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4-12-2013

 

Intervento: quand’è che la macchina sta seguendo correttamente le regole? Quando fa quello che ti aspetti che debba fare, quindi si metterebbe in rilievo l’aspettativa non più la regola…

Puoi anche porla differentemente, cioè che ha seguito correttamente la regola quando fa esattamente ciò che tu gli hai detto di fare…

Intervento: però io mi aspettavo una certa risposta. È solo una questione di aspettarsi qualcosa?

No, è l’utilizzo di questo verbo che ti distrae, “aspettarsi qualcosa da qualcuno”. Poni la questione così: quando tu sommi un certo numero di 1, per esempio prendi cinque 1 poi li sommi, questo risultato “5” tu sai che è corretto perché è quello che ti aspetti che succeda oppure no? Io so che 1+1+1+1+1 = 5, questo “5” è ciò che mi aspettavo che accadesse? Mi hanno detto che se sommo cinque volte 1 il risultato dà 5, ho verificato operando questa somma…

Intervento: se io so come funziona il calcolo è difficile che io sbagli una sequenza così semplice, un bambino può sbagliare…

So che il risultato è 5, quindi sì, puoi anche dire che “mi aspetto, attendo che sia 5, so che deve essere 5” qualunque altro numero intervenga so che è errato, ma qual è la questione che tu ponevi esattamente?

Intervento: un’aspettativa è come se dipendesse da uno stato mentale… se la verifica dipendesse da uno stato mentale allora si darebbe ragione alle neuroscienze…

A questo punto dovresti procedere con metodo, e cioè domandarti che cosa intendi con verifica, se vuoi puoi partire dall’etimo, qualche volta la verifica è una dimostrazione, altre volte no, se ti serve puoi usare la definizione che dà Wittgenstein, se no, puoi riflettere tu anziché lasciare il compito a Wittgenstein, che cos’è una verifica? Quand’è che parliamo di verifica? Come dice la parola stessa quando vogliamo sapere se una cosa è vera, cioè una certa affermazione, una certa cosa è vera rispetto a dei criteri che abbiamo stabiliti, quindi per fare una verifica occorre che ci sia un criterio, e quindi è questo criterio che ci dirà se il risultato che abbiamo ottenuto è vero oppure no, l’aspettativa è un a cosa in più, uno può anche aspettarsi assolutamente niente, ciò non toglie che possa compiere una verifica, senza aspettarsi niente, semplicemente raffrontando il risultato fatto, ottenuto in un certo modo con un risultato ottenuto in un altro modo. Poni la questione così: quando tu installi un programma sul tuo computer, lui prima di installare questo programma deve verificare se il programma è compatibile con il sistema operativo. Come fa una macchina a compiere questa verifica? Qui è già più difficile parlare di aspettativa, come fa a verificare che il programma che gli metti dentro, per esempio Office, è compatibile con Windows? Intervento: riconosce degli elementi…

Certo ci sono una serie di passaggi che compie, la macchina utilizza una sequenza, chiamiamoli pure algoritmi, che consentono di stabilire se le informazioni che riceve sono costruite, fatte in modo tale per cui sono compatibili con Windows, ma la macchina si aspetta qualcosa propriamente?

Intervento: però l’obiezione che fanno in molti è che se lo aspetta chi ha programmato quella macchina…

Non è che se lo aspetta, lui l’ha programmata perché faccia queste cose e puoi prendere il programmatore, anche lui, come se fosse una macchina, dopo tutto chi ce lo vieta? E nella macchina non c’è nessuna aspettativa, c’è soltanto un controllo, un controllo per esempio uno a uno, a seconda delle informazioni che riceve controlla la struttura di queste informazioni e se questa struttura coincide con la struttura che la macchina è programmata per accogliere, o potremmo dire si “aspetta” oppure “programmata” per accogliere, se coincidono le accoglie. Potremmo dire “che è soddisfatta la sua aspettativa”, ma la macchina si aspetta qualcosa? Non direi. È l’uso di un certo verbo particolare che è fuorviante, perché effettivamente come dici tu “aspettarsi qualche cosa” comporta per molti uno stato mentale, e quindi immaginano che ci sia davvero un aspettarsi qualche cosa e che l’aspettarsi qualcosa significhi proprio quella cosa lì, e cioè uno stato mentale, solo a questa condizione è possibile per il teorico immaginare che allora la verifica sia dipendente da uno stato mentale, che è un processo neurofisiologico eccetera, però ci vogliono un certo numero di superstizioni, di credenze per potere giungere a questa conclusione. Ma se usi questo verbo e pensi che voglia dire quella cosa lì, e qui ci sarebbe tutto un discorso da riprendere sulla teoria semantica, allora ti comporti di conseguenza, perché sei “programmata” a comportarti in un certo modo quando un certo elemento interviene nel tuo discorso ed è accolto come vero con quel significato. È allora, da quel momento che partono una serie di derivazioni, implicazioni, per cui se è considerato un processo mentale allora attiene alla neuroscienza…

Intervento: io comunico qualche cosa a qualcuno, io ho un’aspettativa secondo la mia comunicazione cioè io aspetto qualcosa…

Sì, non è proibito aspettarsi qualcosa da qualcuno, è il modo in cui il linguaggio descrive una situazione in cui una persona fa qualche cosa, e questo qualche cosa deve produrre un certo risultato, lo si chiama spesso “aspettarsi qualche cosa”, ma possiamo anche chiamarlo in un altro modo volendo e quindi non c’è più l’aspettativa, quindi non c’è più lo stato mentale. È arduo sostenere che una macchina abbia delle aspettative, appunto perché l’aspettativa è considerata uno stato mentale, la macchina non ha stati mentali, ha stati interni che molti associano agli stati mentali, ma questo è un altro discorso, si può associare qualunque cosa a qualunque altra, però devo pensare che l’aspettativa sia una cosa ben precisa, perché se non penso questo allora, se lo utilizzo soltanto come un modo di dire qualche cosa che allude a un metodo di verifica, non è più neanche uno stato mentale è semplicemente una formulazione che introduce a certe operazioni. Il problema che interviene spesso è che quando si usa una certa parola, che sia un verbo, un sostantivo, un aggettivo, qualunque accidente sia, si immagina che quella cosa sia quella cosa lì, che voglia dire quello, che è un modo di pensare comunissimo e che potremmo ascrivere al pensiero ontologico “quella cosa è questo, ed è soltanto questo” “l’aspettativa è uno stato mentale” perché? Chi l’ha detto? Potrebbe anche esserlo, ma potrebbe anche non esserlo, può anche essere semplicemente una formulazione che viene utilizzata come allegoria, come metafora per indicare un processo che non è un processo mentale ma è un processo logico, esattamente come fa la macchina. Quando una macchina si arresta in attesa di input, c’è un’aspettativa nella macchina? Intervento: potremmo dire di sì, potremmo dire di no…

Bravissima, a seconda di come intendiamo “avere una aspettativa” può essere in questo stato di aspettarsi qualcosa da qualcuno esattamente, può essere sì, può essere no, a seconda del modo di come intendiamo questa cosa. Talvolta i filosofi analitici sono troppo veloci nel trarre delle conclusioni e nell’utilizzare dei termini senza prima considerare perché danno il significato che danno, che è la questione centrale e di cui tu dovrai parlare nella tua tesi, perché dopo avere considerato, come hai fatto, la questione del significato come uso in Wittgenstein, e averlo citato abbondantemente e avere mostrato che per Wittgenstein è l’importanza di un criterio che dice se una regola è stata eseguita correttamente oppure no, cosa che ti ha portato a una domanda fondamentale e cioè com’è che si apprende una regola? Come si fa? Che abbiamo visto non essere altro che la domanda “come si impara a parlare?”, e questo ti ha condotto a una riflessione intorno al modo in cui si insegna a una macchina a parlare. Che cosa fa la macchina? Acquisisce questi elementi e li processa e produce delle altre cose, ma perché siano inseriti occorre che vengano riconosciuti come elementi di una certa struttura e cioè occorre che abbiano un certo significato. Al punto in cui ci troviamo adesso occorre forse fare un piccolo passo indietro, e cioè riprendere la questione semantica del significato: perché la macchina deve riconoscere un significato dopo che gli sono state fornite le istruzioni per riconoscerlo ma deve riconoscere che cosa esattamente? E allora veniamo alla questione antica “che cos’è un significato?” o se preferisci “qual è il significato del significato?”, e qui si pone la questione interessante perché per la macchina per esempio il significato è sempre univoco, perché è stata istruita per compiere questa operazione: un rinvio da uno a uno, diciamo, non come per gli umani che delle volte il rinvio è da uno a mille, dunque che cos’è un significato? Sappiamo che tutte le teorie che sono state poste sul significato, le teorie referenziali, e cioè il significato non è altro che ciò che la parola denota rispetto a un oggetto, il significato di “tavolo” è questo tavolo qui; oppure una teoria inferenziale dove il significato del tavolo non è più questa cosa qui ma una serie di elementi che io traggo da altre informazioni che ho avute; poi la teoria composizionale che è un aspetto di quella inferenziale, e cioè il significato come la somma dei significati dei singoli componenti della proposizione. Tenete sempre conto che la filosofia analitica si occupa del linguaggio naturale, dei linguaggi parlati, non dei linguaggi formalizzati, di questo se ne occupa la matematica, la logica matematica in particolare, e avevamo detto che perché un elemento sia riconosciuto dalla macchina deve avere un significato, per la macchina ovviamente, che è come dire che una certa parola deve avere un rinvio, un rinvio a qualche cos’altro, per la macchina univoco. Per esempio quando premiamo la A sulla tastiera compare una A sul monitor e non una poesia del Pascoli. Tutto questo ci dice che un elemento, per potere essere utilizzato vuoi dalla macchina vuoi da un umano, deve avere un significato e a questo punto potremmo azzardare che debba essere un significato, cioè un rinvio, e questo ci dice soltanto che un elemento per essere utilizzato cioè riconosciuto dal sistema deve avere certe caratteristiche, così come facevamo l’esempio di Office che deve essere riconosciuto da Windows quando lo si installa. Questo significato consente di utilizzare un elemento, diciamo una parola per farla più semplice, è generalmente il significato, questo nel linguaggio naturale, che viene fornito da un dizionario, tuttavia sapete che se prendete dieci dizionari italiani e cercate una parola troverete le definizioni simili ma non identiche, ci sono delle varianti, quindi il significato in questo caso non è propriamente da uno a uno ma da uno a n. Ciò non di meno nel linguaggio comune il riferimento, ciò che la parola denota si riferisce a quella definizione del dizionario, questo è ciò che consente di utilizzare la parola, poi a questo punto la parola non è che rimane lì, ha bisogno di altre parole e cioè di essere inserita all’interno di una frase, di una proposizione, di un discorso, di una storia, di un racconto. Inserita all’interno di questa struttura questa parola con quel significato si trova in alcuni casi ad assumere significati totalmente differenti, e cioè a questo punto abbiamo due tipi di significato, un significato referenziale, che è quello che si riferisce a un qualche cosa e che è la condizione perché la parola possa essere utilizzata, e un significato inferenziale per cui quella parola trae il suo significato dalla combinazione, dalla relazione che intesse con altri significati. Dicevo l’altra volta del “tavolo delle trattative”, dove “tavolo” ha una definizione “tavolo piano orizzontale sostenuto da uno o più supporti” anche “trattativa” ha una definizione “l’agire di un certo numero di persone al fine di ottenere la risoluzione di un contenzioso”, però dire “tavolo delle trattative” non è solo la somma di questi due significati, produce un terzo significato dove “tavolo” diventa irrilevante, quasi irrilevante, ma indica che c’è un qualche cosa su cui si appoggiano gli elementi di cui si discute, di cui si contende e dei quali occorre trovare un accordo. Dunque il “tavolo delle trattative” dice un qualche cosa di più, dice che questa trattativa ha degli elementi su cui sta discutendo, precisi, che sono quelli che sono stati posti sul tavolo, quindi non è più solo una trattativa ma una trattativa specifica che ha già degli elementi su cui lavorare per giungere a un accordo. Quindi da “tavolo” e “trattative” sorge un terzo significato che è quello di “tavolo delle trattative” che non è la somma dei due, ma è un’altra cosa, è una produzione di significato. Questo potrebbe essere un aggancio alla teoria semiotica di Greimas perché ci ricorda vagamente, vagamente, perché non è proprio così, il quadrato semiotico, dove da due elementi in opposizione, qui non sono in opposizione, ma in ogni caso da due elementi differenti sorge un terzo elemento il quale può sorgere solo se ci sono questi due. Dunque da due significati sorge un terzo significato, e questo è il significato inferenziale. Quindi abbiamo un significato referenziale che è quello che consente di potere usare una parola, e il significato inferenziale che ci dice come quella parola la stiamo usando nel discorso. Quindi abbiamo un significato tanto referenziale quanto inferenziale, cosa che risolverebbe in buona parte le diatribe dei filosofi analitici, alcuni sono per il significato referenziale, cioè quando dico tavolo intendo questo tavolo qui, e quelli che seguono la teoria inferenziale, per cui questa cosa c’è, però posso conoscerla soltanto attraverso delle relazioni inferenziali. Ma qui arriviamo alla questione più interessante e più complessa: la questione del significato referenziale. Una questione delicata, molto complessa, ma costituirà il centro, il cuore pulsante della tua tesi, perché o il significato referenziale si riferisce a un oggetto, una cosa, oppure si riferisce, denota non una cosa ma una sequenza di parole, come articolare questo aspetto? Intanto possiamo dire che delle parole per essere utilizzabili devono essere connesse con altre parole, che è importante, cioè devono avere una descrizione, una definizione. Una macchina si costruisce il concetto di tavolo, ma non ha mai visto un tavolo in vita sua. Ma può riconoscerlo perfettamente.

I sistemi di visione artificiale nella descrizione di Rosenfeld 1988 non contengono immagini, neppure digitalizzate, i classici oggetti che il sistema è in grado di riconoscere, per esempio i tavoli e i cubi sono identificati con classi di forme, che a loro volta sono interpretate come strutture relazionali cioè grafi etichettati, i cui nodi rappresentano parti dell’oggetto e gli archi rappresentano relazioni tra le parti, le etichette dei nodi sono valori di certe proprietà o vincoli su questi valori e analogamente le etichette degli archi sono valori delle relazioni o vincoli su questi valori, per esempio un tavolo, il nostro tavolo famoso, è identificato con una classe di forme espressa da una struttura relazionale i cui nodi rappresentano le parti del tavolo, il piano, le zampe e gli archi rappresentano le relazioni tra le parti, le etichette dei nodi e degli archi non specificano valori assoluti, misure, ma vincoli su valori possibili, il problema del riconoscimento di un tavolo in una scena diventa allora quello di trovare sotto grafi del grafo della scena che corrispondono bene al grafo dell’oggetto o che soddisfino i vincoli definiti dal grafo dell’oggetto, per esempio ci sono due piccole sedie davanti al tavolo, cosa fa la macchina? La verificazione procederebbe nel modo seguente l’enunciato “c’è un vaso sul tavolo” sarebbe sottoposto a un’elaborazione di tipo tradizionale dando luogo a una rappresentazione semantica, una tale rappresentazione specificherebbe almeno quanto segue: 1) la struttura logica dell’enunciato espressa tipicamente da una formula del prim’ordine, in questo caso da qualcosa come vi è una x e vi è una y tale per cui x è un vaso e y è un tavolo e su x y eccetera.

Non c’è nessuna immagine, nessun disegnetto del tavolo, ci sono solo sequenze, questo è il modo in cui la macchina “vede”. Questo cosa ci dice tutto ciò? Bada bene che la questione che ci stavamo ponendo riguarda il significato referenziale, e cioè se per stabilire il significato di qualcosa abbiamo bisogno della “cosa”, non che possa esserci utile, questo è un altro discorso, ma se è necessario che ci sia la “cosa”, e questo è il punto cruciale perché da qui è possibile riflettere per dissolvere il così detto realismo, che sia nuovo o vecchio. Cosa diceva Tommaso? Nihil est in intellectus quod non prius fuerit in sensu. Ora applichiamo questa formulazione di Tommaso, potremmo porla come l’esergo del realismo e cioè che prima ci vuole qualche cosa che il senso percepisca, dopo posso costruire tutto quello che mi pare, ma se non c’è la cosa che io percepisco non posso fare niente. A questo punto torniamo alla descrizione di Rosenfeld di come la macchina vede. Confuta quello che dice Tommaso, quello che afferma il realismo, cioè non c’è bisogno che esista la “cosa” per potere costruire una descrizione, una definizione, una sequenza. È una questione di fondamentale importanza, è il cuore pulsante di tutta la tua tesi, perché sarà quel passo che consente di giungere a considerare il significato referenziale, cioè quello che consente di potere utilizzare un termine che non ha nessuna necessità di essere agganciato a un qualche cosa che sia fuori dal sistema, capisci l’importanza della cosa? Per giungere poi alla considerazione che il referente di una parola è fatto di altre parole, non c’è nient’altro. In questo modo tu argomenti con argomentazioni robuste, che di fatto il significato di qualche cosa ha due aspetti, il primo è quello referenziale, cioè deve riferirsi alla sua definizione, quella che si usa, l’altro, il significato inferenziale, è quello che si produce connettendosi con altri significati. Ma che il significato referenziale abbia come sua denotazione unicamente una descrizione e non qualche cosa, questo è fondamentale, questo sovverte tutto per via delle implicazioni che ha, perché a questo punto, quando tu fai una costruzione, un’argomentazione, una descrizione, un’ipotesi, quello che stai facendo è soltanto costruire all’interno di un sistema delle sequenze coerenti con il sistema. Sono sequenze all’interno di un sistema, che non hanno nessun bisogno di avere alcunché al di fuori del sistema, e cioè sono soltanto stringhe che, esattamente come fa la visione, calcolano e vengono fuori delle immagini. Le implicazioni di tutto ciò sono che parlando non si definiscono le cose, non posso in nessun modo dire come stanno le cose, ciò che si fa parlando è costruire sequenze, il cui obiettivo, il cui fine, il cui scopo, la cui aspettativa, è di costruire altre sequenze, nient’altro che questo. Una conclusione che avvertirai immediatamente essere devastante per tutto il pensiero, come se si spalancasse il nulla assoluto, che non ha nulla di tragico naturalmente, non si tratta di nichilismo. Il nichilismo in buona parte ha sempre avuto la necessità dell’ontologia per potere farsi, in questo caso no, è semplicemente una considerazione a questo punto inevitabile del funzionamento di quella struttura di cui gli umani sono fatti. Da qui si può aprire un discorso su come avviene che a partire da questo sia possibile costruire tutte le fantasie, tutte le superstizioni che gli umani si sono inventati, questo è un altro discorso di importanza notevole perché apre alla questione della verità, del potere.