carattere formale, nel senso che ciò che più conta è il ben parlare, il saper parlare bene. Anche Aristotele conosce questo ideale di educazione nel senso della buona cultura scientifica; anche in lui è presente, per un certo verso, un’accezione formale. La παιδεία non è limitata a un particolare settore, però in Aristotele παιδεία significa essere educati in vista della possibilità di misurarsi di volta in volta con la cosa di cui si parla; quindi, precisamente il contrario di ciò che παιδεία significa per il sofista: essere educati nel senso di una sostanziale e ininterrotta noncuranza della cosa. Perché come determino la cosa se non in quanto altra cosa? Ciò che viene interpretato in questo senso per loro (sofisti) in realtà non è nient’altro che un oggetto del discorso, dell’argomentazione e non dell’oggetto di osservazione. Ovviamente non può essere oggetto di osservazione. Cosa osservo? Osservo A, ma osservando A mi ritrovo qualcosa che è non-A, insieme, simultaneo. I sofisti non hanno l’λήθεια così da rivolgersi alla cosa scoperta ma si muovono in una δοξαστική perì panton πιστήμη (un sapere sul tutto che riguarda l’opinione) ovvero in una scienza solo δοξαστική, che possiede soltanto il sembiante del sapere e pretende di estendersi a tutto. Si tratta solo di una parvenza, è un sapere solo presunto poiché si muove unicamente all’interno di determinati punti di vista. Δοξαστική va inteso qui in un duplice senso: da un lato significa lo stesso che ϕαινμενη (apparente) e nel contempo gli è racchiuso il motivo per cui questa πιστήμη è ϕαινμενη. Questa scienza è apparente perché essa non offre l’λήθεια ma soltanto doxai, punti di vista sulla cosa, non la cosa stessa. Questa è l’accusa fatta da sempre agli eleati e ai sofisti, mettendoli insieme generalmente: non si educa a vedere la cosa in sé, a come stanno veramente le cose, la realtà delle cose e, quindi, è un insegnamento non funzionale a nessun governo, non solo non funzionale ma contrario. Da qui qualche problema che ebbero i sofisti. Con la meditazione sull’ληθεεινHa ragione Heidegger a porre l’accento su questa parola perché è centrale: il rendersi manifesto di qualche cosa attraverso il linguaggio. …abbiamo raggiunto nel contempo il terreno per capire perché il sofista diventi tema di partenza della questione sull’essere del non-ente. Se infatti l’ληθεειν ha il senso di scoprire l’ente nel suo essere, allora lo pseudestai, l’occultare, l’ingannare come suo opposto, è il tipo di atteggiamento in cui l’ente viene occultato e contraffatto. È il modo in cui qualcosa si mostra, ovvero è, come qualcosa che esso in fondo non è, sicché il non-ente, ciò che ha la fatticità dell’errore e dell’inganno, può essere fatto vedere come ente. Questa è l’intima interconnessione tra ληθες ν e ψευδής μή ν (vero come ente, falso come non-ente). /…/ Seguendo Aristotele abbiamo compiuto alcuni passi nel chiarimento della questione dell’ν nel senso che non si tratta di un determinato ambito di cose bensì di πάντα, dell’ν ν, dell’όλον (tutto, intero). La questione verte sulle condizioni che costituiscono l’ente nel suo essere. Questa idea di filosofia prima, come la chiamava Aristotele, intesa come scienza originaria dell’ente, viene da lui incrociata con un’altra scienza fondamentale, che egli chiama Θεολογική (teologia). Sicché abbiamo πρώτη φιλοσοφία (filosofia prima), Θεολογική (teologia) e poi la scienza che considera l’ν ν (ente in quanto ente). Quest’ultima fu in seguito chiamata ontologia. Dunque, la teologia in Aristotele. La teologia è interessante in Aristotele. La teologia qui ha il compito, dice, di chiarire l’ente come totalità, όλον, l’ente del mondo, la natura, il cielo e tutto ciò che vi è sotto di esso, per dirla in termini rudimentali, nelle sue origini in ciò grazie a cui tutto questo è. La teologia, quindi, è un sapere intorno al tutto, intorno all’essere. Dice che la teologia ha per tema il tutto. L’ente per i Greci è ciò che è presente in senso proprio. La teologia contempla l’ente in ciò che esso è sin da principio, in ciò che costituisce nel senso più proprio e supremo la presenza nel mondo… È ciò che mi si presenta, è ciò che vedo, che incontro. Questo è l’essere per i Greci. Il tema della teologia è l’ente in quanto presente in tutte le determinazioni, non tagliato a misura di un determinato settore, non solo il motore immobile del cielo ma anche ciò che sta sotto il cielo, tutto ciò che è, l’ente matematico oppure quello fisico. Per la teologia, dunque, il tema è la presenza più propria e suprema. Per l’ontologia il tema è ciò che costituisce la presenza come tale in generale. La presenza più propria e suprema sarebbe il θεωρέιν. L’evoluzione della scienza greca viene sospinta entro queste due dimensioni originarie dalla meditazione sull’essere. La vera e propria difficoltà nel comprendere queste cose e dare loro uno svolgimento produttivo nell’assimilarle non sta nel Θεολογική (teologia) ma piuttosto nell’ontologia. /…/ Si getta uno sguardo d’insieme sulla evoluzione di tutta questa problematica dai Greci, in Aristotele, fino all’età presente, si può dire che di fatto non abbiamo mosso alcun passo in avanti, anzi, che la posizione che i Greci avevano raggiunto per noi è andata perduta e che, quindi, non comprendiamo nemmeno più tali questioni. L’intera logica di Hegel si sviluppa entro una completa incomprensione, un totale fraintendimento di tutte queste domande. Soltanto Husserl ha di nuovo, vorrei dire, scoperto, nel quadro della sua idea della logica, la domanda sul senso delle determinazioni formali, anche se certamente solo in una prima, ma assai importante, impostazione. Non è un caso che tale domanda sia riaffiorata nel contesto del chiarimento dell’idea della logica proprio perché, e con ciò arriviamo alla conclusiva caratterizzazione della scienza fondamentale dei Greci, della propria filosofia, questa scienza è in ultima istanza orientata al λόγος o, più precisamente, perché il suo tema è l’ente inteso come ν λεγόμενον, ovvero ente cui si è rivolti nel discorso, ente che è tema per il λόγος. La critica che qui fa a Hegel non è del tutto errata. Hegel ha coto delle questioni con assoluta precisione, ma ha mancato quello che invece è presente in Aristotele, anche se poi Aristotele ha fatto finta di non vederlo, e cioè che questo ληθεειν, questo rivelarsi dell’ente, avviene nel λόγος, avviene nel dire, nel detto; senza il λόγος non si mostra niente. Questo in Hegel manca, manca la questione relativa al linguaggio, perché è nel linguaggio che avvengono tutte quelle cose che descrive in modo molto preciso relativamente a qualche cosa che è linguaggio ma che lui non coglie come linguaggio. In tutto ciò la questione centrale è che questo ente si coglie attraverso il dialogo; è il dialogo che lo mostra, è il dire che fa apparire l’ente in quanto ente. Ma questo dire, questo dialogo, fa apparire l’ente stagliandolo dal tutto, dall’essere, e questo essere è ciò di cui Aristotele ha inteso come teologia, cioè, come un discorso sul tutto, sull’essere in quanto tutto, in quanto intero, in quanto concreto. Aristotele si è accorto a modo suo che l’ente, in quanto astratto, può essere colto solo in presenza del concreto. E soltanto il discorso lo può fare vedere, sennò, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, senza il λόγος io non vedo. Ecco, il sofista è colui che si è accorto di questo: se vedo solo parlando allora è imparando a parlare bene che io posso far apparire le cose, che non ci sono se non parlo, non sono lì in attesa di me che le scopro. In Aristotele c’è un’oscillazione continua: lui vorrebbe sganciarsi completamente, anche Platone in buona parte, lo stesso Socrate che va contro i sofisti utilizzando i loro stessi sistemi, il metodo socratico in fondo è un metodo sofistico. Ciò che li distingue, come abbiamo visto, è la παιδεία, cioè il fine, il τέλος: il filosofo deve far aprire gli occhi perché le persone vedano, ma vedano che cosa? Vedano quello che realmente c’è. Quello che realmente c’è è quello che non deve più essere discusso, è quello intorno al quale ci si raggruppa e si stabilisce il vero autentico essere delle cose, mentre il sofista no, non fa niente di tutto ciò. Non perché non lo sappia fare, ma perché sa che non può farlo, che è un’operazione votata al fallimento. Ciò sia dunque sufficiente come primo generalissimo orientamento preliminare su questioni che dovremmo affrontare in modo ancora più preciso in riferimento al sofista. /…/ Il filo conduttore è dato dal discorso, dal discutere. Questa irruzione del λόγος, del logico, inteso in questo senso greco, all’interno della problematica dell ν, è motivata dal fatto che l’ν, l’essere stesso dell’ente, viene primariamente interpretato come presenza, e il λόγος è il modo con cui faccio primariamente presente a me stesso qualcosa e precisamente ciò di cui parlo. È il λόγος che mi dice che c’è qualche cosa da vedere e che allora vedo.