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4-12-1997

 

AUSTIN

 

 

Allora dunque Austin J.L. morto giovane...perché ci interessa Austin? Perché lui incomincia a considerare alcuni verbi cosiddetti performativi, i verbi performativi sono quelli che compiono l’azione che dicono di fare, come per esempio prometto, spero, giuro cioè dicendo questa cosa fa esattamente ciò che dice di fare, mentre grammaticalmente non sono considerati performativi i verbi come mangio, generalmente dire di mangiare non comporta di mangiare, però, dice Austin, che ciascuna volta i verbi che lui divide come la grammatica tra performativi  e constativi, i performativi  sono quelli appunto, che come dicevo prima, sono quelli che fanno ciò che dicono di fare e quelli constativi che sono quelli che, come dice la parola stessa constatano qualche cosa, cioè affermano qualche cosa, ecco la differenza dice lui non è così notevole poiché ciascuna volta che io dico qualche cosa in effetti faccio qualcosa e comincia per esempio da alcuni verbi fa l’esempio del battezzare una nave, dico: battezzo questa nave; ora perché io possa effettivamente, come dice lui, fare questa operazione occorrono delle condizioni, che io sia preposto a fare questa operazione intanto, che ci sia una nave  da battezzare e tutta una serie di altri elementi. Se io vado in un porto prendo una bottiglia di champagne e la scaravento contro una nave  e  dico: ti battezzo, non per questo si considera veramente che io abbia battezzato una nave, occorrono delle condizioni e allora questo verbo battezzare, in questo caso raggiunge il suo scopo se ci sono delle condizioni, cioè quelle che generalmente sono accolte,  perché questo battesimo abbia un esito. Lui indica con questo termine “felicità” l’adempimento di queste condizioni, se io sono preposto a battezzare una nave, se ci sono tutte le condizioni e faccio questo, allora l’enunciato, dice Austin, è felice cioè raggiunge il suo scopo, e infelice nel caso contrario. Ma la cosa può andare più in là in effetti, ciò che io dico, qualunque cosa dica produce qualche cosa, come dire che ciascuna proposizione produce un’altra proposizione. Possiamo dire che fa ciò che dice di fare? Proviamo a considerare bene la questione, una proposizione afferma una certa cosa x, adesso non importa quale, affermando questa cosa x, la produce, la produce perché produce un’altra proposizione, questa affermazione che faccio è un’altra proposizione, poniamo che affermo domani andrò alla posta. Ora per Austin questo enunciato è un enunciato felice se effettivamente domani andrò alla posta, se ci sono le condizioni se...tutta una serie di cose, però consideriamo meglio questa affermazione cosa produce? Ha degli effetti ovviamente, noi potremmo dire che perché funzioni, perché questa proposizione in qualche modo abbia un senso, occorre che chi la dice almeno, se non chi la ascolta abbia degli elementi per intendere ciò che sto dicendo, quindi sappia che cos’è la posta, sappia che io ci posso andare, tutta una serie di altre cose, quindi affermando che domani andrò alla posta io faccio qualche cosa...generalmente si considera che se io affermo che domani andrò alla posta con questo non sono andato alla posta, ovviamente e né è sufficiente che io lo dica perché ci vada, occorre che io compia questa operazione, questo generalmente cioè all’interno di (dicevamo la volta scorsa) di un particolare gioco linguistico, che ha una regola, una fra le altre e dice che se io affermo una cosa del genere allora si produrrà un evento tale che conferma, sempre all’interno di questo gioco, conferma l’affermazione precedente, però, però affermando che domani andrò alla posta questa affermazione che io faccio non è sganciata, non è fuori dalla parola, cosa comporta questo? Comporta che affermare una cosa del genere produce altre proposizioni, che possono essere immagini, sensazioni, attese, qualunque cosa non ha importanza, produce, diciamola così, generalmente, genericamente, produce altre proposizioni, ora queste altre proposizioni che vengono prodotte  da questa affermazione “che domani andrò alla posta”  sono ciò che questa affermazione produce, sono l’effetto di questa proposizione. Ora perché diciamo che anche questo verbo è perfomartivo? (di per sé non lo sarebbe)  Perché attenendoci a quanto dice Austin, ma non seguendolo qui più di tanto, perché sono performativi i verbi che fanno qualcosa, ha deciso che fanno ciò che dicono di fare, in questo caso noi ci limitiamo a considerare che performativo è ciascun verbo che produce, che fa qualche cosa. Perché se noi dicessimo che fa quello che dice, già, ma che cosa dice esattamente? Qui abbiamo bisogno di un criterio per stabilire il senso di una proposizione e allora affermare che andrò alla posta ha un senso particolare all’interno di un certo gioco linguistico, ma se fossimo, adesso faccio un esempio molto banale, se fossimo in guerra e usassimo un codice cifrato per trasmetterci informazioni o messaggi, magari dire domani andrò alla posta, ha tutt’altro significato, vuol dire occupare la collina tal dei tali, e allora cosa possiamo trarre da questo? Che per  poter dire che un verbo perfomativo nell’accezione corrente del termine raggiunge o è felice come dice Austin, è necessario stabilire un criterio che verifichi il senso di questa proposizione, soltanto a questo punto noi possiamo stabilire  se questo enunciato è felice oppure no, soltanto se noi possiamo stabilire quale ne è il senso. Stabilire qual è il senso di una proposizione, come abbiamo vista negli incontri precedenti, soprattutto rispetto a Wittgenstein, non è altro che stabilire o reperire quali sono le regole del gioco in cui è inserito. Se noi volessimo proprio dirla tutta, con o contro Austin non ha nessuna importanza,  un enunciato è felice se, cioè raggiunge il suo obiettivo, se e soltanto  se, sono stabilite certe regole del gioco. Affermare la proposizione che dice io battezzo questa nave non è felice se io per esempio non sono preposto a questa operazione, non è detto che sia proprio esattamente così, occorre  stabilire quali sono le regole del gioco prima, perché se con questo enunciato io intendo trasferire un messaggio in codice ad un’altra persona allora l’enunciato è felicissimo, perché l’altro capisce perfettamente quello che dico, o intendo dire: io battezzo la nave vuol dire comprare la banca. Certo, in codice, ecco allora Austin prima di affermare una cosa del genere avrebbe dovuto forse considerare più attentamente la questione che l’enunciato è felice se soddisfa delle condizioni, ma queste condizioni non sono altro che le regole o la grammatica del gioco in cui è inserito, se cambiamo la grammatica l’enunciato anche se secondo lui non è affatto felice, invece è felicissimo come nel caso di una variazione semantica dovuta alla produzione di altre regole, per esempio quella di un codice cifrato. Ma a noi è interessato Austin perché ci ha indotto a pensare che  ciascun atto linguistico di fatto è performativo e cioè fa quello che dice, perché è il dire qualcosa che è il fare propriamente, come se, e qui ancora Austin è discutibile, il fare fosse altro dal dire. Ora noi possiamo anche affermare questo, ma se e soltanto se, come dicono i logici, stabiliamo una grammatica tale che fra le sue regole comprende quella che distingue il fare dal dire, se no, no, perché il dire non è un fare? Dicendo, io faccio qualcosa cioè dico e quindi risulta inalienabile il fatto che dicendo faccio o dicendo dico, che è la stessa cosa. E allora a questo punto non c’è non solo verbo, ma non c’è enunciato, non c’è affermazione che non sia performativa cioè che non faccia ciò che dice, cioè che cosa fa ciascuna affermazione? Dice, dice  quello che dice. Anche Austin scivola fra i due aspetti con i quali ci troviamo spesso ad avere a che fare cioè quello logico e quello retorico, dal momento che per alcuni versi pare considerare questioni logiche, cose che sono prevalentemente e prettamente retoriche, allora se noi consideriamo che all’interno di un certo gioco linguistico, stabilite certe regole allora se l’enunciato si comporta in un certo modo è felice, va bene ma è all’interno di un gioco prettamente retorico, potremmo anche dire parafrasandolo sempre Austin, che  una metafora  come quella che afferma che Don  Abbondio non aveva certo un cuor di leone, del Manzoni, ha un esito felice se e soltanto se, la persona cui mi rivolgo è in condizioni di cogliere questa metafora, e cioè sa che questa è una metafora, allora l’enunciato è felice, ma all’interno di certe regole del linguaggio, all’interno di certe regole del gioco meglio, e allora potremmo più precisamente dire  a fianco a Austin, che un enunciato è felice, usiamo questa sua infelice formulazione, un enunciato è felice se soddisfa le condizioni del gioco linguistico in cui è inserito. Questo però Austin non lo dice, non lo dice perché immagina che sia una questione logica mentre non lo è, abbiamo visto che se variano le regole del gioco in cui è inserito un certo enunciato, questo può essere felicissimo in tutt’altre condizioni da quelle che lui immagina. Però dicevo l’aspetto interessante quello che ci ha indotti a leggerlo e a riflettere sulle cose che dice è che dicendo io faccio qualcosa, necessariamente. Perché necessariamente? Perché se dico, dicevamo forse la volta scorsa,  se dico dico necessariamente qualcosa, quindi faccio qualcosa, non posso dire senza dire nulla, non posso dire e non dire, cioè posso farlo ma come figura retorica e allora si chiama, ha un nome particolare noto come aposiopesi, cioè il tacere delle cose: dire e non dire. Ho visto quella persona fare delle cose e non dico altro, che è un modo per non dire, ma dire invece un sacco di cose, è come dire che quella persona ha fatto quello più  infinite altre cose il cui tacere è bello, direbbe Dante. Dunque dicendo faccio inesorabilmente,  questo ci costringe a considerare che ciascun atto linguistico è performativo e questa è una questione logica e potremmo dire che è una procedura linguistica, in quanto non è negabile, tutto ciò che non è negabile all’interno del linguaggio, noi lo consideriamo una procedura e cioè uno degli elementi di cui il linguaggio è fatto, e di cui non potrebbe fare a meno salvo dissolversi. Ma a fianco a questo ci sono moltissime considerazione e qui ecco che interviene la questione dell’intenzione, se io dico domani verrò, qualcuno mi chiede ci sarai domani? Sì domani verrò. Per Austin questo enunciato è felice se io intanto ho l’intenzione di fare  questa operazione, quella di venire domani, e se effettivamente domani ci saranno tutte le condizioni che consentiranno il mio venire, nel caso invece che io affermo, senza averne l’intenzione, allora dice lui l’affermazione, l’enunciato non è felice, è quello che generalmente si chiama menzogna, mentire sapendo di mentire. Ma forse non è così semplice la questione, proviamo a considerare che cosa sia un intenzione, con intenzione generalmente si intende costruire una proposizione che afferma che la persona che la afferma sia atterrà a ciò che la sua proposizione afferma, ma cosa vuol dire questo esattamente? Lasciando da parte in cui l’affermare che domani verrò abbia un altro senso cioè sia inserito all’interno di un altro gioco, come abbiamo fatto l’esempio prima  di un codice cifrato per esempio, che è ancora un’altra considerazione che può farsi e  che Austin non fa, ma lasciando stare questo, affermare che domani verrò è in quanto proposizione inserita all’interno di un gioco linguistico, quello che si sta facendo mentre io faccio questa affermazione, ora questa affermazione che sto facendo ha un senso, quindi ovviamente all’interno di questo gioco linguistico cioè quello che mi trovo a fare, ed è questo gioco linguistico che dà il senso, cioè dice cosa vuole dire questa affermazione domani verrò, e se io la facessi per gioco? All’interno di un gioco che faccio con amici, può accadere, se facciamo il caso, tutti sanno che io domani non potrò  in nessun modo venire a questo appuntamento, però dico giocando: domani verrò. Come la mettiamo in questo caso, mento o dico la verità? Non mento perché tutti quanti sanno benissimo che non sto ingannando nessuno è una menzogna lo stesso?

Intervento: è un modo di dire una cosa per dirne un’altra

Sì però in questo caso dico che verrò per dire che non verrò,  e come è possibile una cosa del genere? Seguendo Austin una cosa del genere non ha nessuna collocazione, non è né felice né infelice, non è felice perché non soddisferò questa affermazione, ma non è neanche infelice...(...)sì perché in un certo senso soddisfa tutto sommato, cioè raggiunge l’obiettivo che è quello per esempio di far ridere gli amici, no? E quindi è felice, è felice sia in un caso che nell’altro cioè è infelice e simultaneamente è felice, e come è possibile questo fenomeno? E questo paradosso possiamo reperirlo all’interno del discorso di Austin, ma il paradosso si dissolve immediatamente se teniamo conto di quali sono le regole del gioco linguistico in cui è inserito questo enunciato, come sempre avviene, tutti i paradossi si dissolvono, tenendo conto che afferma cose differenti, ma apparentemente, nel senso che un’affermazione è corretta quanto la sua contraddittoria, soltanto che sono inserite in giochi differenti, per questo non c’è paradosso, se noi teniamo conto di qual è il gioco linguistico in cui è inserita un’affermazione. Prendete un’altra affermazione su cui i filosofi si sono divertiti parecchio, la divisibilità dello spazio, forse abbiamo già accennato a questo aspetto, se io affermo questo foglio è divisibile in un numero infinito di parti. Questo enunciato è felice se effettivamente è divisibile in un numero infinito di parti, cioè in questo caso c’è una verifica che consente di dividere infinitamente questo foglio. Però anche l’affermazione che dice che questo foglio non è divisibile all’infinito è felice, volete sapere perché? Provate a dividerlo all’infinito, ci riuscite? No e quindi dire o meglio l’affermazione  che  afferma che questo foglio non è divisibile all’infinito è felice così come l’affermazione contraria. Già una bella questione!

Intervento:

ecco lei dice teoricamente e praticamente...( con l’immaginazione si può) No con il calcolo. Praticamente lo è,  perché io posso  cominciare a dividere e lungo...queste sono 21, no  27,9 il foglio a 4, di 28 cm e poi segue io matematicamente posso andare avanti e quindi secondo il gioco matematico io posso dividerlo all’infinito. Lo posso fare se ho tempo voglia e quindi è divisibile all’infinito, però anche qui sorgono dei problemi, perché se è divisibile all’infinito, io devo avere la certezza e devo andare avanti all’infinito, e quando ho la verifica? Allora vedete che la questione di enunciati performativi posta così come la pone Austin, si complica e può risultare meno semplice la questione di come la fa lui, però rimane di fatto che ci ha consentito di giungere alla considerazione che effettivamente ciascun atto linguistico è performativo cioè fa qualcosa, fa esattamente ciò che deve fare, cioè dire, in questo senso è sempre felice, non sbaglia mai cioè non esiste in questo caso l’enunciato infelice, esiste rispetto alla retorica e allora la retorica cosa dice? Giochiamo questo gioco che  se  tu non sei preposto  per battezzare la nave, se la nave non c’è, se siamo in alta montagna...ecco allora  affermare che battezzo la nave, è un enunciato infelice. Allora se facciamo questo gioco allora affermiamo che l’enunciato è infelice, ma occorre che giochiamo a questo gioco, non c’è l’enunciato infelice per definizione, che sia necessariamente infelice, lo è all’interno di un gioco particolare, con delle regole particolari. Questo ci porta a delle considerazioni, se noi affermiamo che ciascun atto linguistico è performativo diciamo che fa qualcosa e cioè dice, questa è la sola cosa che possiamo affermare con certezza, cioè nel senso che è un’affermazione necessaria, quindi l’unica cosa che possiamo affermare è che ciascuna affermazione dice qualcosa o se volete dirla altrimenti, la proposizione mettiamola tra virgolette “che io dica” comporta necessariamente che dica qualcosa, e cioè intanto il che io dica, che ho già detto. Questo solo possiamo dire necessariamente, ciò che aggiungiamo a questo è retorico cioè non è necessario, non è necessario e quindi viene affermato o ha un senso unicamente a partire da quelle regole che fanno quel gioco, come dire che Austin sta giocando un certo gioco che ha delle regole, e soltanto tenendo conto di quelle regole, ciò che lui dice ha un senso, fuori da quelle regole no, non significa niente. Ma proviamo a portare ancora la cosa oltre, prendete cio che sto dicendo adesso, sta sera, tutto ciò che dico muove all’interno di un certo gioco linguistico, che cosa faccio nel dire le cose che sto dicendo? produco proposizioni, questa è la cosa che possiamo dire con certezza, e produco anche del senso, queste proposizioni hanno un senso, cioè hanno una direzione, questa direzione, questo senso è fornito dalle regole che stanno intervenendo in ciò che dico, le regole sono moltissime generalmente quando si parla, e soltanto attenendomi a queste regole le cose che io dico hanno un senso, provate a considerare un qualunque enunciato che  voi vi trovate ad affermare durante il corso della giornata o in modo ancora più interessante delle affermazioni che vi trovate a fare riguardo per esempio alla realtà, per esempio riguardo a come stanno le cose, queste affermazioni che fate hanno un senso ovviamente che è prodotto dalle regole del gioco linguistico che vi trovate a fare in quel momento. Sarebbe interessante considerare in ciascun momento, che ciascuna affermazione produce un senso unicamente a partire dalle regole inserite nel gioco che si sta facendo. Voglio dire questo, che se affermo che la tale persona sta facendo la tale cosa o anche addirittura che se lascio andare questo orologio per terra questo cadrà e magari si romperà pure, questa affermazione in quanto tale è nulla, non è né vera né falsa, non è né felice, né infelice, è niente,  occorre un gioco linguistico in cui inserirla e soltanto a queste condizioni ha un senso, ma questo gioco linguistico, badate bene è un gioco linguistico, non è la realtà delle cose. Dicendo che, come facevamo l’esempio tempo fa, che un grave lasciato cadere senza nulla che lo tenga si precipiterà verso il centro della terra, anche questa affermazione è nulla, cioè non dice niente, assolutamente niente, non ha nessun referente. Questo può sembrare molto bizzarro, dal momento che l’osservazione lo conferma quindi l’affermare una cosa del genere sarebbe un enunciato felice, secondo Austin tra i più felici. D’altra parte tutte le definizioni che lui da di enunciato felice presuppongono l’osservazione, occorre qualcuno che osservi che le cose si verificano in un certo modo. Ma portiamo le cose alle estreme conseguenze e l’osservazione? Dell’osservazione cosa dobbiamo dire? Che garantisce che cosa? Che osserva che cosa esattamente? O l’osservazione è fuori dal linguaggio e allora osserva una realtà, cioè come dire metafisica cioè che va al di là... che va quasi al di là della percezione, oppure è nel linguaggio e allora lo stesso parlare di osservazione ha un senso unicamente all’interno di un gioco linguistico, o allora è fuori dal linguaggio oppure ha un senso a queste condizioni, e quindi appellarsi all’osservazione non è altro che uno spostare ma all’interno di un gioco linguistico, oppure ciò che osservo è reale, ma che cosa dico esattamente affermando questo? Che immetto a questo punto questo significante reale, per esempio, o vero, come preferite? Quando parlo di reale o di realtà ciò che dico ha un referente oppure no? Potrei dire  referente fuori da se stesso, oppure no? Questioni che possono sembrare oziose o marginali, però se si intende pensare in un certo modo e cioè giocare il gioco della logica per esempio, sono domande che è impossibile non porsi, allo stesso modo come è impossibile giocando a poker battere quattro assi con due sette, è impossibile rispetto a quel gioco, e così rispetto al gioco della logica non è possibile non porsi questa questione, cioè quando parlo di realtà questo significante ha un referente e se sì dove? Come lo so? E qui sorge qualche problema tentare di rispondere a questa domanda, sorge un problema perché qualunque risposta  non è altro che un rinvio alla stessa domanda e cioè è una petizione di principio, il reale è quello che vedo, che  è appunto ciò che chiamo reale, questo non ci porta da nessuna parte, come dire che il reale è il reale,  e allora? E anche se la faccio più raffinata, come dire tutto ciò che cade sotto i sensi ma è sempre la stessa storia, non cambia assolutamente niente è sempre come dire il reale è il reale, dal momento che generalmente con reale si intendo proprio questo, ciò che cade sotto i sensi, ma se noi ci poniamo la questione in questo modo e cioè chiediamo a questo significante di autogiustificarsi ecco che allora incorriamo in paradossi, come sempre accade in queste circostanze, perché come può autogiustificarsi? deve uscire da sé, cioè trovare un elemento che dal di fuori lo giustifichi, ma uscendo da sé cessa di esistere, per così dire, non è niente. Quale altro elemento potrà giustificarlo? Un meta reale e così via all’infinito. Dunque parlare  di reale fuori da un gioco linguistico non ha nessun senso in quanto non ha nessun referente, mentre un atto linguistico ha un senso perché ha un referente, e il referente di un atto linguistico è l’atto linguistico con le sue regole e le sue procedure, ché a questi si riferisce, ecco perché quando affermo che un grave lasciato cadere si precipiterà verso il centro della terra, affermo soltanto una proposizione che esiste unicamente all’interno di un gioco linguistico con certe regole, ma non ha nessun referente assolutamente nessuno, cioè fuori da un gioco linguistico che la produce è nulla, è niente, non ha nessuna esistenza, cioè non afferma niente. Trovarsi di fronte a queste considerazioni è ovviamente interessante per un verso, perché consentendo di distinguere in questo modo precisamente fra logica e retorica e cioè la logica è unicamente l’insieme degli elementi di cui il linguaggio è fatto e senza i quali il linguaggio si dissolverebbe, cioè non potrebbe esistere in nessun modo e la retorica tutto ciò che invece il linguaggio produce, che non risulta quindi necessario, affermare che questo è un pacchetto di sigarette non è necessario,  è discutibile, gratuito, ma dire che io dica comporta necessariamente  che dica qualcosa, invece è necessario, non è arbitrario, non è arbitrario perché se lo nego, nego l’esistenza stessa del linguaggio e non posso farlo perché per farlo ho bisogno del linguaggio. Ecco potere distinguere fra logica e retorica può essere importante anche nel pensare comune, perché dà immediatamente la misura dell’arbitrarietà e quindi della non necessità delle mie affermazioni, se non sono necessarie ne sono responsabile, anche paradossalmente affermando che un grave lasciato cadere si precipita verso il centro della terra è una proposizione di cui sono responsabile, non nel senso che affermo una legge che ho fatta io, non la ho inventata io questa legge della fisica, ma tengo conto che sto pronunciando una proposizione  che non avendo nessun referente esiste all’interno del linguaggio e il linguaggio è ciò che mi costituisce, in questo senso ne sono responsabile, è una proposizione consentita da ciò stesso di cui io sono fatto,  ed è una affermazione retorica, cosa vuol dire? Vuol dire sì che è arbitraria, certo non soltanto, vuol dire che è agganciata a infinite altre cose, ha una intenzione, che cosa intendo dire esattamente dicendo una cosa del genere? Se voi riflettete bene su questa questione, e la portate alle estreme conseguenze vi trovate ad un punto in cui è difficile proseguire. Proviamo a fare questo esempio, affermo che il solito grave cade ecc. bene! Quale è stata l’intenzione nel pronunciare questo? Enunciare una legge della fisica? Supponiamo che sia così, cioè enunciare che cosa esattamente? Una regola, una regola di un gioco, ora io posso domandarmi perché enuncio una regola di un gioco, allora posso darmi infinite risposte, perché questo mi serve per fare altri giochi, ecc. ma come vedete rimaniamo sempre nell’ambito di una catena retorica mai logica, che affermi una cosa del genere non è mai necessario, è sempre arbitrario cioè muove da una non necessità, muove da un gioco, così come se, sempre il solito poker, se io vedo che l’altro butta giù e viene a vedere con due otto, io con quattro assi risulta nell’economia del gioco, necessario che io metta giù i quattro assi e vinca la partita, ma non è necessario di per sé, è necessario all’interno di quel gioco. Questa è la differenza che pongo fra necessario e arbitrario e così tutto ciò che dice Austin nel suo saggio che pure va letto è arbitrario, non c’è nulla di ciò che dice che risulti necessario, e allora costruisce un gioco e per potere accogliere questo gioco, per potere dire che è così, occorre accogliere le regole del suo gioco, se no, no, se no quello che dice è nulla ed è anche confutabile come abbiamo visto, nel senso che le sue stesse affermazioni possiamo piegarle fino a formularle in termini paradossali, così come dicevo prima dell’enunciato domani verrò, che può essere felice e infelice simultaneamente, per Austin una cosa del genere non sarebbe concepibile, mentre abbiamo visto che è facile costruirla, e così come quando ciascuno afferma questa cosa è così, enuncia che è così se e soltanto se si accolgono le regole di quel gioco, se no la sua affermazione è niente, è nulla non ha nessun senso cioè nessuna direzione, quando dico che non ha nessuna direzione intendo dire che non c’è nessun modo per poterla utilizzare, questo modo molto wittengeinestianamente (difficile!) cioè non c’è un suo utilizzo, e non c’è nessun utilizzo delle affermazioni che fa  Austin, fuori del suo gioco, perché basta che io le disponga in una forma paradossale e non  c’è più nessun utilizzo, come l’esempio che si faceva prima “domani verrò” è sia felice sia infelice e allora che cos’è l’enunciato felice? Se posso costruire proposizioni che siano l’una cosa che l’altra? Perde ogni validità...

Intervento: parla di convenzione, del momento storico

La questione è che se portiamo alle estreme conseguenze una cosa del genere che pure lui dice, questa della convenzionalità, la cosa diventa ancora più sfumata e ancora meno utilizzabile. Facciamo l’esempio del battesimo della nave: io faccio un gioco con gli amici, adesso per noi quella nave si chiamerà Ninia. Io vado lì, tiro una bottiglia del solito champagne sulla nave, e allora ho battezzato la nave per i miei amici e per me, perché abbiamo fatto questo gioco, la nave è battezzata. E allora qual è la convenzione a quel punto? Se noi radicalizziamo la questione che Lei giustamente rileva lui pone  della convenzione, la cosa diventa ancora meno utilizzabile

Intervento:

Sì, sì certo, non ha torto...quindi ci sono varie convenzioni, quelle che sono lì tutte vestite in pompa magna che battezzano la nave e invece noi quattro amici che battezziamo la nostra...in effetti si può leggere anche così Austin, noi abbiamo preferito leggerlo in un modo più interessante, perché letto anche in questo modo come è possibilissimo fare, diventa molto banale, e allora sarebbe come affermare che un enunciato ha un senso se questo è reperito dalle persone che sono presenti, per esempio, non è che con questo abbia detto chissà che, non ha detto niente....perché portato alle estreme conseguenze conduce questo discorso inesorabilmente a questo, che l’enunciato è felice se si attiene alla legge, se è fuori legge no, che può avere delle implicazioni anche drammatiche, per cui il matrimonio è valido se e soltanto se è sottoscritto da un ufficiale giudiziario, il sindaco. Questa è una terza lettura che può farsi di Austin ancora peggiore della precedente e cioè che l’enunciato è felice se si attiene ad un codice civile o penale e allora attribuire anche se non lo dice, l’enunciato felice e l’enunciato fuori legge. Fuorilegge cioè fuori dalle leggi convenute, e quindi torniamo al linguaggio come insieme non di regole di giochi linguistici,  ma di leggi. Il linguaggio pensato in questo modo è una visione terroristica, perché allora c’è la verità, che è stabilita e  deve essere osservata.

Intervento: ma la legge di gravità non si può confutare

Sì, si può confutare, naturalmente questa confutazione è possibile unicamente non accogliendo le regole di quel gioco, se io le accolgo allora no certo, se io accolgo le regole della matematica non posso negare che due più due facciano quattro. Perché non lo posso fare? perché se accetto le regole della matematica, accetto che due più due fanno quattro e quindi non posso negare ciò che ho già accettato, come premessa e così l’osservazione segue lo stesso cammino, io accetto certe cose, che certi eventi abbiano un certo significato. Quando io dico che vedo una cosa che cade, che cosa dico esattamente? Dico che osservo un evento, dico che questo evento che osservo ha certe prerogative e dico che queste prerogative sono vere, in definitiva dico che vedo qualcosa. Questo che sto affermando è una convenzione o un dato di fatto? Lei parlava di affermazioni scientifiche a quali condizioni una affermazione è scientifica, qui ci sono vari criteri già, però poniamo quello più diffuso quello popperiano, cioè che sia verificabile, che sia possibile costruire una proposizione che lo falsifica. È possibile costruire una proposizione che  falsifica una certa affermazione se questa affermazione è verificabile, se per esempio io affermo che dio esiste, questa per Popper non è una affermazione scientifica,  perché non posso costruire una proposizione che la confuti, dunque deve essere verificabile, qui comincia a sorgere qualche problema, perché se io dico che la verifico con l’osservazione visto che  è l’osservazione stessa che io adesso sto considerando, non posso dire che confermo l’osservazione con l’osservazione, occorre un altro elemento, quale? Questa è una domanda che ci si può porre, duemilacinquecento anni fa, già i Sofisti  mettevano in discussione una cosa del genere, e cioè la validità dell’osservazione, ma non solo loro, anche Aristotele tutto sommato, il quale si affida più alla logica che all’osservazione. Platone parla del Sofista come di un cieco, uno che non vede le cose: guarda quell’albero, descrivimelo, parlamene e allora io lo vedrò, vedrò qualcosa di ciò che tu mi stai indicando. Io posso dire che vedo qualcosa certo, ma ciò che tu stai vedendo io non lo vedo. Aggrapparsi all’osservazione come criterio è ciò che perlopiù viene fatto, ma senza tenere conto che questa osservazione viene data come necessaria, senza nessun criterio. Ora un discorso che vuole essere scientifico può fondarsi su un elemento che non ha nessun  criterio di verifica? Voi direte di no e invece è esattamente quello che fa, assolutamente nessun criterio di verifica e questo viene assunto come criterio di verifica poi per altre cose. E’ un modo ben bizzarro di procedere che è tipico, nel senso proprio strutturale del discorso occidentale che impone quando si fa un’affermazione di poterla provare ma nega di poterlo fare cioè impedisce di poterlo fare, con che cosa? E questa dimostrazione, Wittgenstein si chiedeva chi dimostrerà la dimostrazione? Sì questo è la dimostrazione di questo e questo è la dimostrazione di questo,  e di questa dimostrazione che cosa ce ne facciamo, dimostrare una cosa non è altro che compiere un percorso all’interno di un certo gioco cioè io stabilisco gli assiomi, come dire questo è così, poi stabilisco delle regole di inferenza e dico se succede questo allora io affermo che succede quest’altro e l’ultima proposizione di tutta questa catena si chiama generalmente teorema, che è quello che dimostra tutto il percorso, e noi la chiamiamo dimostrazione, ciò che è dimostrato non è altro che l’essermi attenuto scrupolosamente alle regole del gioco stabilito, la dimostrazione non dimostra nient’altro che questo, che mi sono attenuto rigorosamente alle regole del gioco che ho stabilito, intendo dire questo, che un’affermazione scientifica non ha un referente fuori di sé da qualche parte, se no torniamo alla questione precedente, se sì dov’è? Come lo so? E l’osservazione perché dovrebbe essere un criterio più valido di qualunque altro? Abbiamo visto che anche storicamente non è sempre stato considerato così, gli antichi non lo consideravano affatto un criterio di verifica...consideravano per esempio... Aristotele la logica, è ciò che io deduco che è vero, non quello che vedo. Ciò che vedo, può essere ingannevole per mille motivi dicevano già allora, ma non si tratta tanto dell’eventualità che possa essere ingannevole, perché sarebbe ingannevole rispetto allora a qualche cosa di appunto vero, la questione dell’immagine di cui si diceva, era Platone, ma lo stesso significante ingannevole ha un senso all’interno di un gioco che prevede  che ci sia qualche cosa che non lo è, e quindi non  inganni cioè si mostri per quello che è, l’osservazione dovrebbe essere quel criterio che mostri le cose così come sono, ma devo presupporre prima che qualche cosa possa essere così com’è, secondo che qualche cosa sia...

Intervento: se io metto la mano nel fuoco

La questione è molto sottile in effetti, potremmo porla in questi termini, provare a fare questo gioco: fuori dal linguaggio il fuoco brucia o no? Che poi se riflettete bene non è differente da quella che ponevo nell’incontro precedente, dell’esistenza, le cose esistono? E se dicessi di no? Questa mia affermazione è più o meno provabile e confutabile e l’esistenza esiste? E se sì in base a quale altra esistenza? A  questo punto ci si accorge che la cosa si gioca a livello linguistico. Il fuoco brucia, questa affermazione è all’interno del linguaggio, così come affermare che le cose esistono, io posso affermarlo perché esiste il linguaggio, se questo linguaggio non si desse, potrei affermare che le cose esistono? E se non lo potessi affermare esisterebbero? Che senso avrebbe quest’affermazione? Nessuno, e allora dire che il fuoco brucia fuori dal linguaggio non ha nessun senso, non è niente, non possiamo dire nulla, per questo dicevo che senza il linguaggio gli umani non è che non esisterebbero più, ma non sarebbero mai esistiti. Mi rendo conto che la questione è molto sottile in effetti però risulta inevitabile questa considerazione, se ovviamente le cose si portano alle estreme conseguenze, ci si trova di fronte a considerazioni sì che possono apparire bizzarre come questa, cioè dire che il fuoco brucia soltanto nel linguaggio

Intervento: però sfido chiunque

è sempre la questione che si pone, che potremmo dirla così che per potere affermare che il fuoco brucia, cioè per fare questa considerazione occorre che abbia una struttura ora stando questa struttura che chiamiamo linguaggio, avviene questo che alcuni fenomeni che si verificano generalmente hanno un certo nome, sono indicati in un certo modo, il problema è che questi fenomeni che si verificano, si verificano perché sono all’interno del linguaggio e da cui non c’è uscita e allora all’interno del linguaggio vengono indicati in un certo modo, in qualunque linguaggio probabilmente, non abbiamo la certezza  c’è qualche cosa che indica che il fuoco brucia. D’altra parte lei dice non è negabile una cosa del genere, sì è negabile, non è confutabile all’interno di quel gioco, se io stabilisco che il fuoco brucia allora il fuoco brucia, se no, no. Se no, lei può obiettare, io constato che si verificano certi fenomeni e torniamo alla questione dell’osservazione, è come un marchingegno che sbarra l’accesso ogni volta che si cerca di uscirne, come se dicesse continuamente: di qui non puoi uscire. Come se, adesso per riassumere così in due parole, uno dicesse al linguaggio: il fuoco brucia anche se tu non ci sei, e il linguaggio dicesse: sì? Come lo sai? Perché lo osservo. E l’osservazione come la conosci? La conosci perché ci sono io, se no la tua osservazione sarebbe niente. Forse potete avvertire in modo più preciso ciò che si intende dire quando si afferma che non c’è uscita dal linguaggio, che è un meccanismo strano, che sbarra ogni porta, al momento in cui si vuole uscire e che chiede continuamente con che cosa esci?