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4 dicembre 2019

 

Fenomenologia dello spirito di G.W.F. Hegel – Volume Secondo

 

Per leggere con “facilità” la Fenomenologia dello spirito bisogna tenere conto di ciò che Hegel diceva nella Introduzione (Einleitung). Lì, in effetti, c’è una cosa che è fondamentale, e cioè che tutta la Fenomenologia dello spirito non è una ricerca della verità, come in genere è avvenuto nella filosofia e non solo, ma è un percorso che mostra come la verità sia già qui, e che quindi non sia da cercare. Non so se ricordate, lui faceva delle considerazioni, e cioè: se la verità non fosse già qui, allora qualunque tentativo di raggiungerla presupporrebbe un marchingegno che consenta di arrivarci – i matematici direbbero: un algoritmo. Ma a questo punto, diceva Hegel, ciò con cui abbiamo a che fare, ciò che incontriamo, è sempre e soltanto questo mezzo, questo strumento, non è mai la verità. Allo stesso modo si può dire della realtà: se uno ci riflette, per stabilire che cos’è la realtà deve pur avere un parametro, un qualche cosa che gli consenta dire: “questo è reale”. E qual è il parametro? Semmai ne inventassi uno avrei bisogno poi di un altro parametro che garantisca quello precedente: è il problema del terzo uomo di Aristotele, problema vecchissimo. Quindi, per leggere la Fenomenologia dello spirito occorre tenere conto del fatto che l’intero è già qui; l’intero, come linguaggio, è già qui. Non dobbiamo, quindi, cercare il vero al di fuori e restare in attesa che si mostri, si manifesti, ecc., ma semplicemente accorgersi che è qui. Come ce ne accorgiamo? Questo è il percorso che fa Hegel, quello di mostrarci come l’intero sia già tutto presente qui e adesso mentre parliamo e che non potrebbe non essere così. In effetti, quando dice che la coscienza e l’autocoscienza sono due momenti dell’intero sta dicendo che sono due momenti della relazione tra i due, e che senza questa relazione – relazione che poi sarebbe l’intero perché li coinvolge – i due non esisterebbero. Questo non ci autorizza a dire che c’è prima la relazione e poi i membri della relazione; c’è una simultaneità, ciascun elemento che interviene è già necessariamente una relazione. Questo è anche ciò che intende Hegel: qualunque cosa è in quanto è per altro, in quanto rinvia ad altro. Ciascuna cosa che io mi trovo a dire, a pensare, è quella che è perché è rivolta ad altro, sempre e necessariamente. Anche Freud ci arriva, per altre vie ovviamente, ma si accorge che qualunque cosa una persona stia pensando, dicendo o facendo, questa cosa comporta altre cose, cioè, muove da altre fantasie, mette in gioco altre fantasie. Chiaramente, questo ha costituito un problema per il discorso occidentale, nel senso che se l’intero è questo, cioè il linguaggio, l’atto di parola ciascuna volta, allora non c’è la possibilità di separare i momenti della relazione, cioè, lo si può fare, li si può astrarre, ma una volta astratti non sono più quella cosa che mi si presentava come relazione. Naturalmente, anche astraendo ciascuno di questi elementi, nell’atto stesso di astrarlo già lo inserisco in un’altra relazione. La cosa importante in tutto ciò è che si è tentato da sempre nel discorso occidentale di trovare il modo di separare le due cose in modo che quello che dico sia quello che è non in virtù di altro ma semplicemente per quello che è e basta, cioè, stabilire con certezza la possibilità di una verità assoluta, stabilita, anzi, direi pre-stabilita. È questo che il discorso di Hegel rende impossibile, dicendo che il vero è il movimento del linguaggio, il farsi continuo del linguaggio. Sta lì il vero, tant’è che dice che l’intero è il vero. Quindi, per leggere Hegel bisogna sempre tenere presente questo aspetto, che muove dall’intero; poi, anche lui ovviamente per poterli considerare deve in un certo senso astrarre i vari momenti, ma questa astrazione che fa è sempre ricondotta all’intero, nel senso che questi momenti, separati, non significano niente, sono in quanto fanno parte dell’intero. Tenendo sempre conto di questo, allora tutte le cose che Hegel va dicendo appaiono più chiare. Fa tutte queste continue divisioni ma poi le riconduce all’intero, cioè, mostra come queste divisioni, che fa necessariamente perché non può non farle – se parliamo dobbiamo determinare, individuare le cose – però, continua a dirci, a ripeterci che queste cose appartengono all’intero e che noi possiamo considerarle, determinarle, proprio perché appartengono all’intero, sennò non esisterebbero. Questo è un discorso che fa anche rispetto alla nazione. Hegel ha posto secondo molti, e forse non a torto, le condizioni, le basi teoriche per la costruzione della nazione tedesca, quindi, del nazionalismo tedesco sino ad arrivare al nazionalsocialismo tedesco. Come ci arriva? Divide lo Stato dalla ricchezza. Individua questi due momenti: lo Stato come un qualche cosa che è quello che è, che è in sé, mentre la ricchezza sarebbe il per sé, cioè un qualche cosa che è altro dallo Stato ma che gli si oppone; allora considera il fatto che i vari cittadini dello Stato hanno in comune questa idea di Stato, che devono fare progredire, ecc., mentre la ricchezza si oppone perché punta al singolo, ciascuno vuole arricchire principalmente se stesso. Ma anche qui – sto semplificando, poi vedremo – alla fine la sintesi è considerare che lo Stato e la ricchezza sono due momenti della stessa cosa, e cioè la nazione. La nazione è l’integrazione di questi due momenti che, se mantenuti separati, portano a una situazione che, secondo Hegel, non funziona, perché in ogni caso, sia che si dia la proprietà allo Stato, sia che si dia la priorità alla ricchezza, c’è qualche cosa che non giunge a compimento, che non si determina: nel primo caso abbiamo il marxismo, nel secondo il capitalismo. È singolare il fatto che il lavoro di Hegel abbia portato da una parte alla creazione della nazione tedesca, quindi del nazionalismo, in modo esplicito. Per lui la nazione è l’integrazione di questi due momenti e, quindi, il risultato necessario che gli umani devono raggiungere perché, una volta nella nazione, trovano la soddisfazione, la felicità, nel senso che c’è la ricchezza ma c’è anche lo Stato. Dall’altra parte, tutto questo ha consentito anche la costruzione del marxismo. Ha permesso la costruzione di due pensieri che appaiono diametralmente opposti: il capitalismo e il marxismo. Volevo soltanto mostrarvi in atto il funzionamento di ciò che scrive Hegel, e cioè della continua integrazione dei momenti opposti: ciò che la cosa è, è ciò che la cosa non è. Qualche cosa è in quanto non è tutto ciò che non è. Questo sembra abbastanza banale e, in effetti, lo è, ma tutto ciò che quella cosa non è – è qui l’idea di Hegel – fa in modo che quella cosa che è sia quella che è, mentre generalmente si considera il contrario, e cioè che quella cosa è quella che è perché ho eliminato ciò che quella cosa non è. Lui, invece, la pone come condizione. Ma veniamo al testo, che è sempre buona cosa. Siamo al paragrafo c. Stato di diritto. A pag. 36. L’unità universale alla quale ritorna la vitale unità immediata dell’individualità e della sostanza, è la comunità priva di spirito che ha cessato di essere la sostanza degli individui priva anch’essa di consapevolezza, e in cui essi ora valgono secondo il loro singolo esser per sé come autoessenze e come sostanze. Cioè: le persone si pongono in quanto unità e, quindi, ancora separati. Descrive la situazione in cui l’integrazione deve ancora farsi. L’universale, dirotto negli atomi degli individui assolutamente molti, questo spirito morto, è una eguaglianza nella quale tutti valgono come ciascheduno, come persone. Siamo ancora lontano, quindi, dallo Stato e dalla nazione. Ciò che nel mondo dell’eticità fu chiamato l’occulta legge divina, è passato in effetto dal suo interno nell’effettualità; nel mondo dell’eticità il singolo valeva ed era effettuale soltanto come il sangue universale della famiglia. Famiglia come primo nucleo dello Stato. Come questo singolo egli era lo spirito dipartito privo del Sé; ora peraltro egli è uscito dalla sua ineffettualità. Siccome la sostanza etica è soltanto lo spirito vero, il singolo ritorna alla certezza di se stesso; quella esso è come l’universale positivo, ma la sua effettualità è di essere Sé universale e negativo. Cioè: l’individuo comincia a porsi non più come particolare ma come universale, si accorge di fare parte di uno Stato, di un popolo. Noi vedemmo calare le potenze e le figure dl mondo etico nella semplice necessità del destino vano; questa potenza del mondo etico è la sostanza riflettentesi nella sua semplicità; ma l’essenza assoluta, riflettentesi in se stessa,… C’è sempre questo movimento in Hegel: qualcosa che si riflette in se stesso. …appunto quella necessità del vuoto destino, niente altro è che l’Io dell’autocoscienza. Questo riflettersi su se stesso non è altro che l’Io dell’autocoscienza: io che so di essere io. Questo vale ormai come l’essenza in sé e per sé essente; un tal esser riconosciuto è la sua sostanzialità;… La sostanza è il riconoscersi in quanto in sé e per sé. …ma essa è l’universalità astratta, dacché suo contenuto è questo Sé rigido, e non quel Sé che è risolto nella sostanza. A questo punto, dice, il Sé è ancora qualche cosa che è immaginato fuori del movimento – parla, infatti, di un Sé rigido, quindi, un Sé che deve ancora entrare nel movimento dialettico. Poco dopo, dice: Ciò che allo stoicismo era lo in-sé soltanto nell’astrazione, è ora mondo effettuale. Che cos’era l’in sé per lo stoicismo? Ci tiene a precisare: soltanto nell’astrazione. Per lo stoicismo era la considerazione che solo io ho valore e tutto il resto non conta niente, non ha nessun valore e, quindi, non me ne devo occupare. Lo stoicismo altro non è se non la coscienza che porta alla sua forma astratta il principio dello stato di diritto, l’indipendenza priva di spirito;… Spirito nel senso di Hegel, cioè, della verità come effetto del vero di tutti quanti, del movimento, cioè, di tutti e di ciascuno. …con la sua fuga dall’effettualità… Infatti, lo stoico è qualcuno che non agisce. È questo che alla fine gli rimprovera Hegel, di non agire. Per Hegel l’agire è fondamentale; è un uomo pragmatico Hegel, a lui importa l’agire, l’effettualità, l’effettuarsi delle cose. …con la sua fuga dall’effettualità tale coscienza raggiunse soltanto il pensiero dell’indipendenza; tale coscienza è assolutamente per sé, per ciò che non lega la sua essenza a qualche esserci;… Si tiene sempre al di qua dell’esserci, non agisce, non c’è, propriamente. …anzi, abbandonando ogni esserci, pone la propria essenza unicamente nell’unità del puro pensare. Nella stessa guisa il diritto della persona non è legato né a un più ricco o più potente esserci dell’individuo come tale, e neanche a un universale spirito vivente; anzi, piuttosto, al puro Uno della sua astratta effettualità o a quest’Uno in quanto autocoscienza in generale. Questa è una critica che Hegel muoveva allo stoicismo, stoicismo come uno dei momenti della storia del pensiero. Come ricordate, faceva l’esempio dello stoicismo, dello scetticismo, della coscienza infelice, che è la religione. Come lo scetticismo, anche il formalismo del diritto è dunque, in virtù del suo concetto, senza contenuto peculiare;… Il formalismo del diritto è un diritto che non è consapevole, è un diritto che non procede dalla volontà di tutti e di ciascuno, è un diritto fuori dalla nazione, è un’imposizione, semplicemente. …trova dinanzi a sé un sussistere molteplice e vario, il possesso, e gli imprime, come quello, la medesima astratta universalità, per la quale esso possesso dicesi proprietà. Se peraltro l’effettualità così determinata nello scetticismo si chiama parvenza in generale, e se ha soltanto un valore negativo, nel diritto essa ne ha tuttavia uno positivo. Quel valore negativo consiste in ciò, che l’effettuale ha il significato del Sé come pensare, come l’universale in sé; questo valore positivo ha invece il suo significato in ciò, che il reale è Mio nel significato della categoria, è mio come una validità riconosciuta e reale. Ci sta dicendo che nello scetticismo il valore negativo consiste nel fatto che il mio pensare ha valore in sé, però aggiunge come positivo che è mio, cosa che invece nello stoicismo non sembrava esserci per Hegel. C’è il riconoscimento di una determinazione che mi appartiene, che è mia, cioè, io divento la misura di tutte le cose. Così come avviene nello scetticismo: non c’è la verità, tutto è relativo, ma sono io che penso questo, è un mio pensiero, e questo lo scettico lo riconosce. A pag. 42, paragrafo B, Lo spirito che si è reso estraneo a sé; la cultura. Ma quello spirito il cui Sé è lo assolutamente discreto ha il suo contenuto di contro a sé,… Lo spirito il cui Sé, possiamo dire la cui essenza, ha di contro il suo sé; così come dicevamo “Io sono io”: questo io ha di contro il suo io. …e il mondo ha qui la determinazione di essere un alcunché di esteriore, il negativo dell’autocoscienza. ma questo mondo è essenza spirituale, è in sé la compenetrazione dell’essere e dell’individualità; tale esserci di questo mondo è l’opera dell’autocoscienza;… Queste sono frasi che Hegel dice in modo molto chiaro, ma che generalmente non si trovano nei suoi commentatori, perché dire che questo mondo è essenza spirituale non è poco. …ma è anche una effettualità data immediatamente e a lei estranea; effettualità la quale ha un essere peculiare e dove l’autocoscienza non si riconosce. Questo è ciò che generalmente si pensa della realtà, e cioè un qualche cosa che è fuori da me e che io devo manipolare, controllare, ecc. Ma ciò che ci sta dicendo Hegel è che questo qualche cosa è immaginato essere fuori dell’autocoscienza perché non è ancora integrato. Io posso immaginarlo, ma il fatto stesso di riconoscerlo, di accoglierlo, di considerarlo, è perché fa già parte della mia coscienza. A pag. 43. In questo modo la sostanza è spirito, autocosciente unità del Sé e dell’essenza; ma ambedue hanno anche reciprocamente il significato dell’estraneazione. Ciascuna cosa, per Hegel, è sempre quella che è ma anche ciò che quella cosa non è. Lo spirito è coscienza di un’effettualità oggettiva per sé libera; a questa coscienza sta peraltro di contro quella unità del Sé e dell’essenza; alla coscienza effettuale sta di contro la coscienza pura. Ciascun elemento ha sempre di contro la sua negazione. È in questo senso che potremmo dire che ciascun elemento è sempre negatività assoluta, deve la sua essenza al suo negativo, a ciò che non è. Questa loro estraneazione è la coscienza pura o l’essenza. Cioè: la coscienza pura non è altro che pura negatività. La coscienza pura, pura nel senso che non è mediata da altro, non è altro che l’essere un qualche cosa se stesso e il suo contrario, simultaneamente. La presenza ha l’opposizione immediatamente nel proprio al di là, che è il suo pensare ed esser-pensata, come l’al di là ha l’opposizione nell’al di qua, che è la sua effettualità a lui estraniata. Perciò questo spirito si costruisce non soltanto un mondo, sì bene un mondo duplice, separato e opposto. – Il mondo dello spirito etico è la sua propria presenzialità… Lo spirito etico per Hegel è sempre il fare, qualcosa che si produce nel fare, e quindi ha la sua effettualità nell’effettuarsi delle cose. …e quindi ogni potenza di esso è in questa unità, e, - in quanto le due potenze si distinguono, - è in equilibrio con l’intero. Due momenti, questo possiamo dirlo con forza, sono sempre due momenti che sono in equilibrio nell’intero. Equilibrio nel senso che non c’è predominio dell’uno sull’altro. Ora, come il mondo etico dalla separazione della legge umana e della divina nonché delle loro figure; come la coscienza di quel mondo etico dalla divisione in sapere ed inconsapevolezza torna indietro nel proprio destino, cioè nel Sé in quanto forza negativa di questa opposizione, così anche entrambi questi regni dello spirito estraniato da sé ritorneranno nel Sé; ma se quello era il primo Sé valido immediatamente, la persona singola, questo secondo che dalla sua alienazione ritorna in sé, sarà il Sé universale, la coscienza attingente il concetto; e questi mondi spirituali, tutti i momenti dei quali attingono sé come un’effettualità fissata a un sussistere a-spirituale, si risolveranno nella pura intellezione. Questo Sé, che si pone come momento particolare, quando ritorna come autocoscienza diventa universale; cioè, questo sé ritorna in sé, rimane sempre un sé, però, come universale e non più come particolare, perché ha trovato, per dirla in modo spiccio, il suo significato. Prendiamo, per rendere più chiara la cosa, l’esempio del significato e del significante di de Saussure. Potremmo dire che il significato è il negativo del significante, nel senso che non è il significante. Ma quando il significante passa dal significato e poi torna al significante, allora il significante, da cui è partito questo movimento, non è più il significante di prima; diventa un significante universale e non più particolare, e cioè un significante che ha in sé il significato, che ha in sé tutto ciò che gli serve per essere quello che è, cioè ha in sé il suo negativo. A pag. 45. Il mondo di questo spirito… Parlava poco prima dello spirito estraniato, diceva …col che lo spirito precedentemente estraniato è ritornato completamente in se stesso, abbandona questo suolo della cultura, e passa in un’altra terra: quella della coscienza morale. Il mondo di questo spirito si dirompe in un mondo duplice; il primo è il mondo dell’effettualità o il mondo dell’estraniazione dello spirito… Lo spirito è sempre estraniato nell’effettualità, in ciò che si produce, nel fare. …il secondo è quello cui esso, elevandosi sopra il primo, si costruisce nell’etere della pura coscienza. Questo elevandosi sopra il primo - non so se qui usa il verbo Aufheben, è probabile - questo sollevarsi sull’altro per tornare al primo è il movimento della dialettica. Quella che qui viene considerata non è dunque l’autocoscienza della essenza assoluta, com’è in sé e per sé, non la religione, ma la fede, in quanto questa è la fuga dal mondo effettuale e non è dunque in sé e per sé. Nel paragrafo a) La cultura e il suo regno dell’effettualità. Lo spirito di questo mondo è l’essenza spirituale permeata da un’autocoscienza che si sa immediatamente presente come questa autocoscienza per se essente e che sa l’essenza come un’effettualità di contro a sé. Questo è importante. Lo spirito di questo mondo, l’essenza di questo mondo, in che cosa consiste? Dice: l’essenza spirituale (il mio pensiero) permeata da un’autocoscienza… l’essenza spirituale permeata da un’autocoscienza, che si sa immediatamente come autocoscienza, cioè, io so immediatamente di me che sto pensando; quindi, per me essente, solo per me, ciascuno pensa di essere per sé. Ma so anche che questa essenza, la mia essenza, è un qualche cosa che, dice Hegel, è di contro a me; mi è di contro perché la sto considerando come qualcosa che è altro da me, io parlo della mia essenza e, quindi, parlo di qualcosa che non sono io. Si contrappone in qualche modo, anche se generalmente si suppone che sia sempre io… è un po' come dire “io sono io”, sono sempre io, sì, però, sono due io. Ma l’esserci di questo mondo, non che l’effettualità della autocoscienza, dipendono dal movimento per cui l’autocoscienza si aliena della sua personalità, onde produce il suo mondo comportandosi di fronte a questo come se fosse un mondo estraneo, cosicché ha ormai da impadronirsi di lui. Dice l’esserci di questo mondo, cioè, il modo in cui siamo nel mondo, – l’esserci, il Dasein di Heidegger – non è che il modo in cui si produce l’autocoscienza dipendono dal movimento per cui l’autocoscienza si aliena della sua personalità, onde produce il suo mondo comportandosi di fronte a questo come se fosse un mondo estraneo, cosicché ha ormai da impadronirsi di lui. Allora: parla di movimento per cui l’autocoscienza si aliena della sua personalità. Cosa vuol dire? Io mi considero in quanto essere pensante, ma questo mi pone in una sorta di sdoppiamento: ci sono io che mi sto dicendo, che mi considero un essere pensante e ci sono io come essere pensante. Hegel è sottile in queste cose, si accorge che non possiamo dire che è lo stesso, lo è ma anche no, c’è sempre questo sdoppiamento: io e io pensante. Ora, ci dice però che tutto questo produce il mio mondo, a partire da questo sdoppiamento, cioè, a partire dal fatto che io mi vedo come essere pensante, mi vedo cioè come un qualche cosa al di fuori di me; ecco, questo è ciò che avvia la costruzione del mondo. È ciò che vi dicevo tempo fa accennando al funzionamento del linguaggio: quando io incomincio a dire, il mio dire è già un qualche cosa, è il primo qualche cosa che io costruisco; quindi, da quel momento c’è qualcosa: quello che ho detto. Questo dà l’avvio alla possibilità che esistano tutti i qualche cosa possibili e immaginabili. Il primo qualche cosa è ciò che io dico, la prima cosa con la quale mi confronto, in cui mi imbatto. Dopo, a cascata, vengono fuori tutte le altre cose, ma il primo qualcosa, che posso considerare come qualcosa, è ciò che dico. Ma la rinuncia al suo esser-per-sé è essa stessa la produzione dell’effettualità, e, in grazia di questa rinuncia, l’autocoscienza si impadronisce dunque immediatamente dell’effettualità stessa. Questa autocoscienza rinuncia al suo essere per sé, rinuncia nel senso che si è sdoppiato, ma a questo punto questo sdoppiamento è per l’autocoscienza l’effettualità stessa; come dire che l’autocoscienza si accorge che è questo che succede. Io parlando mi sdoppio, perché ci sono io e quello che dico, c’è quello che sto dicendo e quello che ho detto. Ovvero l’autocoscienza è soltanto qualcosa… l’autocoscienza è soltanto qualcosa, ma questo qualcosa non è poco perché è il primo qualcosa. …ha realtà, solo in quanto estranea a se stessa;… Quello che vi dicevo rispetto all’atto di parola: io dico e questo qualcosa che dico ha realtà solo in quanto lo estraneo da me, perché diventa un qualche cosa che non sono io. Io sto dicendo e dicendo dico delle cose; queste cose che dico sono altro da me. …con ciò essa si pone come Universale, e questa sua universalità è la sua validità e la sua effettualità. A pag. 48. Parla dell’individualità, di qualcosa cioè che è fuori dell’intero. …quella presunta individualità è per l’appunto soltanto l’esistenza opinata… Io penso di esistere in quanto individuo. …che non ha stabilità in questo mondo, dove solo ciò che aliena se stesso, e quindi solo l’universale, riceve effettualità. Solo ciò che aliena se stesso, cioè, solo ciò che si contrappone a ciò che quella cosa non è. Quindi, sa di essere solo in virtù del fatto che non è tutte queste altre cose. Che, poi, de Saussure individua in modo molto preciso rispetto al significante e anche al significato: il significante è tale in una relazione differenziale con tutti gli altri significanti. Se non è in questa relazione differenziale, cioè, se non ci sono tutti gli altri significanti, quel significante non esiste. È per questo che insisto a dire che il linguaggio è l’intero, perché se non ci sono già tutti gli elementi, nessun elemento può esistere. Qui fa quelle considerazioni di cui vi parlavo prima intorno al nazionalismo. Ora ve le leggo perché sono comunque cose di un certo interesse. A pag. 49, Il buono e il cattivo; la potenza dello Stato e la ricchezza. Il Sé è a sé effettuale soltanto come un Sé tolto. Il Sé, cioè io, mi effettuo in quanto soltanto c’è un io che è stato tolto, l’io che mi si oppone, cioè tutto ciò che io non sono. Il Sé non costituisce dunque per lui l’unità della coscienza di sé e dell’oggetto; anzi, questo gli è il negativo di sé. Questo è quello che si pensa generalmente. Mediante il Sé, come anima, la sostanza vien dunque così plasmata nei suoi momenti, che l’opposto vivifica l’altro; ciascun opposto mediante la sua estraneazione dà sussistenza all’altro e similmente da lui la riceve. Qui sta riassumendo in poche parole tutta la Fenomenologia dello spirito. In pari tempo ciascun momento ha la sua determinatezza come una insuperabile validità ed ha una salda effettualità di contro all’altro. Il pensare fissa questa differenza nel modo più universale mediante l’assoluta contrapposizione di buono e di cattivo che, rifuggendo l’uno dall’altro, in nessun modo possono divenire una medesima cosa. Ma questo saldo essere ha a sua anima l’immediato passaggio nell’opposto; l’esserci è piuttosto l’inversione di ogni determinatezza nell’opposta, e solo questa estraneazione è l’essenza e il fulcro dell’intiero. L’intero è fatto di questo: di un elemento e della sua opposizione. Tale movimento di attuazione e tale avvivamento dei momenti sono ora da considerare. A pag. 51. In quella forma della semplicità la prima essenza, come essenza eguale a se stessa, immediata e intrasmutabile di tutte le coscienze, è il buono… La prima essenza, quella intrasmutabile, quella che non cambia, che è sempre la stessa e che deve essere sempre la stessa, quella riconosciuta da tutti, ecco, questo è il buono. …è la potenza spirituale indipendente dello in-sé, presso la quale il movimento della coscienza per sé essente si rifrange soltanto come in un gioco. L’altro è invece l’essenza spirituale passiva o l’universale, in quanto esso si abbandona e lascia che gli individui prendano il lui la coscienza della loro singolarità; esso è l’essenza nulla, il cattivo. Torniamo allo schema di de Saussure. Ciò che rappresenta l’intrasmutabile, cioè ciò che è sempre identico a sé, è il significante, è ciò che si dice – ciò che si dice è quello che è, non è altro da ciò che dice: questo è il buono. Il cattivo, invece, è il significato, è lui che è infinito, è lui che non si può controllare, gestire, dominare. Quello che dico, il significante, è quello che è, la parola è quella, ho detto quella parola, ma che cosa significa? Lì incomincia il disastro. Questo è il cattivo. …la prima essenza è il potere dello Stato; l’altra è la ricchezza. – Il potere statale è sia la sostanza semplice, sia l’opera universale,… Il fare di tutti, è questo lo Stato. …l’assoluta Cosa stessa nella quale agli individui è proclamata la loro essenza,… Tu sei in quanto cittadino, ecc., ecc. …e dove la loro singolarità è direttamente e soltanto coscienza della loro universalità;… Cioè: io sono quello che sono in virtù del fatto che sono cittadino di un certo Stato. …il potere statale è anche l’opera e il resultato semplice; che quest’opera stessa abbia origine dal fare degli individui, è un elemento che qui si dilegua;… Il fatto che lo Stato sia il risultato dell’opera degli individui, dice, scompare, rimane lo Stato. …essa resta l’assoluta base per il sussistere di ogni loro fare. Dilegua in quanto concetto di qualcosa che è il risultato dell’opera di tutti. Nessuno oggi, pensa che lo Stato sia il risultato dell’opera di tutti, non viene neanche in mente una cosa del genere. Però, è la base per il sussistere di ogni fare, perché senza lo Stato, secondo Hegel, sarebbe complicato svolgere qualunque attività. Siffatta eterea sostanza semplice della loro vita, mediante questa determinazione della sua intrasmutabile autoeguaglianza, è essere e quindi soltanto essere per altro. Essa è dunque in sé immediatamente l’opposto di se stessa, è la ricchezza. La ricchezza è l’opposto dello Stato. Sebbene la ricchezza sia il passivo o il nullo, essa è nondimeno universale essenza spirituale; è il resultato che incessantemente diviene, del lavoro e del fare di tutti, che poi si risolve a sua volta nel godimento di tutti. Nel godimento l’individualità diviene bensì per sé o come individualità singola; ma questo godimento stesso è resultato dell’universale operare, mentre, a sua volta, la ricchezza promuove il lavoro universale e il piacere di tutti. L’effettuale ha senz’altro il significato spirituale di essere immediatamente universale. In questo momento ogni singolo ritiene sì di agire egoisticamente; si tratta infatti di quel momento in cui il singolo si dà la coscienza di esser per sé, momento ch’egli non prende quindi per qualcosa di spirituale; ma anche considerato soltanto dal di fuori, questo momento appare siffatto, che nel suo godimento ciascuno dà da godere a tutti e, similmente, che nel suo lavoro ciascuno lavora per tutti e per sé, e tutti per lui. Il suo esser-per-sé è per ciò in sé universale, e l’egoismo è solo un alcunché di opinato che non può giungere a rendere effettuale ciò ch’esso opina, vale a dire a far qualcosa che non torni a vantaggio di tutti. Qui, naturalmente, è posto in termini teorici. Ciascuna cosa una persona faccia per il proprio benessere, sta dicendo, è un qualche cosa che alla fine è fatta per il benessere di tutti. A pag. 53. Ma l’autocoscienza è inoltre il rapporto della sua coscienza pura alla sua coscienza effettuale, del pensato all’essenza oggettiva: essa è essenzialmente il giudizio. Per entrambi i lati dell’essenza effettuale, dalle loro immediate determinazioni è già resultato quale lato sia il buono e quale il cattivo; il buono il potere dello Stato, il cattivo la ricchezza. Solo, questo primo giudizio non può venir riguardato come un giudizio spirituale; in esso, infatti, l’un lato viene determinato soltanto come ciò che è in sé o come il positivo, l’altro lato come ciò che è per sé o come il negativo. Ma essi, come essenze spirituali, sono ciascuno la compenetrazione di entrambi i momenti, né sono dunque esauriti in quelle determinazioni; e l’autocoscienza che ad essi si rapporta è in sé e per sé; a ciascuno essa deve quindi riferirsi in quella duplice guisa, per mezzo della quale si chiarirà la loro natura, che è quella di essere determinazioni a se stesse estraniate. Lo Stato e la ricchezza. Ciascuna delle due si estrania a vantaggio dell’altra, e questo darebbe come risultato la nazione. A pag. 54. Ne consegue che la coscienza in sé e per sé essente trova sì nella potenza dello Stato la propria essenza semplice e la propria sussistenza in generale, ma non la propria individualità come tale; ch’essa trova sì il suo essere-in-sé, ma non il suo esser-per-sé; ivi trova anzi negato l’operare come operare singolo e soggiogato e ridotto a obbedienza. Dinanzi a tale potenza l’individuo si riflette dunque in se stesso; a lui essa è l’essenza oppressiva ed il cattivo; essa infatti, anziché essere l’eguale, è senz’altro l’ineguale dell’individualità. Invece, la ricchezza è il buono… Sta facendo il discorso esattamente al contrario, per mostrare che nessuna delle due da sé, scissa dall’altra, può sussistere. La ricchezza è in sé universale beneficio; se essa ricusa qualche beneficio e non viene incontro ad ogni bisogno, ciò è un’accidentalità che non lede… A pag. 57. Ora, come prima l’indifferenza dei due lati dell’estraneazione, - l’uno lo in-sé della pura coscienza, vale a dire i pensieri determinati di buono e di cattivo, l’altro lato la loro esistenza come potere statale e come ricchezza, - si elevava a rapporto di entrambi, cioè a giudizio; così questo rapporto esteriore dovrà elevarsi a interiore unità, o, come rapporto del pensare, a effettualità; e dovrà scaturire lo spirito di entrambe le figure del giudizio. Questo accade allorché il giudizio diviene sillogismo; diviene movimento mediato, dove sorgono la necessità e il medio di entrambi i lati del giudizio. Cioè, dove questi due momenti si integrano nel concetto di nazione. La nazione, secondo Hegel, è ciò che Napoleone aveva creato: dopo la Rivoluzione Francese Napoleone ha messo insieme i due momenti, il positivo e il negativo, lo Stato e la ricchezza, creando il suo impero. Questo nell’idea di Hegel, naturalmente. A pag. 60. Il linguaggio come l’effettualità dell’estraneazione o della cultura. Ma questa estraneazione accade soltanto nel linguaggio… Estraneazione di un elemento rispetto all’altro, nel senso che gli è opposto. …che qui si presenta nel suo significato peculiare. Nel mondo dell’eticità legge e comando, nel mondo dell’effettualità soltanto consiglio, il linguaggio ha a contenuto l’essenza e ne è la forma; qui peraltro riceve la forma ch’esso è anche a contenuto a ha, dunque, valore come linguaggio; è la forza del parlare come tale quella che realizza ciò che è da realizzare. Il linguaggio è infatti l’esserci del puro Sé come Sé; in esso la singolarità per sé essente dell’autocoscienza come tale entra nell’esistenza, cosicché la singolarità è per altri. La singolarità per sé essente dell’autocoscienza entra nell’esistenza attraverso il linguaggio, incomincia con il linguaggio: solo con il linguaggio posso incominciare a dirmi che esisto. Come faccio a dirmi che esisto senza il linguaggio? È solo con il linguaggio che interviene l’esistenza. L’Io, come questo puro Io, altrimenti non è un esserci, non è là; in ogni altra manifestazione l’Io è calato nell’effettualità e si trova in una figura dalla quale può ritrarsi; esso dalla sua azione come dalla sua espressione fisionomica è riflesso in sé, e lascia disanimato un tale imperfetto esserci nel quale sempre si trova o troppo o troppo poco. Ma il linguaggio lo contiene nella sua purezza; soltanto esso enuncia l’Io, l’Io stesso. Questo esserci dell’Io è, come esserci, una oggettività che ha in lei la sua vera natura. L’Io è questo Io, - ma parimente Io universale. Questa è la potenza del linguaggio: questo Io è singolare ma anche universale, simultaneamente. Il suo apparire è altrettanto immediatamente l’alienazione e il dileguare di questo Io, ed è, quindi, il suo restare nella sua universalità. Questo Io particolare, nel momento in cui prende coscienza di sé, dilegua in quanto Io particolare e ritorna come universale, cioè, come significato dell’Io. Potremmo dire che il significante ha il suo significato; questo significato, nel momento in cui dico il significante, dilegua, non c’è, non lo vedo, non esiste, ma fa sì che il significante sia quello che è, cioè, che significhi qualcosa. Nel momento in cui lo dico, il significato dilegua; ma potremmo anche dire che nel momento in cui dico qualunque cosa, questa dilegua, dilegua in ciò di cui è fatta, nelle infinite cose di cui è fatta, cioè, di tutte quelle cose, torno a dire, che quella cosa non è. Quindi, dicendosi una qualunque cosa, dilegua in ciò che quella cosa non è, e quindi lo ha come suo opposto. L’Io che si esprime viene avvertito; è un contagio, ove esso è passato immediatamente nell’unità con coloro per i quali esiste; ed è autocoscienza universale. Ch’esso venga avvertito, in ciò il suo esserci stesso è immediatamente svanito; questo suo esser-altro è ripreso in se stesso; e appunto questo è il suo esserci; non esserci come autocosciente Ora appena ci è, ed esserci mediante questo dileguare. Questo dileguare è dunque esso stesso immediatamente il suo restare; è il suo proprio sapere di sé; è il suo sapere di sé come di un Sé che è passato in un altro Sé, che è stato avvertito ed è universale. Sembra complicato ma in realtà è abbastanza semplice. Ci sta dicendo che questo Io lo avverto ma appena lo avverto, cioè mi avverto come Io, questo Io dilegua, scompare. Ma è soltanto perché scompare che qualche cosa permane. Che cosa permane? Permane il movimento, il movimento per cui questo Io dilegua… Usiamo l’esempio di prima: io sono io. Il secondo Io dilegua per cui, soltanto se dilegua il secondo Io allora il primo Io diventa quello che è, cioè, può permanere come essenza. Infatti, dice, esserci mediante questo dileguare, cioè, c’è mediante questo dileguare. Il primo Io c’è grazie al fatto che il secondo Io dilegua. Dilegua ma non scompare; semplicemente, costituisce la condizione dell’esistenza del primo, così come il significato costituisce la condizione di esistenza del significante. A pag. 62. L’unità sorge quindi come un medio escluso e distinto dalla separata effettualità dei lati… Pensate alla relazione. I due estremi sono il significante e il significato, per esempio. Il medio è la relazione, cioè, il linguaggio; è il linguaggio che unisce questi due elementi e li fa essere quello che sono. …anch’essa ha perciò un’oggettività effettuale distinta dai suoi lati,… La relazione non è i suoi lati della relazione. …ed è per sé, vale a dire è un esserci. La sostanza spirituale entra come tale nell’esistenza soltanto allorché ha guadagnato ai suoi lati tali autocoscienze che sanno questo puro Sé come effettualità immediatamente valida, e che in quest’atto altrettanto immediatamente sanno che ciò è soltanto attraverso l’atto estraniante della mediazione. Ciascuno di questi due elementi sa di essere sé soltanto attraverso l’atto della mediazione, che fa sì che l’uno scompaia integrandosi nell’altro, e viceversa, ma ci sono entrambi., se considero ciascuno per sé, cesso di considerare anche l’altro. Ecco perché dilegua continuamente, le parole dileguano mentre le dico, perché mentre le dico scompaiono nel detto dissolvendosi in infinite altre cose. Freud avrebbe detto che ciascuna parola che si dice, dicendosi, produce una quantità di fantasie, si dissemina in una quantità sterminata di fantasie: immagini, sensazioni, ricordi, ecc. Mediante questo sapere del Sé… Sapere, quindi, che ciascuno di questi momenti dilegua a “vantaggio” dell’altro. …i momenti sono purificati a categoria che sa se stessa, e giungono così fino ad essere momenti dello spirito… Del tutto, dell’intero. …con che lo spirito entra nell’esistenza come spiritualità. Esso è così il medio che presuppone quegli estremi e che vien prodotto dl loro esserci,… Il medio presuppone quegli estremi, ma è prodotto da loro. …ma è parimenti l’intiero spirituale che erompe fra i due estremi, che in essi scindesi, e che solo mediante questo contatto produce ciascuno di essi, formandone un intiero nel suo principio. Questi due momenti, nel momento in cui si trovano nella relazione che sono l’intero; intero che non è più questo più quest’altro, ma è la relazione che lega indissolubilmente questi due elementi. Questa è un po’ la questione portante di tutto il pensiero di Hegel ed è anche, forse, la cosa più difficile da intendere: questo movimento, che poi altro non è che la dialettica, dove ciascuno dei momenti, nel momento in cui io voglio prenderlo, dilegua, scompare, così come accade, di fatto, per ciascuna parola. Se io voglio prenderla, cioè voglio sapere che cosa veramente significa quella parola, fino a quando posso andare avanti a inseguirla? Ecco che dilegua continuamente, e io sempre dietro a correre senza raggiungerla mai. In fondo è questo il messaggio di Hegel, poi ripreso dalla semiotica, ma in Hegel c’è già tutto: i due elementi sono quello che sono in virtù del fatto che c’è questo medio che li fa esistere. I due elementi presuppongono il medio, il quale medio presuppone i due elementi. La relazione è questo.