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4.12.1996

 

La ripetizione

 

Abbiamo considerati due concetti fondamentali della psicanalisi: l’inconscio e la rimozione. Lacan ne considera altri due cioè il transfert e la ripetizione, come sapete. Possiamo considerare la nozione di ripetizione, che è un aspetto notevole nella elaborazione psicanalitica da Freud in poi, ma intesa generalmente e perlopiù come una sorta di riproduzione, riproduzione di un evento, di un fatto, di un qualunque cosa. Ora il significante ripetizione ha generalmente questo significato anche se, per esempio, sia Lacan che altri hanno molto giocato con questo significante ripetizione avvalendosi dell’etimo e cioè qualcosa che domanda ancora, tutto sommato, che continua a domandare. La questione dell’uso o dell’etimo di un certo significante è curiosa, dal momento che questo stesso etimo, così come viene generalmente illustrato, per esempio dal dizionario etimologico, è una illustrazione di un significante che non soltanto non è sempre interessante, ma spesso è anche poco attendibile, soprattutto se l’etimo risale a qualcosa che va al di là del latino e del greco. Tuttavia come sapete in molti casi viene utilizzato l’etimo come se potesse fornire una indicazione precisa circa il significato più interessante, o comunque più proficua, il che non è sempre. Diciamo che un etimo può essere utilizzato così come una sorta di regola di un gioco linguistico, se mi conviene rispetto alla teoria che vado elaborando utilizzare un certo etimo allora lo utilizzo, se no, no, se no utilizzo un significato più corrente. Il significato più corrente di ripetizione non è quello di qualcosa che continua a domandare, anche se l’etimo vorrebbe così, ma il significato più corrente è appunto quello di riproduzione, di riproposizione di qualche cosa. Nella teoria psicanalitica, è usata molto la nozione di ripetizione, perché da Freud che se ne è avvalso per illustrare alcuni aspetti dei processi psichici, poi è sempre stato utilizzato. In Freud la ripetizione gli consente di giustificare alcuni processi psichici, nel suo saggio che si chiama: Ripetere ricordare rielaborare, la questione della ripetizione è posta in questi termini: qualcosa è avvenuto, ha prodotto degli effetti, diciamo così, degli effetti secondari paralizzanti e allora si tratta di ripetere questo elemento, ma sarebbe il ciò che è avvenuto, ma non nel senso di riprodurlo ma, per Freud, la ripetizione è una rielaborazione, ripetere è rielaborare. Ciò che la psicanalisi ha mantenuto dopo Freud è questo concetto, questo sì fondamentale, per cui tutto ciò che avviene di importante nell’esistenza di una persona viene in qualche modo mantenuto come ricordo e può essere ripetuto, anzi ciò che viene intesa come nevrosi è una ripetizione di qualche cosa che si è fissato e che non è stato sufficientemente elaborato, diciamola così. Questo nella vulgata psicanalitica. Solo a partire da Lacan qualche cosa ha preso un’altra piega, si è distanziato da questa posizione, incominciando con Lacan a riflettere intorno a ciò che si ripete in analisi. Per esempio, ricordo una scena, una sensazione, un’immagine, qualunque cosa, in quanto tale non è mai avvenuta, non è mai avvenuta in quanto ciò che si sta ripetendo è una costruzione che muove da una combinatoria significante che è presente in quel momento e che non poteva essere presente allora, in quanto ciascuna combinatoria significante varia continuamente parlando, è quanto di più instabile, potremmo dire, a pensarsi. E allora questo ha comportato, soprattutto per Lacan, intendo dire considerare la ripetizione in termini differenti, ha comportato anche un differente modo di approcciare non solo la psicanalisi in quanto tale, ma l’intervento dello psicanalista, perché se ciò che si ripete non è una riproduzione, con qualche piccola variante di ciò che è avvenuto in altre occasioni, allora non si tratta tanto di fare in modo che la persona possa ripetere e poi considerare ciò che sta dicendo. Per esempio tutta le teoria del transfert, in buona parte è sostenuta su questo, sulla questione della ripetizione, cioè ripetere, riferendoci alla vulgata psicanalitica, per esempio al kleynismo, ma la stessa teoria dell’IPA, sarebbe l’Internazionale Psicanalitica, si fonda su questo, cioè sul fatto che il transfert non è altro che la riproduzione di un, chiamiamolo così, di un gioco affettivo avvenuto nell’infanzia o negli anni successivi, male elaborato. Questo quindi avrebbe portato appresso una serie di paure o di angosce o di problemi e non essendo stato elaborato cosa succede? Succede che questo intoppo affettivo viene riprodotto ciascuna volta in cui si verificano le stesse condizioni. Potremmo dirla più semplicemente, che se c’è stato un problema con la mamma, di qualunque tipo, allora questo problema verrà rivissuto, o con altre persone o con, preferibilmente e prevalentemente con lo psicanalista, e quindi c’è la ripetizione di ciò che non è stato elaborato, o non è stato inteso. Quindi l’intervento in questo caso si appunta sulla necessità di dovere sostenere in qualche modo questo ricordo, e fare in modo che l’analizzante trovi gli elementi per potere riconoscere questa ripetizione e una volta riconosciuta fare un passo successivo e superare la cosa. Ora che questo avvenga o no, è un altro discorso, ma per esempio in Lacan ponendo la ripetizione come una struttura linguistica per cui ciascun significante si ripete all’interno di una combinatoria, dopo un certo numero di sequenze, ha modificato ovviamente l’intervento dello psicanalista, il quale non cercherà più, con Lacan, di fare ripetere o meglio, fare ricordare, per esempio una scena per riprodurla e come dicono gli psicanalisti della SPI, per abreagirla, ma cercherà di intendere, Lacan, che cosa c’è in ciò che apparentemente si ripete, di inedito, di mai avvenuto prima, per potere trasmettere eventualmente all’analizzante questo, una sorta di messaggio che ciò che sta dicendo non è la ripetizione di qualche cosa che è avvenuto ma (qui c’è una grossa influenza della filosofia francese) ma è una sorta di rilettura di ciò che è avvenuto, una rilettura che tiene conto ovviamente di tutto ciò che ne è seguito e di ciò che sta avvenendo adesso. La psicanalisi ortodossa non considerava minimamente l’apporto dell’attuale nel ricordo, ma lo considerava come un fatto a sé, in Lacan c’è una supremazia quasi, una priorità comunque assoluta dell’attuale sul passato. Quindi ciò che si ripete, si ripete adesso ed è qualcosa che ha a che fare con l’hic et nunc, anziché con l’allora. Vedete che in ciascuna di queste posizioni circa la ripetizione, viene mantenuta un’idea fondante, oltreché fondamentale, per cui la ripetizione sia qualcosa di possibile, dato come acquisito che un certo elemento possa ripetersi, con tutte le varianti possibili e immaginabili. Una riflessione intorno alla ripetizione ovviamente non può prescindere dal domandarsi di che cosa si stia parlando esattamente, parlando di ripetizione, dal momento che si sta parlando di qualcosa, ma questo qualcosa, tenendo conto anche delle cose che andiamo dicendo ultimamente, non può trovare un referente al di fuori del linguaggio, come dire che una ripetizione, come viene detto generalmente, è un elemento linguistico, e come andiamo spesso dicendo è in prima istanza un significante, poi ciascuno può aggiungerci altre cose, per esempio partendo dall’etimo o da qualunque cosa. Questione nodale questa di ripetizione, perché è valsa sia per la psicanalisi ortodossa, sia per Lacan, per Verdiglione o per altri, è valsa un po’ da paradigma di ciò che si intende con psicanalisi. Perché se, per esempio, ciò che si ripete non è mai stato, diceva Verdiglione, allora evidentemente sì, è un modo differente per intendere la ripetizione ma è un... come dire, un modo di riprendere la ripetizione così com’è, e poi si ribalta la questione aggiungendo questo elemento e cioè affermando che non è mai stata. Ma non è mai stata che cosa esattamente? La ripetizione, ma ancora non sappiamo di che cosa si tratti, cioè siamo ancora al di qua dallo stabilire se la ripetizione è di qualcosa che sia stato, oppure no. Ora siccome tutta la psicanalisi è costruita su qualcosa del genere, e cioè sull’idea che sia possibile reperire ciò che è stato per abreagirlo, cioè per intenderlo, e quindi per dissolverne i problemi, intendete immediatamente quale sia la portata della nozione di ripetizione che ancora, torno a dire, non sappiamo bene che cosa sia.

Perché c’è l’eventualità, riflettendo intorno a questa nozione, che ci si trovi di fronte a una domanda importante e cioè se la ripetizione si riferisce a qualche cosa di preciso necessariamente oppure, essendo un elemento linguistico, indichi un qualche cosa che varia a seconda di ciò che io intendo con ripetizione. Intendo dire questo, che se con ripetizione intendo qualche cosa che non è mai stato, allora effettivamente la ripetizione ripete ciò che non è mai stato, se invece con ripetizione intendo la ripetizione di qualche cosa che è stato, allora la ripetizione ripete qualche cosa che è stato, come dire, più propriamente, che una ripetizione è esattamente ciò che io penso che sia, dal momento che non posso reperire una nozione di ripetizione che sia fuori dal linguaggio e quindi sia assolutamente costrittiva, identica a sé, immutabile. Detto questo, a questo punto, così come ci siamo trovati di fronte alla nozione di inconscio e di rimozione, occorre che ci chiediamo se ha qualche interesse parlare di ripetizione, o se questa nozione è vincolata, come può accadere, a una sorta di ideologia. Ora il discorso in parte l’abbiamo già fatto e cioè o la ripetizione è qualcosa di preciso, necessariamente quello, allora a questo punto occorrerebbe, almeno generalmente quando si afferma qualcosa di preciso, occorrerebbe anche poterlo sostenere, il che può risultare straordinariamente arduo, oppure effettivamente è un elemento linguistico e come tale è vincolato da regole che vincolano il gioco in cui è inserito. Sostenere la prima di queste due ipotesi, come dicevo, è molto arduo, molto difficile è come dire che, in definitiva, la ripetizione è questo e che è così, perché mi piace che sia così. Non c’è nessun argomentazione che possa reperirsi che sia costrittiva al punto tale, da costringere logicamente di accogliere una certa definizione, se invece è un elemento linguistico allora è preso, come dicevo, nel gioco in cui è inserito, è cioè la ripetizione è ciò che le regole del gioco in cui è inserito questo significante decidono che sia. E allora non si tratta più tanto di chiedersi che cosa si ripete o se è possibile ripetere qualche cosa, a questo punto questa domanda non ha più nessun senso, ma rinvia immediatamente alla domanda, per così dire, circa la regola del gioco in cui è inserito questo significante ripetizione, allora è possibile rispondere se no, no, ripetizione può essere qualunque cosa. Anche se è pur vero che ciascun elemento linguistico, proprio per essere tale, occorre che si differenzi dagli altri, già De Saussure aveva perfettamente inteso che se non ci fossero differenze nel linguaggio, lo stesso linguaggio cesserebbe di esistere. Questo lo chiamo orologio, potrei chiamarlo in qualunque altro modo, il fatto che lo chiami orologio è arbitrario? Sì e no, lo è, in quanto non c’è nessuna costrizione logica a chiamare questo aggeggio orologio, di fatto gli inglesi lo chiamano in un altro modo, per esempio, anche i francesi e così molti altri, ma d’altra parte occorre che ci sia un termine che individua un certo elemento per potere distinguere questo termine da qualunque altro, se qualunque elemento io potessi chiamarlo in qualunque modo, voi intendete immediatamente che il linguaggio non sarebbe più utilizzabile in alcun modo, perché ciascun elemento vorrebbe dire tutto. In questo senso c’è la necessità che ciascun elemento sia differente da ciascun altro e quindi o è questo, oppure è un problema, come Aristotele aveva inteso perfettamente a proposito del principio di identità, che è una questione prettamente linguistica. Ciascun elemento linguistico occorre che sia quello che è, ma non per un decreto divino, ma per una sorta di procedura linguistica senza la quale il linguaggio cessa di esistere, come dire che abbiamo degli elementi che fanno esistere il linguaggio così come esiste, ché se, appunto, ciascun elemento linguistico fosse se stesso e qualunque altro, non si distinguerebbero in nessun modo gli uni dagli altri e il linguaggio non potrebbe in nessun modo essere utilizzato...

- Intervento: ciò che si vorrebbe distinguere è già di per sé un elemento linguistico.

Certo, per il solo fatto che ne sto parlando si trova preso in questa struttura che è fatta di inferenze...

Ecco allora questo, accorgendosi, o cogliendo questo aspetto linguistico (è la stessa questione che ponevamo alla nozione di inconscio e rimozione) occorre riflettere intorno all’intervento dell’analista in questo caso, rispetto a queste considerazioni, dal momento che non credendo più alla ripetizione come elemento extralinguistico a se stante è costretto a tenere conto di altri aspetti, di altri elementi. Intendo dire questo, supponiamo che una persona racconti un ricordo, o più propriamente dica che ciò che sta dicendo è un ricordo, perché a questo noi ci atteniamo, non al fatto che lo sia oppure no, ma al fatto che lo sta dicendo, dunque dicevo, una persona dice che ciò che sta raccontando è un ricordo, oppure che ciò che sta facendo è una cosa che ripete continuamente, noi di fatto, a disposizione abbiamo unicamente ciò che la persona ci sta dicendo, non sappiamo, né ha alcuna importanza stabilire che sia esattamente così oppure no, né per altro è facilmente possibile stabilirlo. Ora dunque tutto ciò che stiamo dicendo ci impedisce di considerare che le cose che sta dicendo siano una ripetizione, ma impongono di considerare che questa persona dice che si tratta di una ripetizione, ché ha una certo importanza, vuol dire che il fatto che per questa persona sia una ripetizione non è secondario, visto che lo propone nella discussione, ora a questo punto ciò che viene messo in evidenza non è tanto il fatto che sia, come dicevo, o non sia una ripetizione, ma che la persona dica che si tratti di una ripetizione e cioè che stia dicendo che ciò che fa in quel momento è una cosa che si ripete per esempio all’infinito. Ci sono persone che amano ripetere situazioni, gesti, condotte, svariate volte. Ora è essenziale intendere, così come è essenziale ciascuna volta di fronte a un discorso, quali sono le regole del gioco che si va facendo, che questa persona sta facendo. Se non s’intendono le regole del gioco che sta muovendo questa persona si intende molto poco. Si intende molto poco perché non si hanno elementi per intendere che cosa stia dicendo, che cosa stia facendo, per esempio se dice di ripetere, non sappiamo cosa intenda con ripetere, posso immaginarlo certo, posso immaginare qualunque cosa ma ciò che interessa è ciò che pensa quella persona, più di quanto possa immaginare io. Ciò che distingue forse prioritariamente ciò che stiamo facendo dalla psicanalisi così come è praticata generalmente, è essenzialmente questo, diciamo l’urgenza, nell’ascoltare un qualunque discorso, di reperire le regole che consentono il gioco che si sta giocando. Così come nel caso della ripetizione, non importa se la cosa si stia ripetendo, se si ripete o se non si ripete, se è inedita o se è una produzione lì, hic et nunc, o se fu, ma che cosa intenda questa persona con ripetizione. Dal momento che sia le tesi più antiche della psicanalisi rispetto alla ripetizione, sia le più recenti, offrono il fianco a obiezioni notevoli. Ma reperire le regole del gioco che si sta giocando cosa significa?

Ciò che la persona sta dicendo muove da una serie di elementi che per questa persona funzionano in vario modo, ma presuppongono uno o più elementi da cui muove il suo discorso. Per esempio, qual è l’elemento da cui muove il discorso che io sto facendo? Qual è la regola del mio gioco? L’abbiamo enunciata in varie occasioni, è quella di accogliere unicamente le cose che non possono essere negate per il semplice fatto che sto parlando, ecco se uno conosce questa regola che mi muove nel dire e nel parlare già può trarre tutta una serie di connessioni e di implicazioni rispetto a ciò che dico, se mi ascoltasse e non sapesse assolutamente nulla di questa regola che mi muove, probabilmente avrebbe maggiore difficoltà a intendere ciò che vado dicendo, c’è anche l’eventualità che magari non l’intenda affatto. Ora dunque, un qualche cosa che muove a dire a pensare e a fare in un certo modo anziché in un altro, abbiamo detto in varie occasioni che ciò che una persona crede, per esempio, sia ciò che la muove a fare e a dire, a pensare in un modo anziché in un altro. Se per esempio io penso che ripetizione sia ripetizione dell’identico, o del differente, allora sia in un caso che nell’altro, se credo una cosa allora mi muoverò in un certo modo, se credo l’altra allora mi muoverò in un altro modo. Ciascuna persona si muove, pensa, fa in un modo che è assolutamente peculiare a quella persona, ma perché muove e pensa in quel modo anziché in un altro? Non è casuale nel senso che le cose che dice, che fa e che pensa procedono per inferenze, procedono per inferenze da elementi che in alcuni casi sono ritenuti, ad esempio, la realtà delle cose, e allora se io credo che la realtà delle cose sia fatta in un certo modo, che le cose stiano in definitiva in un certo modo, allora mi muoverò e penserò in un certo modo, se immagino che la realtà sia tutt’altra, allora penserò e mi muoverò in tutt’altro modo. In tutt’altro modo che sarà altrettanto fermo, sicuro e incrollabile del precedente, ho soltanto cambiato le premesse, i principi in questo caso, se vario i principi ovviamente variano anche le conseguenze, cioè le implicazioni e in definitiva tutto ciò che io penso. In un discorso che voi ascoltate, questi principi molto spesso costituiscono ciò che prima indicavo come le regole del gioco. Vi faccio un esempio molto banale, se una persona crede in dio, qualunque dio non ha importanza, allora questo funziona come una regola del gioco, una regola del gioco in cui si trova, per cui ciò che penserà, farà e dirà terrà conto e sarà un’implicazione, una connessione, di questa sua credenza, di questo suo principio. D’altra parte ponendo le cose così, mano a mano, come siamo andati reperendo nel linguaggio, in effetti non ci resta altra via che intendere di volta in volta quali siano le regole del gioco che si sta giocando, per intendere qualche cosa, questo sempre naturalmente cercando di evitare di compiere atti di fede, se è possibile, di compiere atti di fede cioè di stabilire che per esempio la ripetizione sia questo necessariamente, o l’inconscio sia quest’altro o qualche altra cosa. Dicevo che non abbiamo molti altri elementi, però questo è molto potente perché consente di cogliere con buona precisione quali sono gli elementi da cui la persona muove, per dire, fare, pensare quello che dice, pensa e fa. Ma possiamo aggiungere ancora questi principi o assiomi, a seconda dei casi, che non solo possono essere reperibili ma il più delle volte si mostrano in modo molto evidente, molto forte, generalmente come ciò che non viene accolto, non può essere messo in gioco, qualunque siano i motivi, non ha nessuna importanza, però, perché le regole non possono essere messe in gioco? Per un motivo semplicissimo: se voi giocate a poker con gli amici, non potete mettere in discussione le regole del poker mentre giocate, perché se no cessate di giocare, ora immaginate che il discorso in cui vi trovate sia mosso da regole che sono quelle per cui il discorso in cui vi trovate è quello che è, e allora l’eventualità di cambiare qualche cosa che si costituisce, si configura come regola del gioco, comporta immediatamente di non potere più giocare quel gioco. Questo di per sé potrebbe non comportare nessun problema in teoria, di fatto invece ne comporta molti, è anzi l’ostacolo maggiore che ciascuno incontra lungo questo itinerario, l’eventualità di potere cambiare il gioco, cioè di non potere più giocare il gioco precedente. Per un motivo che può essere per un verso semplice e per l’altro no. incominciamo da quello semplice: perché così com’è configurato un certo discorso, quindi con le sue regole, produce del senso, cioè è qualche cosa che offre un senso a qualcosa, offre l’opportunità di potere stabilire che una certa cosa è così, questo produce un effetto terapeutico, avevamo accennato tempo fa in una conferenza la questione. In quale termini l’avevamo posta Sandro? La dimostrazione, esattamente. Dimostrazione come fatto terapeutico, dimostrazione cioè è così, questo è il senso delle cose, terapeutico perché toglie di mezzo l’eventualità che questa cosa continui a domandare, continui a questionare, e quindi tolga la possibilità di potere fermare il pensiero. E quindi se cambio le regole del gioco cambio il gioco, se cambio il gioco non ho più a disposizione il senso che ho sempre avuto, cioè le cose non sono più come penso che siano. Questo è l’aspetto semplice, quello più difficile ci costringe a riflettere ulteriormente, perché di fatto tutta questa operazione di per sé, che ho descritta prima, non è assolutamente necessaria, non è necessario che la persona cerchi un senso, non è necessario che lo trovi, non è soprattutto necessario che ci creda. Ora abbiamo detto che questo avviene almeno in parte per via di una sorta di quiete, di tranquillità, ma probabilmente non è soltanto questo. Questione antichissima questa: come mai gli umani si complicano la vita anziché semplificarsela ? Adesso la dico in termini molto rozzi, questione che lo stesso Freud si pose, senza per altro dare risposta, di nessun tipo. Questione questa molto complessa e alla quale è molto difficile rispondere, e forse non è nemmeno sicuro che sappiamo con esattezza cosa ci stiamo chiedendo, chiedendoci una cosa del genere, dal momento che una questione di questo tipo, e cioè perché gli umani facciano in un certo modo anziché in un altro, mette in gioco una serie di elementi e c’è l’eventualità, la forte eventualità, che ci riconduca ad un certo punto alla questione antica, e cioè del perché il linguaggio sia strutturato in un certo modo, domanda alla quale non solo non possiamo rispondere, ma che non ha strutturalmente alcuna risposta possibile.

Qualcuno tempo fa mi si obiettava che nemmeno l’idea del linguaggio tutto sommato è necessaria, per un verso no, per l’altro sì, così come lo è chiamare questo aggeggio orologio, certo utilizziamo questo significante linguaggio perché indica grosso modo la struttura, l’organizzazione che ci consente di fare tutte queste operazioni, in questo senso è necessario però, chiamarlo linguaggio questo è certamente arbitrario. Esattamente la stessa posizione che aveva De Saussure a questo riguardo, potremmo banalizzarla così: è assolutamente arbitrario come lo chiamo, ma è assolutamente necessario che lo chiami in qualche modo (adesso è molto rozzo riassumere così in due parole tutta l’elaborazione di De Saussure) e quindi talvolta accade che di fronte a certe domande sia preferibile chiedersi non soltanto quale sia la risposta a questa domanda, ma che cosa comporti rivolgersi una certa domanda, e cioè che cosa si stia facendo esattamente. Comunque è una questione che rimane per il momento in sospeso, perché man mano ci rifletteremo, per quanto riguarda la questione invece più, chiamiamo “pratica” tra virgolette, che riguarda l’intervento dell’analista che tenga conto di ciò di cui stiamo parlando, abbiamo cominciato a parlare delle regole, reperire quali sono le regole, ciò che consente al discorso che si sta facendo di assumere una certa configurazione, che è quella che assume, ma in che modo dunque reperire questa regola? Un aspetto l’avevo già indicato prima: è ciò che generalmente si preferisce non mettere in gioco, ma la domanda che occorre porsi in questi casi è questa, e cioè che cosa mi consente di affermare ciò che sto affermando? Il linguaggio ovviamente ma quali aspetti, quali regole propriamente, permettono o mi permettono di trarre le conclusioni che sto traendo? Quali premesse sono necessarie per giungere a queste conclusioni? Ecco, fatto questo avete immediatamente a disposizione le regole del gioco in cui vi trovate. Ora reperite queste regole, e ciò che interviene perlopiù è una sorta di arresto: “ho reperito queste regole, e adesso cosa faccio?” Qui interviene normalmente l’aspetto più complesso in ciò che andiamo facendo, elaborando, perché di fronte al reperimento di una delle regole del discorso, si tratta a questo punto di cogliere se questa regola che sta operando sia, potremmo dirla così in modo molto semplice, arbitraria o necessaria. Se è necessario che sia così, oppure se è arbitrario, perché se è necessario allora non c’è niente da fare, è così e tanto basta, però questo può condurre a qualche obiezione in quanto questa stessa affermazione può essere sottoposta alla stessa analisi, e quindi reperire se le regole del gioco consentono di giungere a questa considerazione, se sono necessarie oppure no. Nell’ipotesi invece più interessante, che sia assolutamente arbitrario tutto ciò che costituisce il principio da cui muovo, ecco che allora mi trovo di fronte a una serie di affermazioni che si sono costruite e che possono essere messe in discussione, cioè possono essere discusse, se fossero necessarie no, perché è così inesorabilmente.

Certo posso trovarmi nelle condizioni di non riuscire a farlo, però allora torniamo al discorso precedente. Ciò che sto proponendo ovviamente è una sorta di... chiamiamolo esercizio, un esercizio che può risultare anche difficile da compiere, d’altra parte se non si accoglie, se non si intende accogliere alcun atto di fede, credenza, alcuna superstizione, ci si trova inesorabilmente di fronte a queste considerazioni, cioè al dover reperire il “perché” sto dicendo certe cose, oppure un “perché” che è un modo di rendere conto di principi, di assiomi, di regole che determinano il discorso in cui mi trovo per il modo in cui è fatto. Perché parlo di esercizio? perché è una cosa che non è affatto naturale per così dire, né viene da sé, ciò che viene da sé è generalmente esattamente il contrario, e cioè pensare che le cose che sto dicendo, almeno le cose fondamentali, siano necessarie, costituiscano una sorta di immutabilità, qualunque ne sia il motivo. Ed è curioso che per compiere questa operazione occorra fare qualche cosa che apparentemente, come dicevo, tutto inviterebbe a non fare. Questa è un’altra questione, però dal momento che ci siamo trovati presi in questa via, risulta molto difficile non tenerne conto, cioè fare come se non sapessimo, tutto sommato, una serie di cose. Ecco però ho detto molto rapidamente un sacco di cose, forse è il caso che ci siano degli interventi...

Intervento: la ripetizione

Sì, per esempio una persona vuole fare certe cose e immediatamente pensa: tanto non ne sarò capace. (...) Ripetizione come riproduzione di un pensiero? Sì, sì, può intendersi anche così.

Intervento: giochi linguistici

Utilizziamo questo modo di dire “gioco linguistico”, che abbiamo un po’ mutuato da Wittgenstein, per indicare il modo in cui di volta in volta le cose si combinano tra loro. Ed è un modo, questo, effettivamente imprevedibile, come diceva lei, non è né gestibile, né controllabile generalmente, gioco linguistico, le parole giocano in questo senso, che si combinano le une alle altre necessariamente. Non c’è una parola che sia isolata dal linguaggio, non essendo isolata è connessa, in infiniti modi a infiniti altri elementi. Ecco intendiamo soltanto questo con gioco linguistico. Ora lei dice, il caso in cui una persona ami un’altra e non sia corrisposta, anche qui evidentemente si tratta di due... diciamo in accezione indicata prima, giochi linguistici che intervengono per l’una e per l’altra, ad esempio, e cosa avviene quando due persone dicono che non si capiscono? Che muovono da regole molto differenti, poi invece può avvenire che pensino di capirsi, però è un po’ come dicevamo la volta scorsa, la volta scorsa riprendevo una questione che poneva Roberto, che io affermi che capisco una persona oppure no, fino a che punto è sostenibile o è affermabile una cosa del genere? Che cosa dico esattamente quando dico che capisco? Capisco che cosa? Quello che mi dice, ma che cosa dice, se io già nell’ascoltare anche soltanto nel sentire quello che questa persona dice costruisco, rispetto a dei significanti che ascolto, una serie di elementi che possono essere, per esempio, assenti nella persona che parla e quindi costruisco una combinatoria che è totalmente differente da quella che appartiene alla persona che mi sta parlando. Voglio dire questo, che non ho nessun modo definitivo, come diceva Roberto, assoluto, per potere stabilire se ho capito oppure no, e questo certamente rende le cose, o può renderle, complesse in alcuni casi, in altri no, è assolutamente indifferente. Quando le rende complesse? Quando c’è per qualche motivo l’esigenza di precisare ciò che si sta dicendo, solo allora si incontrano questi problemi. Precisarlo, per esempio, perché sta elaborando, una teoria, supponiamo che stia elaborando una teoria linguistica, ecco che allora ovviamente cercherà di restringere il significato dei termini, il più possibile proprio per evitarne ambiguità e perché sia possibile intendere con maggiore precisione, però ancora di nuovo ci ritroviamo il problema di prima e cioè non sapremo mai se questa precisione è peggiore o migliore, semplicemente che cosa possiamo fare? Acquisire un maggior numero di regole di quel gioco per esempio, a proposito di De Saussure, visto che l’abbiamo menzionato, se io conosco (perché lui nei suoi scritti me le espone) un certo numero di regole del gioco che sta facendo, mi sarà più facile ovviamente seguire quello che sta dicendo, se no mi sarà assolutamente astruso, o addirittura incomprensibile. Ora questo nel quotidiano generalmente non avviene, non avviene non tanto perché non ci sia necessità di precisare delle questioni, ma perché in qualche modo ciascuno avverte che se si incammina lungo questa via, non ne viene più fuori e allora ecco che utilizza dei termini, dei significanti in accezione effettivamente molto ampia, per cui si prestano, come continuamente accade, a equivoci, malintesi, ecc. Certo sarebbe possibile almeno precisare quali sono le regole, certo, in definitiva in quale accezione utilizzo certi termini per esempio. Così in qualunque discorso coglierne le regole non è altro che intendere quali sono, in che accezione sta utilizzando i termini che utilizza. Diceva che può porsi come religione. Certo. Non c’è cosa che gli umani non riescano a volgere in religione e cioè in credenza, in superstizione, anche se tutto ciò che abbiamo fatto è volto proprio a impedire una cosa del genere, cioè a impedire in definitiva che un qualche cosa si stabilisca come l’ultimo elemento, e abbiamo piegato invece su un’altra questione, e cioè sull’elemento che non si può negare, non si può negare per il solo fatto che si sta parlando e allora questo, come vado dicendo spesso, non definisce affatto come stanno le cose, indica soltanto uno dei possibili giochi linguistici che è possibile compiere, quello che muove soltanto da ciò che non può essere negato, solo questo. Poi abbiamo riflettuto anche sulle implicazioni, sulle connessioni che tutto ciò può comportare, e abbiamo considerato che in effetti può consentire di giungere a una libertà estrema, libertà dal credere, per esempio, una qualunque cosa o il suo contrario, e la libertà poi di trovarsi ciascuna volta, più che effetto del proprio discorso, reperirsi come il proprio discorso. Come dire ancora che non sono tanto l’effetto di quello che dico, ma sono ciò che dico, né più, né meno. Non ho altri elementi per cogliermi, in nessun modo. Però è vero, in alcuni casi per taluni anche questo può funzionare come una sorta di religione, certo. Diceva De Saussure che finché non dico una cosa, posso pensare di gestirla, una volta che l’ho detta, non so che cosa accadrà né quali saranno gli effetti su chi l’ascolta, non è più di mia proprietà in un certo senso, né di mia competenza, è detta e come dice Antonio nel Giulio Cesare, “malanno ormai sei scatenato, segui il corso che vuoi”, non è un malanno, comunque segua il corso che vuole, e il corso che vuole è per esempio, tra lei e me che stiamo parlando, il fatto che le cose che io dico saranno necessariamente colte e accolte da lei attraverso gli strumenti linguistici, teorici, culturali e tanti altri di cui lei dispone, e in cui è possibile reperire le regole del gioco in cui lei si trova, e queste regole del gioco determineranno il modo in cui lei coglie le cose che io dico. Il problema è che non è che lei coglie le cose in un certo modo, le cose sono in quel modo per lei, questa è la questione. Dire, ma per me è così, è un eufemismo, non per me, se lo dico è perché è così, una sorta di captatio benevolentiæ...

- Intervento:

Sì, questa infinita variabilità di connessioni, di agganci, certo. Perché anche se, ad esempio, le regole del mio gioco fossero rigidissime, fossero anche solo una, ferrea, in effetti anche questa sola ferrea e unica regola può produrre un’infinità di connessioni, le quali però tutte sono vincolate a questa, chiamiamola superstizione per esempio, il caso estremo, per cui una persona straordinariamente superstiziosa può produrre una quantità infinita di discorsi. Dipende da quanto si ripete, di fatto la produzione è potenzialmente illimitata, pur partendo da una superstizione ferrea.

Intervento:... religiosità

Sì, anche il significante religiosità ha una infinita serie di accezioni utilizzabili. Ad esempio religioso è tutto ciò che va contro a ciò che dico io, questo è un modo di utilizzare il significante religiosità.

Intervento: curioso il paradosso della religione ufficiale che accusa di religiosità, dando per scontata tutta una serie di questioni, che sembrano non avere nessuna funzione, ma funzionano meravigliosamente, dando un precisa direzione al discorso...

Sì, ciò che Freud descrive come nevrosi funziona esattamente in questo modo...

Intervento: e quindi immediatamente quanto qualcosa disturba, viene immediatamente immobilizzato, e immobilizzandosi funziona come una religione, non accorgendosi che questa operazione la sto facendo io, e quindi la si prende come uno stato di fatto... come si può distinguere fra ciò che “non sapendo” funziona, come si diceva prima, e ciò che invece viene assunto, si dice questa è la mia idea, io la penso così in cui invece sembra ci sia questa “consapevolezza”.

Sì, una persona che dice: io la penso così, sa, saprebbe dire grosso modo cosa pensa, così come una persona che dice di sé di essere credente in dio, ne è consapevole, ciò che interviene in questo caso, sia nell’uno che nell’altro è il non sapere in effetti come avvenga una cosa del genere, in questo caso le regole del gioco sono quelle che hanno determinato per esempio la credenza in dio o di un certo modo di pensare. “Io credo che sia così” enuncia la presenza di una regola, ma si tratta di proseguire, esattamente come dicevamo prima, che cosa mi permette di dire quello che sto dicendo? Questo è ciò che intendo come regola di un gioco.

Intervento:...

la questione della regola si pone in questa doppia maniera, come qualcosa che di volta in volta non può ricondursi necessariamente a una credenza, perché altrimenti si mette in discussione la questione della ripetizione, come qualcosa che è già accaduto e che si ripete, mentre appunto questo contrasta con quell’altra regola che dice che si accetta solo ciò che è necessario, cioè che non si può non accettare, e dall’altra invece a una regola che in qualche modo si presenta come un qualcosa di cronico, di cronicizzato. Tempo fa mi veniva in mente, parlavamo sempre nei termini di gioco linguistico con delle regole, parlavamo della variante e della invariante, cioè una variante retorica che è diventata una invariante, però in questo caso, chiamarla regola sembra molto semplice, dice qualcosa che regola una cosa in un modo anziché in un altro, però non è lo stesso modo in cui si intende quando si parla di atto linguistico, in quel determinato momento, in cui la regola è data dal contingente...

La questione che si può trarre è questa, e cioè il fatto di reperire in ciò che sta funzionando mentre dico, qualunque cosa sia, quali sono gli elementi da cui muovo, per dire quello che dico. Sia che mi trovi a formulare delle considerazioni teoriche, sia di fronte a una qualunque questione che incontro quotidianamente, qualunque cosa io creda, in questo caso la nozione di regola in effetti non muta, rimane la stessa e cioè in effetti è ciò che sta dando una direzione al mio discorso e quindi potremmo dire: che cosa mi consente di affermare le cose che sto affermando? Per cui sono due modi differenti ma fino ad un certo punto forse, dal momento che in entrambi i casi, ciò che intendo come regola è unicamente ciò che mi fa dire le cose che sto dicendo, ad esempio, in questo momento. Questo posso reperirlo sia che rifletta intorno alle più sofisticate teorie del linguaggio, sia invece su qualche cosa che mi sta dando fastidio...

Intervento: però questa compresenza, di due aspetti diversi, per cui intendere la regola rispetto a qualsiasi gioco linguistico...

Un momento però, intendere un evento esterno, che accada lì, quello in quanto tale è un elemento linguistico, e quindi ciò che produce l’evento, diciamo così, in un discorso, questo è sì, dettato dalle regole del gioco in cui mi trovo, per cui, per dirla in maniera molto vaga, posso esperirlo in un modo anziché in un altro, posso diventare una furia oppure stare tranquillissimo e ritenere che non sia successo niente, per esempio....

Intervento: sì però le circostanze per esempio quando mi sono fratturata il piede...

In un certo senso sì, in quanto non c’è nulla, nessun evento, nessun accadimento che intervenga che sia fuori dal linguaggio e che pertanto non sia inserito nella sua struttura linguistica, ed è un evento, un fatto, proprio in quanto è inserito all’interno di questa combinatoria, se no non potrebbe esistere, né darsi in alcun modo. Per questo dicevo che tutto sommato una regola, cioè un principio che fa muovere in una certa direzione oppure no, è lì e in qualche modo costruisce, contribuisce a costruire tutto ciò che esiste. Potremmo dirla in termini più radicali, che per ciascuno, o almeno perlopiù, le cose che esistono sono quelle che le regole del suo discorso fanno esistere.

Intervento: Per esempio rispetto a quella connessione necessaria di cui si diceva l’altra volta: se non sono capace sono un inetto.

Questa è una regola, per esempio, del gioco linguistico in cui mi trovo. La difficoltà di trovare un’altra connessione al “non sono capace”... È proprio nell’uso del parlare comune (dipende: lei è capace di riparare un reattore nucleare? No. Non per questo si ritiene un’inetta.) Quanto può giocare, questa regola, parlando di ripetizione, di ricordo? fino a che punto posso fare il gioco con la ripetizione, quanti modi ho, ferma restando quella regola, di intendere produzione il discorso che si va facendo? Non posso uscire dal ricordo o da una ripetizione. Al presentarsi di qualche cosa, che mi fa parlare di sensazione, io dico ripetizione, io dico “è come quella” è abbastanza veloce (allora?) allora, non so? A che cosa serve tutto questo? Però ciò che ne traggo, ciò che concludo, è che mi riporta tantissimo al fatto che non sono capace, sembra, che questo gioco, in cui io dico di non conoscere la regola, sia appunto di confermare questa incapacità.

Già. Bene, è tardissimo, ci vediamo mercoledì prossimo.