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4 ottobre 2023

 

Aristotele De Interpretatione

 

Siamo a pag. 237. Dal momento che l’affermazione significa qualcosa in relazione a qualcosa e questo è un nome o ciò che è senza nome, ciò che viene affermato bisogna che sia uno solo e in relazione ad una sola cosa (del nome e di ciò che è senza nome si è parlato in precedenza: infatti non chiamo nome l’espressione “non uomo”, ma nome indeterminato – allo stesso modo, non chiamo verbo l’espressione “non ha salute”… Sono tutte quelle cose che poi Benveniste chiamerà frasi nominali, frasi che funzionano come nome. Erano già state stabilite da Aristotele. Affermazione e negazione, dunque. Tutto ciò che ci sta dicendo verte su questo, e cioè che il parlare non è altro che affermare e negare, cioè, giungere e disgiungere, unire e separare: il parlare è questo, la relazione è questa, unisce o disgiunge. Ciò su cui qui si sta interrogando è in quali casi funziona la negazione, per esempio, dell’universale. Come si nega un universale? Tutte le A sono B, come lo si nega? Potremmo negarla dicendo che nessuna A è B, tutte le A non sono B. Nel primo caso abbiamo una negazione, nel secondo un’affermazione. Ad Aristotele piaceva di più l’idea della negazione: se voglio negare un quantificatore universale devo usare la negazione e non l’affermazione. Perché? Perché così, mi piace così. Deve essere, dunque, una negazione, quindi, devo negare il quantificatore, pertanto, non tutte. Nell’altro caso, come abbiamo visto, c’è l’affermazione: tutte le A non sono B. a pag. 239. Un uomo è giusto. La negazione di questo: un uomo non è giusto. Un uomo è non giusto. La negazione di questo: un uomo non è non giusto. Occorre cioè sempre negare ciò che funziona come la questione di cui si sta parlando (ύποκείμενον). Questo ha condotto Aristotele a una questione, che adesso diciamo. A pag. 243. Dal momento che la negazione che significa che “nessun animale è giusto” è contraria all’affermazione che “ogni animale è giusto”, è evidente che queste non saranno mai né vere allo stesso tempo né in relazione al medesimo oggetto, ma le opposte a queste talvolta lo saranno: per esempio, “non ogni animale è giusto” e “qualche animale è giusto”. Ciò che sta facendo qui è delineare il quadrato logico. Le due affermazioni particolari, quelle al fondo del quadrato, si chiamano subcontrarie e dicono che “qualche A è B” e “qualche A non è B”; sono, sì, contrarie ma subcontrarie, perché è possibile che ci siano entrambi – qualcuna lo è e qualcun’altra non lo è. A lui interessa vedere che cosa segue quando io nego un quantificatore, cioè, vedere come posso modificare una formulazione. Per esempio, dice: …all’enunciazione “ogni uomo è non giusto” segue l’enunciazione “nessun uomo è giusto”; all’enunciazione “qualche uomo è giusto” quella opposta secondo cui “non ogni uomo è non giusto”; è infatti necessario che ce ne sia qualcuno. “Ogni uomo è non giusto” è un quantificatore universale; che cosa segue al fatto che “ogni uomo è non giusto”? Che “nessun uomo è giusto”. Questa cosa serve ad Aristotele per vedere come è possibile utilizzare queste formulazioni per verificare se sono vere oppure no; e, infatti, si scontrerà tra breve con un problema. Facciamo un passo avanti a pag. 260 ed eventualmente poi torneremo indietro. Sta parlando della logica modale (possibile, impossibile, necessario e contingente). Infatti, il “non necessario che sia” non è negazione del “necessario che non sia”. Infatti, il “non necessario che sia” vuol dire che può essere e che può non essere ed è diverso dal “necessario che non sia”, che invece non lascia una possibilità. È possibile, infatti, che l’uno e l’altro si dicano con verità in relazione alla stessa cosa: infatti, il necessario che non sia è non necessario che sia. E adesso trova il problema. La ragione del fatto che non conseguono allo stesso modo delle altre è che l’impossibile, quando viene espresso in modo contrario rispetto al necessario… L’impossibile in genere si considera come l’opposto del necessario. …ha la stessa forza di questo: se infatti è impossibile, è necessario non che questo sia, ma che non sia, ma se è impossibile che non sia, allora è necessario che questo sia. Di conseguenza, se quelle conseguono allo stesso modo al possibile e al non possibile, queste conseguono in modo contrario, dal momento che hanno lo stesso significato del necessario e dell’impossibile, ma, come è stato detto, in modo convertibile. Oppure, è impossibile che siano poste in questo modo le contraddizioni nel caso del necessario? Infatti, il “necessario che sia” è possibile che sia;… Nel quadrato logico il possibile possiamo metterlo, per esempio, sotto l’universale affermativo come il particolare affermativo se è “necessario che sia” sarà anche possibile che sia, come dire che se tutte le A sono B, qualche A sarà B – sono subalterne. E qui si muove dal quantificatore universale per giustificare il particolare – il quantificatore esistenziale. Ma Aristotele qui ci dice una cosa, che è un grosso ostacolo. Infatti, il “necessario che sia” è possibile che sia; se infatti non lo fosse, la negazione conseguirebbe. Infatti, è necessario o affermare o negare: di conseguenza, se non è possibile che sia, è impossibile che sia; dunque, è impossibile che sia il necessario che sia, ma questo è assurdo. Io dico che se è necessario che sia, allora è possibile che sia; se non lo fosse allora, al posto del possibile che sia, ci sarebbe il non possibile che sia (la sua negazione); ma la sua negazione che cos’è? È la negazione del quantificatore universale, perché dice che è impossibile che sia. Quindi, dice Aristotele, al quantificatore universale segue necessariamente il quantificatore esistenziale, cioè, all’universale affermativa segue necessariamente la particolare affermativa, e non può non seguire; quindi, all’universale segue necessariamente il particolare, cioè il possibile. Lui ha voluto dimostrare che dal necessario segue il possibile. Se nego questo, e cioè che non segue, allora questo possibile che sia diventerebbe non possibile che sia, cioè impossibile che sia, e allora al necessario che sia seguirebbe necessariamente l’impossibile che sia, cosa che giudica come un assurdo. Quindi, ha appena affermato che all’universale segue necessariamente il particolare. Tra breve dirà il contrario, ma in modo interessante. Però, il “necessario che sia” (universale affermativa) non consegue neanche al “possibile che sia” (particolare affermativa) e neppure il “necessario che non sia”. Infatti, per quanto riguarda l’uno è possibile che accadano entrambe le cose, mentre se fosse detto con verità uno degli altri due, quelle enunciazioni conseguenti non saranno più vere: infatti, è possibile che sia e che non sia allo stesso tempo, ma se è necessario che sia o che non sia, non sarà possibile che si diano entrambi. Resta, dunque, che il “non necessario che non sia” consegua al “possibile che sia”, questo infatti è vero anche in relazione all’essere necessario e, infatti, è questa la contraddizione all’enunciato che segue al “non possibile che sia”; a quello, infatti, consegue l’”impossibile che sia” e il “necessario che non sia”, la cui negazione è il “non necessario che non sia”. Sta di nuovo delineando il quadrato logico. La negazione dell’impossibile che sia, cioè dell’universale negativa, è la particolare affermativa. Pensate alla diagonale nel quadrato logico tra l’universale negativa (non possibile che sia) e la particolare (possibile che non sia). Quindi, secondo Aristotele, qui non si verifica nulla di impossibile. Sì e no, dal momento che lui dice che se qualcosa è impossibile che sia e che a questo segue necessariamente il necessario che sia. Dice che non è possibile che sia… qui si scatenerebbe la contraddizione, perché diventerebbe impossibile che sia. Com’è che Aristotele gioca con queste cose? Quando io posso affermare qualcosa di necessario, qualcosa di necessario, cioè, qualcosa che non può non essere? Qui c’è l’oscillazione tra l’aspetto ontologico e l’aspetto logico, cioè tra delle formulazioni logiche, che potremmo formalizzare in “tutte le A sono B” e “qualche A è B”, e l’aspetto ontologico, cioè verificare il fatto che qualcosa esiste è veramente, e se qualcosa è veramente è anche possibile che ci sia e non è possibile che non sia possibile che ci sia. Fare procedere il particolare dall’universale è come fare procedere la δύναμις dall’ἐνέργεια: l’ἐνέργεια è l’atto, è il necessario che sia; se è necessario che sia, allora è possibile che sia ed è impossibile che non sia possibile che sia. Qui, in effetti, riprende la questione già posta nella Metafisica e anche nella Fisica, dove parlava del movimento. L’ἐνέργεια, l’atto, è il compiuto e, quindi, ha in sé già la δύναμις, la sua potenzialità; non può esserci l’atto senza la potenza. Ora, qui, ecco l’oscillazione tra l’aspetto ontologico e quello logico: senza l’atto non c’è la potenza, senza ἐνέργεια non c’è la δύναμις. Ma qui stiamo parlando di questioni che riguardano l’essere in quanto tale, aristotelicamente, ciò che ne diciamo. Il fatto che non c’è l’atto senza la potenza ha delle implicazioni, perché questo significa che è impossibile che ci sia prima la potenza e poi l’atto, che ci sia cioè una successione, ma, per via dell’έντελέχειᾳ c’è una simultaneità dei due, che si coappartengono. Poi, c’è l’aspetto logico, formale, che lui risolve in questo modo: se è necessario che sia allora è impossibile che sia possibile che non sia, perché sennò c’è una contraddizione per cui logicamente non è valido, non è ammissibile. Ora, non è che Aristotele fosse un ingenuo, sapeva bene che la logica formale non è altro che un gioco, per cui, sì, può dire che il necessario prevede necessariamente il possibile, ma del necessario ci dice soltanto che cosa? Che non è possibile che non sia, cioè, per definire il necessario ricorre al possibile, e viceversa. Già qui si intende la problematicità della questione anche logica, cioè per determinare uno devo determinare l’altro – non posso determinare il necessario se non determino anche il possibile –, ma li determino simultaneamente; e questo è un problema che la logica si è portata appresso fino ad oggi: per dimostrare il teorema di deduzione mi serve il teorema di induzione, ma senza il teorema di induzione non posso dimostrare il teorema di deduzione. Senza il necessario non posso determinare il possibile e senza il possibile non posso determinare il necessario. Qui sorge un altro problema. Si potrebbe sollevare una difficoltà: se al “necessario che sia” consegua il “possibile che sia”: se, infatti, non consegue, conseguirà la contraddizione di questo, cioè il “non possibile che sia”; e se qualcuno dicesse che questa non è una contraddizione, deve dire che la contraddizione sia “il possibile che non sia”: entrambe sono false rispetto al “necessario che sia”. Non c’è scampo. Questo però ci fa pensare a una questione ancora più antica, che è quella che dice che dalla negazione di qualcosa è possibile dedurre un’affermazione: nego qualcosa e da questa negazione concludo la sua affermazione. Sarebbe come dire che dall’impossibile concludo il necessario. Di questa questione ne parla già Euclide. C’è poi una figura, che potremmo chiamare logica, nota come consequentia mirabilis, conseguenza ammirevole. Questa consequentia mirabilis si formalizza così: (se non-A allora A) allora A. Questa formula, che muove da una negazione, conclude con un’affermazione: ciò che nega diventa affermato. È una cosa che ha sorpreso tutti quanti e, infatti, molti ci si sono arrovellati, dicendo addirittura che era una diavoleria, che era un gioco di prestigio degno dei peggiori o dei migliori, a seconda del punto di vista, dei sofisti, e che una cosa del genere meritava di non essere neanche pensata, perché non è possibile che negando qualcosa io la stia affermando. Tuttavia, la consequentia mirabilis dice molto semplicemente questo: se nego qualcosa, questo qualcosa è necessariamente, e se è necessariamente allora è. È questa la consequentia mirabilis, senza nessuna magia, senza nessun mistero, senza nulla di tutto ciò, è semplicemente una banalissima considerazione, che però per potere essere fatta comporta la necessità di tenere conto che negando, se nego, nego qualcosa; λέγειν τί, se dico, dico qualcosa, questo qualcosa che dico allora c’è. λέγειν τί: se dico, dico qualcosa, questo qualcosa c’è, e se lo sto negando allora necessariamente esiste. Questo ci fa considerare che in questa formulazione della consequentia mirabilis si compie questo miracolo, cioè dalla negazione di qualcosa che è impossibile – se nego la A posso anche dire che la A è impossibile – deduco che la A è necessaria. Come dire che Aristotele ha intravisto la cosa quando diceva che se è necessario allora è anche possibile, perché se nego che sia possibile mi trovo di fronte una proposizione, che dice che se non è possibile allora è impossibile; ma questa non è altro che la riformulazione di una proposizione, sono sempre proposizioni, sono sempre parole. Anche questa consequentia mirabilis è un po’ come la dimostrazione ontologica dell’esistenza di Dio di Anselmo: la dimostrazione può anche essere considerata ineccepibile, ma non per questo ci appare all’improvviso Dio. Quindi, la consequentia mirabilis non fa esistere qualche cosa, ma dice soltanto, se vogliamo coglierne l’aspetto interessante, che parlando c’è già qualcosa; negare è parlare, è dire, per cui se dico, dico necessariamente qualcosa, e se sto negando questo qualcosa allora c’è.

Intervento: Viene alla mente il saggio di Freud sulla negazione.

Questa è un’altra questione interessante, che sarebbe da esplorare aldilà di quello che dice Freud. Lo scritto di Freud, La negazione, Die Verneinung, prende lo spunto da ciò che dice un suo paziente: ho sognato una donna, ma non era mia madre. Come dire che questa madre compare, ma può comparire solo come negata, perché sennò sarebbe un problema per l’analizzante. Perché può comparire solo come negata? Affermando o negando qualche cosa, ogni affermazione o negazione è sempre un determinare, e ogni determinare de-termina, cioè taglia fuori altre cose. Tutte queste altre cose che determino non svaniscono nel nulla, restano presenti. Questo lo sa bene la retorica, che le utilizza, e le utilizza contro l’avversario, naturalmente, mostrandogli che ciò che lui afferma potrebbe anche essere così ma potrebbe anche non esserlo, volgendo la sua affermazione universale in affermazione particolare: non tutti, perché può esserci un caso come questo, in cui non è come dici tu; quindi, demolisce l’intera argomentazione. Se accadesse una cosa del genere nella logica formale, tutto il sistema diventerebbe banale; lo chiamano così perché a questo punto si può dimostrare qualunque cosa, come dicevano i medioevali: ex falso sequitur quodlibet, dal falso segue quello che ti pare. A pag. 263. Di conseguenza, dal momento che al particolare segue l’universale… Prima ha detto esattamente il contrario: dall’universale segue il particolare, perché il particolare si pone nei confronti dell’universale come subalterno: se tutte le A sono B qualche A sarà B. quindi, dall’universale segue il particolare. Invece, qui dice dal momento che al particolare segue l’universale, a ciò che è per necessità segue il poter essere, anche se non per ogni cosa, e dato che, per così dire, il necessario e il non necessario sono principi di tutte le cose nel loro essere e non essere,… Sta dicendo che ogni cosa ci appare come necessaria o non necessaria. Questi sono i due modi in cui le cose ci appaiono, secondo Aristotele: o è così o potrebbe essere così. Quando qualcuno afferma qualcosa, afferma sempre un particolare, dice “questo è questo”, ma, dicendo questo, dice o vuole fare pensare che quello che sta affermando abbia una garanzia, che sia vero sul serio e non per finta, e, quindi, da che cosa può essere garantito il particolare se non dall’universale? Ecco che dal particolare segue l’universale, lo si vuole fare seguire, perché è l’unico che garantisce – che poi garantisca o no, questo è tutto un altro discorso. A pag. 271. Dunque, se per quanto riguarda l’opinione, le cose stanno così e le affermazioni e le negazioni pronunciate sono simboli di quelle che si trovano nell’anima, è chiaro che anche all’affermazione è contraria la negazione che riguarda la stessa cosa intesa in senso universale…Le affermazioni e le negazioni sono simboli delle affezioni dell’anima (ψυχή). Ma quali sono le affezioni dell’anima? Lui ce lo ha detto, non qui ma da un’altra parte: sono le emozioni, πάθη. Dunque, noi affermiamo o neghiamo a seconda delle nostre emozioni, che sono modi in cui si esprime la nostra soddisfazione e la nostra insoddisfazione: affermo ciò che mi dà soddisfazione, nego ciò che mi dà fastidio. C’è altro, dice Aristotele? No, è tutto qui. Questo ci porta a una considerazione importante, e cioè che tutto ciò che le persone affermano o negano non ha altro scopo se non confermare che qualcosa soddisfa oppure escluderlo se non lo soddisfa, qualunque cosa sia, è irrilevante. Che si tratti di decidere se è meglio il comunismo o il nazismo, se è meglio la Juventus o la Fiorentina, è esattamente la stessa cosa. Nessuno sa esattamente di che cosa sta parlando, sono fantasie mosse dalle sue emozioni, non c’è nulla di determinabile, assolutamente niente. Quindi, è mosso soltanto dalla necessità di potere affermare qualcosa. Se lo affermo, allora vuol dire che è una cosa che mi soddisfa, che è bene; quello che nego sono i molti, il male. Ed è questo che è necessario che sia. In fondo, tutta la logica di Aristotele, che noi non possiamo più non intendere se non come retorica, punta a questo, a trovare quali sono le connessioni che mi consentono di affermare che ho ragione io, che le cose stanno così. Tutte queste argomentazioni di Aristotele, lui stesso lo sa, parlano dell’universale affermativo. Che cos’è questo universale affermativo? Ciò che non può non essere? Sì, va bene, ma qui tiriamo in causa il possibile: quindi, l’universale dipende dal possibile? Questo già lo avrebbe innervosito: il possibile segue al necessario, non è che lo preceda o che, addirittura, sia simultaneo. Come vedete, il problema che insiste e che continua a ripetersi anche nella logica è sempre quello dell’uno e dei molti: l’uno, l’affermazione, i molti, la negazione, il non è questo. Io affermo, quindi, pongo l’uno, ma non è questo perché ci sono i molti: l’uno è i molti, ἒν πάντα εἰναι diceva Eraclito, l’uno non è il tutto, l’uno è tutte le cose, appunto, i molti, il molteplice, πολλαχs, termine che interviene spesso in Aristotele.

Intervento: …

Sì. Se devo fare questo è perché questo è bene, cioè, non è male. Come dicevamo all’inizio, la negazione è ciò che consente di parlare, perché per determinare devo negare tutto ciò che quella cosa non è o che mi pare non sia – questo occorre sempre precisarlo.

Intervento: …

Se nego, nego qualcosa. Quel qualcosa che nego è qualcosa che c’è. Anche in questo caso funziona quello che diceva Hegel rispetto alla religione: tenere separate l’affermazione dalla negazione, quindi, ciò che è da ciò che non è, il bene dal male, l’uno dai molti. Questo è il fondamento di ogni pensare religioso, è ciò che consente di distinguere il bene dal male, quindi, di stabilire chi è amico e chi nemico. Porli come simultanei, in effetti, crea un problema: sarebbe l’ἒν πάντα εἰναι, sarebbe l’impossibilità di negare qualche cosa, pensando che questo negare elimini ciò che sta negando, ma non lo elimina. C’è quella forma della opposizione che i latini indicavano come Vel, che è la disgiunzione non esclusiva, cioè che non esclude ciò che disgiunge. C’è anche quello che diceva Hegel rispetto all’Aufhebung: il negativo non si toglie, permane, e perché permane? Perché se non c’è il negativo non c’è neppure il positivo; quindi, è indispensabile per l’esistenza di entrambi. Aristotele vuole parlare di logica, ma in realtà parla di retorica. A pag. 249 fa un esempio, che è emblematico. Non sempre, però, si dice il vero; quando nel predicato che viene aggiunto è presente una qualche opposizione, dalla quale segue una contraddizione, non si dice il vero, ma il falso: per esempio, dire che un uomo morto è un uomo… Perché non dovrei dirlo? È un uomo morto, quindi, è un uomo; con una determinazione particolare, ma se dico un uomo morto dico che è un uomo. Anche nei suoi esempi, come questo, in effetti, si tratta di un’argomentazione retorica, perché non è sostenuta da niente. Dire che “un uomo morto è un uomo significa affermare il falso” è a sua volta falso; dipende da cosa intendiamo, perché se dico “un uomo morto”, sto dicendo intanto che è “un uomo”; poi, aggiungo questa determinazione “morto”, che però non cancella la prima: il fatto che sia morto non toglie il fatto che sia un uomo; posso dire che lo è stato, che lo sarà, tutto quello che mi pare, ma “uomo” permane. E, invece, no, lui preferisce che non sia, naturalmente per potere stabilire, senza peraltro riuscirci, con certezza qual è il limite, la delimitazione, ciò che consente di determinare. È retorica: già se parte da una premessa maggiore, cioè dall’universale, che non può essere in alcun modo sostenuto né argomentato da alcunché, è chiaro che tutto ciò che ne segue sarà altrettanto labile o quanto meno non necessario che sia. Nella migliore delle ipotesi, è possibile che sia, quindi, anche possibile che non sia. Quando qui Aristotele fa questi giochi – possibile che sia, non possibile che sia – si tratta di logica, non è più ontologia. A seconda di come spostiamo una parola, in questo caso nomi, cambia tutto quanto, cambia il segno della proposizione, ma rimane comunque una proposizione, che significa dopo tutto quello che voglio io. Nell’oscillazione tra ontologia e logica, l’ontologia scompare a vantaggio della logica, cioè, a vantaggio della possibilità di utilizzare sequenze più o meno formalizzate. Una sequenza formalizzata è una sequenza che di per sé non dice niente, enuncia una regola possibile – regola stabilita poi in base a che cosa questo è un altro discorso – una regola, dentro la quale ci posso mettere quello che voglio, ma fino a un certo punto, perché lui si scontra e si scontrerà sempre di più con il problema di fare coincidere quello che per la logica moderna è la differenza tra la validità e la correttezza. Affermare che, siccome in questo momento Cesare è in Polonia allora oggi è mercoledì, è logicamente valido – la prima affermazione è falsa e la conseguente è vera, quindi, l’implicazione è vera, ma non è corretto perché la prima è falsa. Ma falsa come? Lo è semanticamente, cioè, devo darle un significato, ma se non do un significato a queste formule, loro non significano assolutamente niente; tuttavia, se do loro un significato, diventa un problema perché a questo punto…

Intervento: Servirebbe la logica della logica.

Bravo. Una sorta di metalogica, e poi una logica della metalogica, e via dicendo. Vedremo bene come negli Analitici si scontra continuamente contro la necessità di formalizzare perché le cose quadrino, ma formalizzando quadra che cosa? Niente, nel senso che queste formalizzazioni mi dicono di una eventuale regola, che io intendo applicare. Tutto qui. Ma a che cosa? Se voglio saperlo devo utilizzare la semantica, dei significati. E dall’uno, che vorrebbe essere, ad esempio, una variabile enunciativa, che deve essere quella, per esempio una p, se voglio significarla compaiono i molti e non è più l’uno. Ed è questo che la logica ha cercato sempre di combattere: tenere l’uno e lontani i molti, i significati. Da qui la formalizzazione, che in fondo serve a togliere i significati, cioè, l’equivocità di ogni parola. Ciascuna parola è infinite parole. Se io voglio ridurle a una mi trovo di fronte a dei problemi. Certo, posso dire che è una, ma quando si tratta di determinarla, che succede? Coma la determino? È il problema di Platone con l’ente: bisogna togliere tutte le determinazioni, ma in questo caso scompare anche l’ente, e non c’è più niente da determinare. Questo non è un corso sul De Interpretatione, ciò che mi preme è intendere i problemi che ha incontrato Aristotele, e perché li ha considerati dei problemi, e in che modo a lui è parso di potere risolverli. Questo ci interessa.