4 dicembre 2024
Filone di Alessandria Commentario allegorico alla Bibbia
Siamo a pag. 148. Scriveva Aristotele: “Vi sono cose molto più divine dell’uomo per natura, come per restare alle più visibili, gli astri di cui si compone l’universo... /…/ Filone finisce con il rovesciare questa prospettiva: la cosa più divina per natura, fra le cose visibili, cioè, create, è l’uomo, che è un vero microcosmo, ed anzi qualcosa di più, dato che, come abbiamo visto, è l’unica creatura che Dio abbia fatto a Propria somiglianza e in cui, addirittura, ha abbia infuso il Suo Spirito. Come si sappia che l’uomo è stato fatto a immagine e somiglianza di Dio, questa non è dato sapere… dovremmo averlo visto. Questa è, dunque, la prima tappa della migrazione, perché parla dell’ascesa dell’uomo verso Dio. Cosa poi ripresa nel Medioevo da Bonaventura da Bagnoregio, che ha scritto L’itinerario dell’anima a Dio. La seconda tappa consiste nella conoscenza di se medesimi, al fine di accertare, dice Filone con verso omerico, “che cosa c’è di bene e di male nel tuo palazzo”, ossia in se medesimi. Questa seconda tappa implica una conoscenza (1) del nostro corpo, (2) dei nostri sensi e (3) del nostro linguaggio, e il successivo distacco da questi tre domini, che si rivelano ingannevoli. 1) Il corpo, infatti, si rivela come una sorta di “prigione infamante” che ha come carcerieri i piaceri e i desideri. 2) I sensi ci alienano, per così dire, e ci attirano verso gli oggetti delle loro brame, facendoci rinunciare a ciò che è a noi proprio a beneficio di ciò che è a noi esteriore ed estraneo. 3) Il linguaggio ci inganna con la bellezza apparente dei nomi, i quali rischiano di velare, anziché disvelare, la reale bellezza, ossia di presentare l’apparenza invece della realtà, la copia invece degli archetipi. E così giustifica l’ermeneutica. I nomi nascondono, c’è sempre qualcosa di nascosto che occorre disvelare.
Intervento: Come se avessero tutti travisato il detto di Eraclito.
Infatti, lo diceva forse Hadot, che la traduzione del detto di Eraclito con “la natura ama nascondersi” è una traduzione neoplatonica; anzi, potremmo dire che è il motto neoplatonico per eccellenza. A pag. 149. La terza tappa, infine, consiste nel rifugiarsi nella nostra stessa anima (ossia lo stesso nostro intelletto) deve essere trascesa, giacché, se essa non leva lo sguardo al di sopra di sé, cioè alle realtà incorporee e a Dio, fatalmente si ritrova asservita a qualcosa che è solamente umano e terreno. Ecco un, brano molto indicativo: “Allo stesso modo in cui hai abbandonato tutte le altre cose, abbandona anche te stesso, esci da te. Eh. Che cosa significa questo? Non usare come fossero tuoi l’intelletto, la conoscenza e la comprensione, ma portali e consacrali a Colui che è la causa di ogni pensiero esatto, e di ogni comprensione infallibile”. L’esattezza è un dono di Dio, praticamente. Quando un calcolo è esatto, devi rendere grazie a Dio. Questa “uscita da sé”, ossia dalla stessa anima o intelletto, che è un “donare” il nostro pensiero a chi ne è Causa, coincide con una unione mistica ed estatica con Dio. A pag. 150. Il senso di questo itinerario dell’uomo a Dio è chiarissimo: dalla conoscenza del cosmo dobbiamo passare alla conoscenza di noi stessi, ma il momento essenziale consiste nel prendere coscienza che noi siamo una nullità… Questo è fondamentale. …è esattamente nel momento in cui si riconosce il proprio nulla, ossia nel momento in cui si comprende che tutto ciò che abbiamo non è nostro e lo doniamo a Chi ce l’ha donato, che Dio si dà a noi. Ecco tre eloquenti passi: “Fu proprio quando Abramo ebbe conosciuto più a fondo se stesso che dispero di sé, e questo in vista di raggiungere l’esatta conoscenza dell’Ente che veramente è”; “Il momento giusto per la creatura di incontrare il suo Creatore viene quando essa ha riconosciuto la propria nullità”; “È indizio di un’anima straordinariamente grande questa fierezza di travalicare il creato e di trascenderne i limiti per attaccarsi solo all’Increato... Ha detto, quindi, che la necessità dell’ermeneutica viene dal fatto che le parole sono ingannatrici. C’è la necessità, quindi, intanto di avere a supporto un Dio che indichi la diritta via e che anche fornisca gli strumenti per disvelare ciò che è nascosto dalle parole, cioè la vera parola, la parola di Dio. A pag. 151. Piuttosto, egli (Mosè) ha raccontato i fatti antichi, cominciando direttamente dalla creazione dell’universo, per dimostrare due verità assolutamente indispensabili: l’una, che la stessa persona, Padre e Creatore del mondo, era anche, in realtà, il Legislatore (nomothéten, colui che dà i nomi); l’altra, che chi avesse osservato le leggi avrebbe necessariamente scelto di ubbidire alla natura e avrebbe conformato la sua vita all’ordine universale, accordando armoniosamente le parole agli atti e gli atti alle parole”. Nomina sunt consequentia rerum, dicevano. Dio, in quanto creatore del cosmo, è dunque Colui che impose una legge razionale alla materia caotica (ed ecco la legge di natura)… Qui chiaramente c’è Platone, in particolare contro Democrito. …ma in quanto fu creatore anche dell’uomo, è l’uomo stesso è una immagine di Dio e partecipa in qualche modo della Sua natura, pone interiormente all’uomo una traccia di questa razionalità (ed ecco il principio della retta ragione, ovvero della legge razionale). Il Dio ha lasciato una traccia in noi, che è quella che poi ci permette di andare di nuovo verso di lui; quella che poi Plotino utilizzerà come un volere tornare all’Uno, perché ha lasciato questa traccia. Infine, siccome Dio è provvidente e la mente umana è debole e fallibile, ecco la terza legge, quella rivelata, la quale è in armonia con le prime due. A pag. 153. L’essenza propria dell’uomo virtuoso è dunque quella di riconoscersi impotente. Insiste continuamente su queste cose: l’impotenza dell’uomo, la nullità dell’uomo di fronte a Dio. È un invito a disprezzare quella che i greci chiamano hybris, l’audacia, la sfrontatezza. Riconoscersi impotente è atto di scienza oltre che di fede, perché corrisponde all’esatto status ontologico di ogni creatura… Se ogni creatura è stata creata da Dio, è chiaro che a fronte di Dio è la nullità. …e di offrire a Dio tutto ciò che ha ricevuto, ossia tutto. E tale atteggiamento, osserva ancora Filone, non è solo caratteristico dell’uomo, ma è tipico del mondo intero, perché anch’esso s trova ad essere in ogni sua parte dipendente da Dio. “La vita che conviene al mondo”, osserva l’Alessandrino, “consiste nel rendere grazie continuamente e senza sosta al Padre Creatore…, per mostrare che, senza risparmiare nulla di sé, esso si offre in sacrificio nella sua interezza a Dio che l’ha creato”. Sono, questi, passi di grande rilievo, perché mostrano in atto, in tutta la sua pregnanza, la stretta analogia che Filone pone tra la legge di natura e la legge mosaica (la legge di Dio): è la legge di Mosè che fissa le regole del culto, ovvero del retto modo di rendere grazie. Ma la grazia è pur sempre la causa del mondo, del suo sussistere, della sua struttura finalizzata all’uomo. Così la “filosofia mosaica”, prima ancora che come una nuova filosofia, si impone con un nuovo modo di fare filosofia, ossia come un paradigma alternativo e globale, destinato a mettere in crisi quella fondata sulla pura teoresi. Cioè, adesso abbiamo la parola di Dio, quindi, finalmente non abbiamo più bisogno di affidarci unicamente al pensiero teoretico, che è fallace, ma possediamo finalmente la verità. Questa idea, che il pensiero teoretico sia da abbandonare perché fallace, è ancora presente oggi, rispetto, per esempio, alla scienza: la scienza non può spiegare tutto, come se esistesse un tutto da spiegare. E, quindi, abbiamo bisogno della parola divina. Ora qui iniziamo a leggere Filone, perché fino ad adesso abbiamo letto solo l’introduzione di Radice. Filone di Alessandria, La creazione del mondo. Noi leggiamo Filone per un motivo, perché noi vogliamo sapere da Filone - e lui dovrà dircelo - a che cosa serve l’ermeneutica e perché esiste. E lui ce lo dice, direttamente o indirettamente, perché la parola di Dio talvolta si contraddice: una volta dice una cosa, una volta dopo dice il contrario. Ma non possiamo pensare che Dio si contraddica: se è Dio non si contraddice. E, allora, ecco, dice Filone, a che cosa serve l’ermeneutica. Perché la contraddizione non è altro che i molti e l’ermeneutica, l’interpretazione, serve a ridurre in molti all’uno; perché, se la parola di Dio prima dice una cosa, poi ne dice un’altra, e se io interpreto questa parola - sempre ispirato da Dio, ovviamente - in un modo particolare, ecco che la contraddizione scompare e, quindi, posso eliminare i molti dall’uno - uno che in questo caso sarebbe la parola di Dio. E così mostra a che cosa serve l’interpretazione: a fare in modo che quella cosa, che io leggo o che ascolto, dica esattamente quello che voglio io, sia quello che voglio io. A questo serve l’interpretazione, sennò non ci sarebbe motivo di interpretare: ciascuno direbbe le cose così come le pensa, come le immagina. Perché interpretarle se non per trasformare queste cose in un’altra cosa, che è quella che voglio io? Naturalmente, la trasformo in modo tale che questa trasformazione avvalori, conforti la mia volontà di potenza. Come nel caso di Filone, e cioè le sue interpretazioni, le sue allegorie ci dicono che Dio sta dicendo esattamente quello che lui vuole che dica, e cioè, per esempio, che non ci sia più una contraddizione e che, quindi, il suo Dio è il Dio di verità perché, se c’è un Dio che si contraddice, allora non è il Dio di verità. Siamo a pag. 12. Ora, è certamente una tesi insostenibile e nociva quella che, come si trattasse di una città, postula per questo mondo una condizione di anarchia per cui esso non avrebbe né un protettore né un arbitro né un giudice al quale fosse affidato il compito di governare e dirigere tutto. Fa l’esempio della città: così come una città è organizzata in un certo modo, anche l’uomo deve essere organizzato. Al contrario, il grande Mose, ritenendo che l’ingenerato fosse di natura affatto diversa dal visibile (dacché ogni cosa sensibile, in quanto soggetta a essere generata e a subire mutamenti, non rimane mai nella stessa condizione), attribuì all’invisibile all’intelligibile l’eternità come proprietà ad esso legata da intima parentela e al sensibile assegnò il nome ad esso appropriato di genesi (ciò che diviene). Ora, poiché questo mondo è visibile e sensibile, ne consegue di necessità che sia anche generato. Non è quindi fuor di proposito che Mosè abbia descritto la genesi del mondo, parlando con profonda riverenza dell’opera di Dio. Qui siamo sempre nella modalità inferenziale del post hoc ergo propter hoc: siccome questa cosa viene dopo, vuole dire che quella prima l’ha causata. Paragrafo III. In funzione dell’uomo si dice sia avvenuta in sei giorni la creazione del mondo sensibile, che è extratemporale rispetto a Dio. E qui dice una cosa particolare. Egli (Mosè) dice che il mondo fu creato in sei giorni, non che il Creatore avesse bisogno di una certa estensione di tempo (perché è logico pensare che Dio compia tutto simultaneamente, non solo nella fase di dare un ordinamento, ma anche nell’atto di concepirlo), ma sono le cose che vengono portate all’esistenza a richiedere una successione ordinata. L’ordine implica il numero e tra i numeri, in virtù delle leggi di natura, il più adatto alla generazione è il 6. Leggi di natura: perché? Questo, infatti, è il primo numero perfetto dopo l’unità… Qui ci sono reminiscenze ancora dei miti persiani, della cabala, della divinità dei numeri, della magia dei numeri. …in quanto è uguale al prodotto dei fattori che lo compongono (cioè 1x2x3) e ne è insieme la somma (cioè 1+2+3), la sua metà e tre, il suo terzo e due, la sua sesta parte è l’unità. Uno direbbe: e allora? Questi sono segni della divinità del numero. Per sua natura esso è, in un certo qual modo, insieme maschio e femmina, ed è armonico risultato della moltiplicazione dell’uno per l’altro. Infatti, nell’ambito delle cose esistenti il dispari è maschio, il pari è femmina. Orbene, il 3 è il punto di partenza dei numeri dispari, il 2 dei numeri pari, e il loro prodotto sei. Bisognava che il mondo, in quanto la più perfetta delle cose generate, fosse costituito in conformità di un numero perfetto, cioè del 6, e che essendo predisposto a contenere in sé generazioni derivanti da un accoppiamento, fosse poggiato sul modello di un numero misto, che corrispondesse alla prima combinazione di pari e dispari… A pag. 13. In quale maniera esso sia organizzato, lo ricaveremo dall’attenta osservazione di certe analogie con esso, presenti nelle cose del nostro mondo. Quando si fonda una città per soddisfare la smisurata ambizione di un re o di un qualche governante, che pretende di esercitare un potere assoluto e che al tempo stesso ambisce a dare lustro esteriore alla sua buona fortuna, capita a volte che si presenti un architetto provvisto di una specifica formazione… Qui è curioso. Dice che qualcuno fonda una città per soddisfare la sua sfrenata ambizione. È come se fosse, in effetti, noto da sempre che ciò che domina gli umani è la necessità di dominare. Ora, la cosa, che qui gli sarebbe potuta costare cara nel primo Medioevo: Qualche cosa di analogo si deve appunto pensare riguardo a Dio e supporre che, quando concepì il disegno di fondare “la grande città” in una prima fase ne strutturò nella propria mente i modelli secondo cui sarebbe stata creata, componendo i quali portò a compimento prima il mondo intelligibile e poi, servendosi di esso come prototipo, quello sensibile. Ma, allora, Dio, per soddisfare la sua sfrenata superbia, ha fatto questo, parrebbe, perché dice che la stessa cosa l’ha fatta Dio. Anzi, qualche cosa di analogo si deve pensare riguardo a Dio. Ma, se lo pensiamo, allora siamo blasfemi perché attribuiamo a Dio una sfrenata ambizione. A pag. 4. La creazione è atto di bontà divina. Abbiamo visto un attimo fa che la creazione è qualcosa che di analogo ha fatto Dio. Analogo a chi? A quello che, preso da una smania di potere, vuole costruire la città. Dunque, come il progetto della città prefigurato nella mente dell’architetto non aveva alcuna collocazione all’esterno, ma era impresso come un marchio nell’anima dell’artefice, allo stesso modo neppure il mondo costituito dalle Idee potrebbe risiedere in altro luogo che non sia il Lógos divino, autore di questa armonioso ordinamento, infatti, quale altro luogo potrebbe esservi, atto ad accogliere e a contenere non dico tutti i poteri di Dio, ma anche uno solo qualsiasi di essi, allo stato di assoluta incontaminazione. Ora, uno di tali poteri è anche quello che ha come effetto la creazione del mondo e come fonte il vero bene. Perché, se si volesse scrutare a fondo la causa per la quale tutto questo universo è stato creato, mi pare che coglierebbe nel segno chi dicesse quel che ha detto un filosofo antico Platone): che il Padre e Creatore del mondo è buono. Ecco, questa è la spiegazione di tutto: Platone ha detto che il padre e creatore è buono. In virtù di tale bontà Egli non rifiutò di trasmettere l’eccellenza della Propria natura a una entità che di per sé non aveva nulla di bello, ma che in potenza era predisposta a divenire qualsiasi cosa. Di per sé, infatti, essa era priva di ordine, di qualità, di vita, di omogeneità, e ricolma invece di eterogeneità, di disarmonia, di discordanza; ma divenne oggetto di un mutamento e di una trasformazione nella direzione opposta delle cose migliori e accolse in sé ordine, qualità, vitalità, omogeneità, identità, armonia, concordanza, tutto ciò che reca le caratteristiche del modello più elevato. Il problema è che ci dice a che cosa serve l’interpretazione. Dunque, dice qui Filone, Egli non rifiutò di trasmettere l’eccellenza della Propria natura a una entità che di per sé non aveva nulla di bello. Ora, questa entità preesisteva Dio, per cui Dio non è il creatore – eventualmente, nella migliore delle ipotesi, uno dei creatori; ma non è così per Mosè, per lui Dio è il creatore assoluto di tutte le cose. Quindi, o non è il creatore oppure, se lo è, perché ha creato cose brutte per poi farle diventare belle? Ora, queste contraddizioni, questi problemi, sono quelle cose che rendono necessaria l’interpretazione, in modo che queste discrepanze, chiamiamole così, possano essere ricondotte all’unità, al bene, perché tutte queste cose, queste discrepanze, queste contraddizioni, questi problemi, queste antinomie, questi paradossi sono i molti, che devono essere ricondotti all’uno, cioè alla parola di Dio, che è una. Se è verace è una, necessariamente. Il mondo intelligibile si identifica con il Lógos divino. Senza ricorrere all’aiuto di alcuno (del resto, chi altri vi era?)… L’ha detto prima, c’erano gli enti brutti e cattivi. …appoggiandosi solo a se stesso Dio decise che bisognava profondere con prodigalità ricchi benefici ad una natura che, senza il dono divino, era incapace di conseguire da sola un qualsiasi bene. Di nuovo, quindi, questa natura sembra preesistere. Sennonché Egli profonde i benefici non in proporzione alla grandezza delle Sue grazie, che sono infinite e illimitate, bensì secondo le capacità ricettive di chi le accoglie. Perché avrebbe fatto delle cose, per cui qualcuno riceve di più e qualcun altro di meno? Sarebbe stato più semplice che tutti ricevessero le stesse cose e, invece, no, ognuno riceve differentemente. A voler usare termini più semplici e scoperti, si potrebbe dire che il mondo intellegibile altro non è se non il Lógos divino già impegnato nell’atto della creazione. L’intellegibile è il pensiero. Infatti, la città concepita nel pensiero altro non è se non il calcolato ragionamento dell’architetto quando ormai sta progettando di fondare la città che ha in mente. Questa è dottrina di Mosè, non mia. Vuole mettersi al riparo. Certo è che nel seguito, descrivendo la creazione dell’uomo, Mosè dichiara esplicitamente che egli fu appunto foggiato a immagine di Dio. Ora, se la parte è immagine di un’immagine e se la forma intera questo nostro mondo sensibile tutto intero, posto che è maggiore dell’immagine umana è riproduzione dell’immagine di Dio, ne risulta chiaro che anche il sigillo archetipo, che noi diciamo essere il mondo intellegibile, non può che identificarsi con il Lógos divino. Cioè, noi possiamo pensare, quindi, comprendere, ecc., grazie al Lógos divino: Dio ci ha messo il Lógos, la parola, la ratio. Paragrafo 7. Individuazione in Genesi, 1, 15 dei sette elementi archetipi del mondo intellegibile. Mosè dice che “in principio Dio creò il cielo e la terra”, non intendendo “principio”, come pensano certuni, in senso cronologico, perché il tempo non esisteva prima del mondo, ma è nato assieme ad esso o dopo? Questo è uno dei modi con cui l’ermeneutica risolve il problema: Dio non ha creato il mondo in sei giorni perché il tempo non c’era; se dovesse ammettere che il tempo esisteva prima di lui, ecco che allora qualche cosa doveva esistere prima di lui e, quindi, anche Dio sarebbe stato in qualche modo sottomesso al tempo, e questo non poteva darsi. Il tempo, infatti, è uno spazio intermedio determinato dal movimento del mondo, e il movimento non può esistere prima dell’oggetto che viene mosso, ma necessariamente si produce dopo o simultaneamente. Ammettere il tempo prima di Dio sarebbe come ammettere il movimento prima di Dio, ma questo movimento chi l’ha messo in moto? Ne consegue dunque la necessità che anche il tempo sia coevo al mondo o più giovane di esso. Dice che ne consegue la necessità, ma è la necessità della sua interpretazione, cioè, è necessario che io interpreti così per evitare le aporie, le contraddizioni, i paradossi, ecc. Osar sostenere che sia più vecchio significherebbe mancare di senso filosofico. Se “principio” non è inteso qui come tale in senso cronologico, sembrerebbe verosimile che fosse indicato il principio secondo l’ordine numerico in modo che l’espressione “in principio creò” equivalesse a “per prima cosa creò il cielo”, perché in realtà è logico che il cielo fosse il primo ad essere creato, in quanto è la migliore delle cose create ed è costituito dalla sostanza più pura…
Intervento: In pratica continua a dirci che Dio non ha bisogno di contare, lo facciamo noi dopo.
Esatto. Dopo che lui ha inventato il tempo, il movimento, ecc., allora, ecco che Zenone ha potuto creare i suoi paradossi. Ma Dio è precedente a tutto questo. L’ordine è successione e concatenamento di cose che precedono e di altre che seguono, se non negli effetti, almeno nel disegno degli artefici. Solo così le cose potevano essere compiute a perfezione e rimanere fisse nel posto loro assegnato, senza confondersi l’una con l’altra. Come voleva Democrito. Ognuno resta lì dov’è, immobile. Ora, qui fa una lunga disquisizione su tutti i giorni della creazione. A pag. 41. Al primo uomo Dio ha affidato l’imposizione dei nomi alle cose create. Questa è la prima testimonianza della volontà di potenza in termini biblici. Fece molto bene Mosè ad attribuire al primo uomo anche l’imposizione dei nomi, prerogativa questa, propria della sapienza e della regalità; e il primo uomo era un sapiente che da solo aveva imparato e da solo si era istruito, perché nato dalle mani di Dio. Il primo uomo ha avuto via come istruttore. Era naturale che quel primo uomo esercitasse un dominio di eccezionale potenza perché Dio, dopo averlo plasmato con estrema cura, lo aveva giudicato degno di essere secondo dopo di Lui, assegnandogli il ruolo di Suo luogotenente e di capo di tutti gli altri. Prova ne sia che anche gli uomini nati molte generazioni più tardi, per quanto ormai la loro razza abbia perduto di vigore per il lungo volgere del tempo, continuano tuttavia a dominare gli esseri privi di ragione, mantenendo per così dire acceso la fiaccola del comando e del potere, trasmessa loro dal primo uomo. Quindi, la fiaccola del comando e del potere viene direttamente da Dio, perché il primo uomo è stato istruito da Dio direttamente: la volontà di potenza è un dono di Dio. Dice dunque Mosè che Dio portò tutti gli animali da Adamo perché voleva vedere quali nomi avrebbe imposto ad ognuno. Ma non era onnisciente? Perché voleva vedere quali nomi avrebbe imposto? Avrebbe già dovuto saperlo. Inoltre, se Dio aspettava che l’umano Adamo desse i nomi, vuol dire che lui non li aveva ancora nominati, per cui queste cose erano per lui sconosciute. Non che avesse dei dubbi (a Dio nulla è ignoto), ma sapeva di aver foggiato la parte razionale della natura umana in modo che fosse libera nei movimenti, per non essere coinvolto Lui stesso nel male. Quindi, c’era questa possibilità. Stiamo rilevando queste anomalie, per così dire, di pensiero proprio per intendere bene a che cosa serve l’interpretazione: a togliere questi problemi, che ciascuno incontra continuamente parlando. Gabriele non fa quello che voglio io? È perché Gabriele non ha inteso bene il mio pensiero; se lo avesse inteso allora ecco che anche lui si comporterebbe a modo. Così mise l’uomo alla prova, come fa il maestro con il discepolo, risvegliando in lui la predisposizione innata e chiamandolo a dare una dimostrazione delle proprie capacità, perché egli provvedesse da solo all’imposizione di nomi che non fossero incongrui né inadatti, bensì riproducenti appieno le qualità dei singoli oggetti. Poiché la natura razionale dell’anima era ancora pura e non era stata intaccata da nessuna infermità, malattia o passione, Adamo, cogliendo le impressioni immediate date dai corpi e dalle cose nella loro pura realtà, coniò dei nomi perfettamente corrispondenti ad essi… Era la tesi di Cratilo. …afferrando con assoluta esattezza il significato delle cose che gli si mostravano, tanto che le loro nature potevano essere insieme enunciate e pensate. A tal punto egli eccelleva in ogni cosa bella, toccando il limite più alto della felicità umana.
Ecco, nominare le cose - chiaramente, se si è nella purezza dello spirito e dell’intelletto - significa dire l’essenza della cosa (tesi di Cratilo) e, quindi, conoscere perfettamente la cosa. Quindi, il nomoteta, colui che dà il nome alle cose, è colui che conosce le cose. Dare il nome significa conoscere, perché significa determinare; una volta determinato, so che quella cosa è quella; e, quindi, so le cose. È un’operazione importante questa che Dio assegna a Adamo, cioè di nominare le cose: nominandole le conosci. Ancora oggi, quando uno non sa che cos’è una certa cosa, dice “come si chiama?”; da quel momento gli pare di conoscerla perché sa come si chiama. Tocca il limite più alto della felicità, secondo Filone.
Intervento: Il punto più alto della volontà di potenza.
Sì, la volontà di potenza come dono di Dio, perché è stato Dio a donare a Adamo la possibilità di nominare le cose, quindi di conoscerle, di determinarle, di sapere che cosa sono. Che cos’è questo? È un tavolo. Ecco, adesso lo so, so che cos’è. Ora, questo fatto che la volontà di potenza sia un dono divino, forse, rende conto in buona parte del neoplatonismo. Non ho trovato, almeno non ho avuto mai sottomano qualcuno che parlasse dell’influenza dell’ermeneutica nel neoplatonismo, della dottrina dell’interpretazione nel neoplatonismo, non mi sembra che qualcuno se ne sia mai occupato. Però, sarebbe interessante perché, in effetti, il neoplatonismo si avvale della volontà di potenza come un qualche cosa che procede da Dio. D’altra parte, nella processione l’intelletto e l’anima procedono dall’assoluto, dal bene assoluto, che è l’uno. Però, bisognerebbe vedere… Non mi sembra di ricordare che Plotino faccia grande uso di allegorie. Qui parla del giardino dell’Eden, a pag. 42. Direi che in passato non sono comparsi sulla terra né è verosimile che vi che vi compaiano in futuro alberi della vita o della conoscenza. Sembra piuttosto che Mosè intenda alludere con il giardino alla parte direttiva dell’anima, ricolma in qualche modo di un numero infinito di piante corrispondenti ad altrettante infinite opinioni e con l’albero della vita voglia alludere la più alta delle virtù, la pietà verso Dio, attraverso la quale l’anima si immortala e con l’albero della conoscenza del bene e del male alla prudenza intermedia, con la quale si individuano quelli che per natura sono i contrari. A lui serviva che questa storia del giardino dell’Eden, dell’albero della conoscenza, ecc., fosse un’allegoria che potesse giustificare la nascita dell’idea di bene e di male. Ecco, di nuovo, la necessità dell’interpretazione. Perché, se fosse soltanto l’albero della conoscenza non andiamo da nessuna una parte, ma se io intendo l’albero come l’intellegibile e tutti i rami come tutte le possibili opinioni, ecco che, allora, diventa l’albero della conoscenza del bene e del male, che è necessario all’uomo per distinguere. Poi, parla della cacciata dal giardino dell’Eden, conseguente alla tentazione, quella della materia, della lussuria, del serpente come simbolo della lussuria, ecc., e della donna, che porta l’uomo verso il basso, cioè, verso gli istinti più bestiali. Però, ciò che a noi interessa, in effetti, era proprio questo, cioè il fatto che Filone ci ha mostrato qui, in fondo, a che cosa serve esattamente l’allegoria, cioè l’interpretazione, l’ermeneutica: avvolgere le cose in modo che i molti, cioè le contraddizioni, i problemi, ecc., scompaiono nell’uno, e ogni cosa torni al suo posto, secondo l’ordine cosmico, preciso, voluto da Dio. Leggeremo la volta prossima l’Allegoria delle leggi; poi, leggeremo L’erede delle cose divine e il Trattato sui nomi. Il resto non ci interessa perché in fondo ci ha già detto quello che volevamo sapere, e cioè che l’ermeneutica è fondamentale, perché altrimenti non posso fare dire alle cose o alle persone quello che voglio io. Quindi, confermerà in fondo le cose che ha già detto: l’ermeneutica serve a risolvere problemi. Problemi, cioè, il significato: tu devi significare quello che voglio io.