4-11-2015
Heidegger, La logica: Il problema della verità. Qui sta parlando della visione: Abbiamo dunque due casi (parla della lavagna) la rappresentazione della lavagna e la visione della parete (in genere una lavagna è appesa a una parete), rappresentazione e percezione in entrambi i casi questo deve essere tenuto fermo (si intende l’ente stesso che deve essere tenuto fermo) e noi designeremo a rigore la percezione in cui non solo abbiamo l’ente stesso ma anche come si dice lo abbiamo “in carne ed ossa” (cioè non una rappresentazione o una visione) originariamente come la vera e propria conoscenza (come dire che la vera e propria conoscenza ha a che fare con l’ente stesso “in carne ed ossa” come diceva Husserl) conseguentemente la conoscenza è l’avere che abbraccia l’ente stesso, la sua corporeità (sta facendo un po’ il riassunto della filosofia tradizionale, la vera conoscenza è data dalla possibilità di avere accesso al vero ente), questo “avere” che abbraccia l’ente stesso “nella sua corporeità” è designato nella fenomenologia come visione. È questa la definizione fenomenologica della visione (ché la visione sarebbe quindi ciò che abbraccia l’ente in quanto tale, l’ente stesso, ricordate la famosa frase di Husserl “alle cose stesse” questo che diceva lui indicava il suo modo di fare filosofia, cioè di fare fenomenologia: andare alle cose stesse, quindi non alla rappresentazione, al modo di raffigurarsi ma alle cose stesse, poi si è accorto che non era così semplice) e la visione non è limitata solo a quei modi di abbracciare l’ente in cui si tratta del vedere in senso stretto, del vedere con gli occhi ma comprende l’ascolto anche di un pezzo musicale quando si è ascoltato esso stesso è caratterizzato fenomeno logicamente come visione (quindi la visione non è soltanto vedere un aggeggio, fa l’esempio di “due per due = quattro” anche questo ha a che fare con questo “abbracciare” di cui diceva e allo stesso modo) quando pronunciamo il giudizio “due per due = quattro” portando così espressamente a compimento questa proposizione in base alle sue singole posizioni che comprendiamo in se stesso quel che diciamo, diciamo allora che questa enunciazione è una enunciazione intuitiva, una enunciazione che fa vedere (anche se non lo si vede “ due per due = quattro” non è che lo si vede a meno che non lo si scriva) che fa vedere ossia che la cosa intesa si fa essa stessa presente (questo presentificare le cose è importante perché adesso ne parlerà in modo più specifico). C’è visione ogni qual volta la cosa intesa nel rapporto considerato è presente in carne ed ossa, la percezione è solo un modo della visione ossia quello per il quale è costitutiva la sensibilità (quindi pone in prima istanza la visione, in accezione fenomenologica cioè come l’abbracciare la cosa stessa) la lavagna infatti è presente in carne ed ossa in senso vero e proprio, nella più propria effettiva presenza che essa possa mai avere proprio quando la si usa in quel che essa è (ecco qui aggiunge un elemento importante: quando io ho la percezione, la visione precisa, perfetta della lavagna? Quando la uso, dice lui, cioè quando la si usa in quel che essa, è cioè la uso per scriverci sopra, non per darla in testa a qualcuno, che è un uso improprio) in questo modo essa è aperta (la visione) in senso vero e proprio mentre se ci fosse qui un selvaggio pur vedendola non la vedrebbe in quel che essa è (cioè per cosa serve) /…/ La cosa stessa è data dalla visione (qui siamo in piena fenomenologia) ora per lo più la conoscenza e il discorso che non derivano dalla presenza immediata sono in un’ampia area indeterminati o unilaterali o spesso tali che il modo in cui si intende la cosa stessa è del tutto vuoto, una rappresentazione di per sé vuota (la descrizione, non c’è la cosa che sta descrivendo, non è lì) di fronte a questa rappresentazione indeterminata e quindi vuota la visione dà la piena consistenza delle determinatezze della cosa ossia la possibilità di averla (io posso descrivervi una cosa ma finché non la vedete non avete una piena visione, dice la fenomenologia, Heidegger qui sta riprendendo Husserl) si è già detto però tra le due cose “rappresentazione” e “visione” (dicevo prima “vi rappresento qualche cosa” ma se voi non lo vedete non avete una visione propriamente, avete soltanto la rappresentazione anche nel caso in cui questa rappresentazione fosse quasi visiva, anche in questo caso comunque, dice Heidegger, è qualcosa di vuoto perché non c’è la visione della cosa) si è già detto però che tra le due cose “rappresentazione” e “visione” non c’è nessuna differenza essenziale ma solo una differenza nel modo della relazione e della funzione intenzionale, il termine “riempimento” ha quindi anche un senso diverso e primario con cui è unito, la visione riempie non solo in quanto da pienezza ma riempie in quanto risolve l’aspettativa che in certo modo ci può essere nella vuota rappresentazione (cioè la visione fa vedere ciò che io gli ho decritto, in questo senso riempie, è in questo senso che lui parla di riempimento) riempimento vuol dire ora conferma risolvente e significa un carattere intenzionale che sta in rapporto essenziale con quello della vuota rappresentazione (rapporto essenziale con la vuota rappresentazione “essenziale perché dice qual è l’essenza di questa rappresentazione, mostrandola) vi sono ora nelle visioni stesse vari modi e gradi e livelli del riempimento, riempimento nel suo doppio significato cioè ciò che da pienezza, il pieno, come ciò che da pienezza come confermare (cioè ciò che riempie la rappresentazione ma anche ciò che la conferma, ha questo doppio significato, ora si chiede lui: che cosa significa “prova”, provare qualcosa?): quel che si intende nella vuota rappresentazione viene portato così come esso è inteso davanti alla cosa stessa, ma perché questo? abbiamo pure accennato come se si trattasse di vedere che nella vuota rappresentazione si intende anche l’ente stesso (nella rappresentazione in qualche modo c’è l’ente perché lo rappresento) Certo! Ma nel modo del vuoto non della visione, questo modo si modifica di fronte alla presenza in carne ed ossa dell’ente stesso (questo modo del vuoto della rappresentazione viene modificato, ci sta dicendo, quando io vedo realmente la cosa) la prova alla vuota rappresentazione è fornita dalla cosa data nella visione e ritenuta identica grazie alla rappresentazione stessa, la vuota rappresentazione si legittima nei confronti della cosa in modo da identificarsi, da identificare quel che essa intende con la cosa stessa e come identica (sta dicendo semplicemente che la rappresentazione viene legittimata, cioè è provata dalla visione che riempiendo questa rappresentazione la rende determinata, la rende in carne ed ossa) nella prova quel che è vuotamente rappresentato e quel che è veduto sono portati alla coincidenza (ciò che io rappresento e ciò che vedi coincidono. Io ti descrivo questo accendino senza mostrarlo, poi te lo mostro e allora la mia descrizione vedi che coincide con l’accendino, allora è intervenuta la visione e la mia rappresentazione di quell’accendino non è più vuota, è riempita dall’ente stesso, questo accendino è un ente) ma questo linguaggio figurato deve essere compreso correttamente a partire dalla struttura dei fenomeni di cui si tratta, questo venire alla coincidenza di quel che è vuotamente rappresentato e di quel che è veduto è un fatto intenzionale non un procedimento psichico tale che per così dire due lamine “rappresentazione” e “visione” si sovrappongono l’una all’altra e si coprono e tale che lo si consta a cose fatte nella riflessione, la coincidenza è intervenuta, fatto che poi può essere considerato come il segno dell’avvenuta prova della vuota rappresentazione (cioè come dire che questa cosa, la coincidenza tra la rappresentazione e la visione non va da sé, non è una sovrapposizione automatica, infatti diceva lui del selvaggio, anche se gli faccio vedere la lavagna non capisce lo stesso di che cosa si tratta esattamente, occorre un’intenzione cioè un volere che la rappresentazione di un qualche cosa coincida con un qualche cosa, se non c’è questa volontà non succede niente) questa prova si compie invece intenzionalmente appunto come “dirigersi verso” (qui c’è Heidegger ovviamente “dirigersi verso” c’è l’Esserci” l’essere progettati verso qualche cosa) questa vuota rappresentazione intenzionale cioè tendendo al riempimento vive essa stessa nell’identificazione, essa stessa è in quanto si identifica (cioè la visione è quella che è in quanto si identifica con la vuota rappresentazione). Nel compimento dell’identificazione in quanto intenzionale il compimento in quanto tale prende visione della prova stessa che essa è la prova di esso, la prova non è qualcosa che si applichi alla vuota rappresentazione ma un modo del compimento stesso di essa (sta dicendo molto semplicemente che non si applica la prova alla vuota rappresentazione ma il riempimento della vuota rappresentazione è il compimento di essa non è una cosa che accade così per caso ma il suo compimento, come dire che una cosa non c’è senza l’altra) /…/ L’evidenza è l’atto di identificazione che comprende se stesso come tale, il comprendersi è dato insieme all’atto stesso, perché il senso intenzionale dell’atto intende qualcosa di identico in quanto identico chiarendo così con questo intendere eo ipso se stesso, quindi l’evidenza è un atto di identificazione (abbiamo visto identificazione tra vuota rappresentazione e visione cioè il suo riempimento, questa identificazione comprende se stessa come tale, cioè lo comprendo, mi accorgo di quello che sto facendo, lo so) il comprendersi è dato insieme all’atto stesso (non c’è l’atto della comprensione senza che questa comprensione sia anche un comprendere quello che sto facendo come auto comprendersi) perché il senso intenzionale dell’atto intende qualcosa di identico in quanto identico (è solo perché c’è questa auto comprensione che io posso stabilire che qualcosa è identico a un altro, cioè che la rappresentazione è identica alla visione) Quel che si è detto dell’evidenza significa però contemporaneamente nella misura in cui nella prova compare la correttezza che la correttezza della conoscenza non è stabilità in un secondo momento in nuova conoscenza del contenuto nel modo che sia provata la correttezza della prima conoscenza che doveva essere provata ma che essa è resa visibile nel compimento intenzionale dell’identificazione stessa grazie ad esso e per questo atto. Se non si coglie in questo modo la situazione fenomenologica se cioè non si vede la struttura fenomenologica allora si va immancabilmente incontro a una conseguenza priva di senso, infatti se la correttezza di una conoscenza (tenete sempre bene a mente questi due momenti la rappresentazione e la visione) sussiste solo quando a essa venga riconosciuta in una seconda conoscenza (cioè rappresentazione che viene conosciuta tramite la visione) allora a sua volta questa seconda conoscenza avrà bisogno della prova della sua correttezza e così via in infinitum (si innesca un processo infinito) e la prima conoscenza la vera e propria conoscenza della cosa non arriverebbe mai alla giustificazione perché si troverebbe necessariamente fin dall’inizio sospinta verso l’infinito a conoscere cioè la conoscenza della correttezza della conoscenza stessa della sua correttezza e questa conoscenza a sua volta e così via all’infinito (per questo diceva prima che non è conosciuta in un primo momento ma è conosciuta nell’atto stesso del conoscere. Questo è un modo per evitare la regressio ad infinitum; nell’atto del darsi è lì che avviene, non è che c’è prima la rappresentazione e poi la cosa se no si innesca quel processo all’infinito di cui diceva prima, che non trova soluzione di continuità, cioè non si ferma mai) la correttezza di una conoscenza o di un discorso è la possibilità di provarli o di esibire il fatto che siano stati provati, il fatto che siano stati provati è l’identità scorta nella prova di quel che si intende con quel che si vede (quindi da una definizione di “correttezza” interessante perché intanto va al di là di quella fornita da Tarski di cui dicevamo forse qualche volta fa. La correttezza di una conoscenza o di un discorso è la possibilità di provarli o di esibire il fatto che siano stati provati, il fatto che siano stati provati è l’identità, scorta nella prova di quel che si intende con quel che si vede e in effetti qui sembra evocare un po’ Tarski, questa correttezza tra ciò che io conosco e ciò che vedo) in quanto conoscenza che in ogni momento consente che si provi la sua correttezza a partire dalla visione che essa ha delle cose che intende una conoscenza è vera. La verità è l’identità di quel che si intende e di quel che si vede (identità di quel che si intende e di quel che si vede (…) è vera perché c’è questa identità, l’identità tra la rappresentazione e la visione, ciò di cui parlava prima) poi la verità palesemente non è sempre identità giacché non ogni identità è verità ma qui la verità è interpretata in vista dell’identità, dell’identità cioè di quel che si intende in quel che si vede. La verità significa ora essere identico di questi due membri della relazione la verità ora non significa effettiva presenza e modo d’essere della verità ma quel che la verità stessa è la contrassegnata identità (quindi c’è il passaggio dalla verità all’identità che è un passaggio importante, perché ci sia verità occorre che ci sia identità, se non c’è identità niente verità) dunque connessione tra verità della proposizione e verità della visione necessità di un ritorno ad Aristotele, teniamo fermo che adesso la verità è definita non primariamente in riferimento alla proposizione ma in riferimento alla conoscenza come visione (è vero che questo aggeggio è un orologio? Lo vedo, lo riconosco? Sì è un orologio, è vero. L’abbiamo stabilito) abbiamo fissato la prima definizione della verità nella validità dove essa caratterizza la presenza effettiva di una proposizione vera in quanto logos verità ossia in quanto verità del discorso nella misura in cui viene presa come enunciazione (cioè la prima definizione di verità è riferita alla proposizione che è vera) che viene riconosciuta come vera, adesso abbiamo non solo un’enunciazione sulla effettiva presenza del vero ma sulla struttura della verità stessa in quanto identità (quindi abbiamo aggiunto la questione dell’identità, perché ci sia verità è necessario che ci sia identità) e questa definizione della verità come identità si ottiene essenzialmente orientandosi verso la conoscenza intesa qui come visione, visione in senso amplissimo in cui confluisce il greco νοεῖν (conoscenza) spesso indicato anche da αἴσθησις (percezione) se dunque orientiamo questa seconda definizione della verità anche verso un termine greco allora vediamo che questo secondo e autentico concetto di verità apre la verità come νοῦς, la verità della visione la verità- νοῦς. Ho già detto che mi servo di questa mistura un po’ ridicola di greco e tedesco per spiegare come questi due problemi relativi alla verità siano orientati verso due punti di partenza fondamentali della filosofia antica nella cui tradizione noi oggi ci troviamo λόγος e νοῦς (cioè discorso e intelletto, evidentemente c’è una stretta connessione tra i due, tra il λόγος, il λόγος qui chiaramente lo intende come il discorso che manifesta le cose, e il νοῦς è appunto l’intelletto) si presenta ora il problema del rapporto della prima definizione con la seconda (la prima definizione è quella della verità come proposizione vera, la seconda della verità come identità) che cosa si ottiene con la distinzione fenomenologica tra le strutture intenzionali della conoscenza e la definizione tratta da tali strutture della verità come identità per la caratteristica della verità, (verità della proposizione naturalmente) la proposizione è fatta di verità, è vera è una verità, perché la proposizione è per così dire sede della verità? Perché essa può essere qualcosa come il luogo anzi il luogo primario, unico autentico della verità? È possibile chiarire tutto questo in base a quel che abbiamo detto in base alla verità stessa? La proposizione presa come semplice enunciazione per esempio “questa lavagna è nera” da espressione alla visione (vedo e dico) non si intende dire che l’espressione si adatti linguisticamente come emissione di voce, è data invece dalla stessa sequenza della proposizione che la si pronunci oppure no, che sia composta da una parola o più parole, la sequenza della proposizione articola in quanto tale la semplice sussistenza della cosa veduta, (la lavagna nera, è questo che lui intende con λόγος, cioè la proposizione che articola in quanto tale la semplice sussistenza della cosa veduta) la proposizione ora è nient’altro di qualcosa di vuotamente rappresentato, di detto, il contenuto della proposizione nient’altro che qualcosa di vuotamente inteso, questo significa però che la proposizione in quanto qualcosa di inteso è membro della relazione che è stata definita come verità, (verità, in questo senso la relazione tra ciò che intendo e ciò che vedo) termine della relazione di identità, membro di questa determinata relazione di identità, membro, nel senso che esso è il membro che può essere provato, il membro cui spetta la possibilità della prova (si riferisce naturalmente al termine di relazione di identità fra questi due poli quindi è l’identità a questo punto che assume una posizione prioritaria rispetto alla questione della verità). La proposizione come membro della relazione è fondata sulla verità visiva dell’identità (“verità visiva” vedo) d’altra parte l’identità stessa come stato oggettivo ha il modo d’essere di una proposizione o di uno stato proposizionale (cioè un essere ideale non concreto) l’osservazione all’interno della fenomenologia si restringe a questo, faremo presente questa connessione tra stato oggettivo e stato veritativo per ulteriori più positive analisi di questi contesti (si chiede qui se esiste una connessione più fondamentale, se esiste allora bisogna collocare dietro due determinazioni la domanda “come deve essere compresa anzitutto la preminenza della verità della visione?” questa identità poi di fatto) la risposta è che la verità è una determinazione della conoscenza, una determinazione tanto primaria che si può dire che la conoscenza sia una tautologia in quanto la conoscenza è conoscenza solo se è vera (dice: se colgo qualcosa in maniera sbagliata non la conosco) ma la conoscenza è stata definita come visione, non ogni conoscenza è una visione ma la visione è la conoscenza vera e propria e ogni altra conoscenza mira ad essa tenendone conto come idea nel senso dell’ideale (qui sottolinea un problema, dice che la conoscenza è tale soltanto se è vera, e la conoscenza vera è la visione) Husserl cogliendo in modo caratteristicamente ampio e fondamentale il concetto di visione come dare e avere un ente nella sua presenza in carne ed ossa (le cose stesse) cogliendo cioè in un modo che non si limita ad un ambito particolare e a una capacità particolare ma formula il senso intenzionale della visione cogliendo per la prima volta in modo radicale, ha pensato fino in fondo la grande tradizione di tutta la filosofia occidentale. (e cioè di potere cogliere con la visione, con un abbraccio unico la cosa stessa, l’ente in quanto tale) /…/Il termine usato da Husserl “visione originaria” , la visione originaria che per la prima da origine nel vedere attraverso il vedere la cosa veduta l’ἀρχή, la visione cioè che porta la cosa veduta all’essere presente (è questo che intende Husserl come visione “la visione che porta alla presenza la cosa veduta” a essere qui e adesso”) l’intelletto che non segue l’ente di cui è alla ricerca ma in quanto intelletto lo produce, lo rende cioè possibile, lo rende possibilità giacché solo nella misura in cui le cose sono tutto questo esse possono eventualmente diventare reali. /…/ (considera questa enunciazione) “dichiarando fa vedere qualche cosa” solo il discorso in cui compare il discoprire e il coprire (ecco qui ha posto la questione del coprire e dello scoprire che a questo punto però occorre che vi illustri. La distinzione che fa tra vero e falso: “il vero” è ciò che consente di scoprire, il “falso” è il coprente, letteralmente). Il luogo della verità è il logos. La tesi secondo cui il luogo proprio della verità sarebbe la proposizione, il giudizio, deve essere intesa come un’immagine in quanto il luogo è una determinazione spaziale mentre il logos non ha un’estensione spaziale, con questa espressione si intende dire l’ambito in cui la verità è originariamente e propriamente appartiene e che rende possibile la verità come tale è la proposizione, quando si esprime questa tesi ponendola indiscriminatamente alla base di tutte le considerazioni sulla verità la si congiunge per lo più con una seconda tesi, quella secondo cui la tesi della proposizione come luogo proprio della verità sarebbe stata pronunciata per la prima volta da Aristotele e per lo più questa seconda tesi viene collegata ad una terza secondo cui Aristotele avrebbe per primo stabilito anche il concetto della verità come accordo del pensiero con l’ente ma nella misura in cui questo concetto di verità non regge il confronto con la riflessione critica Aristotele così dice per lo più questa tesi (Aristotele sarebbe l’iniziatore di questa tesi ingenua della verità, la verità come adeguamento dunque dice Heidegger (adesso qui sta rileggendo Aristotele) Abbiamo tre tesi, 1) il luogo della verità è la proposizione 2) la verità è accordo del pensiero con l’ente 3) l’iniziatore di queste due asserzioni è Aristotele. Queste tre tesi che oggi e da lungo tempo sono tesi correntemente diffuse sono tre pregiudizi, non è vero né che Aristotele abbia pronunciato le prime due tesi nominate né che egli di fatto o indirettamente insegni quel che esse contengono, egli è l’iniziatore di queste tesi 1 e 2 solo nella misura in cui se si sono diffuse, è servendosi a un riferimento ad Aristotele basato su una interpretazione insufficiente, riferimento che oggi continua a condizionare la comprensione di questi problemi (sta dicendo che quello che dice Aristotele di fatto è tutt’altro da quello che gli si fa dire generalmente, cioè il fatto che sia lui l’iniziatore dell’idea della verità come adeguamento e cioè della verità come identità tra il rappresentato e l’ente). Che cosa dice Aristotele sulla verità e sul rapporto di essa con il logos come proposizione? Innanzi tutto bisogna tenere ben presente che Aristotele non ha mai definito la verità come tale servendosi di un riferimento alla proposizione invece posto che stabilisca una connessione tra logos proposizione e verità definisce la proposizione servendosi della verità più esattamente del poter essere vero ma questa versione è ancora insufficiente, la proposizione enunciativa è definita da Aristotele come il discorso che può essere vero o falso (cioè il discorso apofantico). Ogni discorso infatti informa di qualcosa, significa comunque qualcosa e enunciativo invece non è ogni discorso, ma solo quello in cui compare l’esser vero o l’esser falso come modo del discorso (sta dicendo che un discorso enunciativo è tale solo in quanto può essere vero o falso) fondamentalmente di qui emerge che la verità è il carattere distintivo di un determinato modo del discorso quello enunciativo (cioè bisogna enunciare qualcosa perché questo qualcosa possa essere vero o falso, infatti un’imprecazione non è di per sé né vera né falsa) la proposizione è definita con un riferimento alla verità e non viceversa, la verità deriva dalla proposizione (questo è interessante in effetti, è la proposizione che in quanto tale costruisce un qualche cosa che poi viene giudicato vero e falso in base a qualche altra cosa, sta quindi dicendo che la verità non è un’ipostasi, non sta alla base di tutto ma è un prodotto del discorso). La verità da una parte e l’esser vero e l’esser falso dall’altra sono fenomeni interamente diversi (a proposito del discorso in cui compare il discoprire e il coprire, la verità è ciò che scopre, svelamento infatti λήθεια, svelamento, al posto della nostra espressione “comparire” in greco ὑπάρχειν (essere presente) qui però non significa quel che molte volte può significare “comparire” nel senso più ampio dice qualcosa (cioè c’è qualcosa) come se Aristotele volesse dire “solo il discorso in cui c’è il discoprire o il coprire dichiara qualche cosa” (cioè soltanto il discorso che mostra oppure copre) quasi fosse possibile che il discoprire e il coprire siano ora presenti ora no (sta commentando Aristotele) qui invece Øp£rcein ha il senso pregnante del concetto filosofico secondo l’uso che ne fa Aristotele, ὑπάρχειν significa cioè “quel che è presente fin da principio” quel che sta a fondamento di qualcosa in modo che tutto il resto sia retto da quell’aspetto fin da principio presente (questa è la traduzione di ὑπάρχειν. Ve la rileggo: quel che sta a fondamento di qualcosa in modo che tutto il resto sia retto da quell’aspetto fin da principio presente). Per questo motivo Boezio (filosofo medioevale) traduce con ragione il greco ὑπάρχειν con “in-esse” cioè l’esser dentro, appartenere all’essenza stessa del discorso dobbiamo quindi tradurre “dichiarando fa vedere solo il discorso in cui il discoprire o il coprire regge e determina l’autentica intenzione del discorso” (questa sarebbe la traduzione che dà Heidegger di un brano di Aristotele) si chiarisce ora il secondo passo la distinzione in esso stabilita da Aristotele (è di nuovo Aristotele che parla) non tutti i modi di discorso si mantengono primariamente nella tendenza del discoprire e del coprire la preghiera per esempio è un discorso ma pregando il discorso né scopre né copre (la preghiera non ha il senso del discoprire o del coprire) sono quindi il discoprire e il coprire che determinano il logos come quel che dichiarando fa vedere (questa è potremmo dire la definizione che dà Heidegger di λόγος “quel che dichiarando fa vedere”) la proposizione come enunciazione è determinata a partire dal discoprire e coprire, l’essenza della proposizione è lo ἀποφαίνεσθαι “far vedere un ente”. Il senso del discorso proprio dell’enunciazione è questo fare vedere (discorrere, dire, parlare è fare vedere, questo per il greco antico) è ἀποφαίνεσθαι il λόγος (il logos è appunto apofantico cioè che è sottoponibile a un criterio vero funzionale, cioè è decidibile se è vero oppure falso e quindi un giudizio. Negli anni ‘70 si diceva che l’interpretazione dell’analista è apodittica e non apofantica, significa che non è sottoponibile a un criterio vero funzionale, cioè l’interpretazione dell’analista non è né vera o né falsa, ma sottolinea qualcosa di evidente in ciò che si sta dicendo, in questo senso è apodittica l’interpretazione dell’analista mostra qualcosa che si sta evidenziando in quel momento in cui si sta parlando) il logos è apofantico la cui possibilità di contrassegnare nel discorso sta nel far vedere il logos che in base all’articolarsi del suo discorso può far sì che qualcosa appaia (è questo che contrassegna un discorso, il fatto che possa far vedere qualcosa che quindi appare) in breve ἀπόφανσις enunciazione (possiamo pensare che per Heidegger l’ἀπόφανσις, il mostrare, il far vedere è l’enunciazione, l’enunciazione fa questo, fa vedere, come in quella figura retorica, l’ipotiposi, che è uno schizzo, fa vedere, anche se sarebbe per Husserl una rappresentazione vuota) ἀπόφανσις enunciazione più adeguatamente “indicazione” un modo di indicare (l’indicare per Jakobson è lo shifter, che sarebbe l’operatore deittico, l’indicare, la “deissi”) manterremo tuttavia il termine corrente enunciazione (anziché indicazione) dandogli però il significato contenuto nel fenomeno di questo stesso logos enunciazione: dire quel che si dice a partire dalla cosa stessa, così che in questo discorso diventi visibile il suo “intorno a cui” accessibile alla comprensione (a partire dalla cosa stessa (Husserl) ma c’è una cosa in più in questo discorso diventa visibile il suo, cos’è l’“intorno a cui”? Sarebbe sottointeso ciò intorno a cui si parla, l’oggetto del dire, quindi questa enunciazione è ciò che mostra ciò intorno a cui si sta parlando, la mostra, la fa vedere, la rende accessibile alla comprensione) quando si esprime un’enunciazione quindi si accede alla cosa indicata stessa e per così dire la si conserva, questo significato di enunciazione dovrà essere considerato in futuro come quello primario (quindi in tutto ciò che seguirà lui intenderà “enunciazione” in questo modo “ciò che mostra ciò di cui si sta parlando, intorno a cui si sta parlando” lo fa vedere) nell’enunciazione intesa in questo modo l’enunciato è “la lavagna nel suo esser nera” ma enunciazione viene anche e per lo più intesa come predicazione ossia come enunciazione di un predicato intorno a un soggetto (sta facendo delle distinzioni) soggetto: ciò a cui si dà una determinazione (questo è ciò che intende con soggetto) enunciazione allora ha qui il senso di “determinare”, l’enunciazione in questo senso sta in un rapporto essenziale con l’enunciazione nel primo senso il determinare è cioè sempre un far vedere riferito a qualcosa che solo come tale è possibile (occorre che sia riferito a qualcosa, se è riferito a qualcosa è perché è determinato) se ogni enunciazione come tale sia anche una determinazione è un problema che deve restare aperto, un problema che sarà affrontato nei paragrafi seguenti dove ci porremo sulle tracce della piena struttura dell’ἀπόφασις. (Tenete sempre conto che ciò che è in gioco, “l’intorno a cui” sta parlando è la verità. Si è trovato a dire che attribuire ad Aristotele questa verità come ὀρθότης come correttezza, come adeguamento della parola alla cosa, è falso, perché Aristotele non intende esattamente in questo modo, Aristotele pone invece la verità come un prodotto del discorso. Non è che c’è la verità e questa verità dice se il discorso è vero o falso, no, c’è la proposizione, e questa proposizione costruisce non la verità ma la possibilità della verità, costruendo un discorso apofantico. Il λόγος come discorso apofantico costruisce un discorso che può essere vero o falso, di per sé non è né vero né falso ma può esserlo, qualunque asserzione di per sé, sta dicendo piegandolo ma neanche poi tanto, di per sé non è né vera né falsa, può esserlo a condizione che io stabilisca le regole della verifica, della prova, allora posso stabilire se è vero o falso, ma di non è né l’una cosa né l’altra perché la verità non precede la proposizione, e se non precede la proposizione è costruita dalla proposizione e la proposizione non stabilisce, non può stabilire la verità, può stabilire solo e soltanto le condizioni di verità, cioè la possibilità. Nel prosieguo riprenderà molto di quanto ha detto prima e vi apparirà sicuramente molto più chiaro perché ne abbia parlato in questo modo. Si tratta per Heidegger di trovare quegli elementi per potere non dire che cos’è la verità in quanto tale, ma qui lo ha già detto riprendendo Aristotele, cioè quali sono le condizioni di possibilità per potere costruire un discorso del quale possiamo dire che è vero oppure che è falso, e il discorso vero è per Heidegger è quello che svela, infatti per Heidegger la verità è il disvelarsi, il disvelamento dell’Essere non dell’ente ma dell’Essere. Nella filosofia tradizionale l’essere non è altro che l’universale dell’ente, l’ente sarebbe il caso particolare dell’universale che è il suo essere, cioè l’ente, l’aggeggio non è l’essere e infatti si usano parole diverse perché si intendono cose diverse, l’ente è questo aggeggio qui particolare, specifico, determinato, ma l’Essere di questo aggeggio non è questo aggeggio ma qualche cosa di molto più ampio, qualcosa che costituisce l’universale di tutti gli accendini possibili da quando esistono fino a quando esisteranno, cioè tutti, cioè l’universale di cui questo aggeggio è un particolare. Quando Platone si è inventato la metafisica ha inventato proprio questo, e cioè l’idea. L’esempio che faceva: c’è il cavallo e poi la “cavallinità” cioè quell’idea infatti per Platone l’essere è l’idea, l’idea di tutti i cavalli possibili e immaginabili, quello è l’essere che appartiene ovviamente al cavallo, al singolo cavallo, gli appartiene perché se non ci fosse questa idea del cavallo non potrei mai vedere l’ente in quanto tale, invece per Heidegger non è così, ma lo diremo la prossima volta.