4 settembre 2024
Plotino Enneadi
Siamo a pag. 1063. La materia è ciò che v’è di comune in tutte le essenze, non come genere, poiché essa non ha differenze, a meno che non si voglia vedere le differenze nel fatto che essa presenta ora una forma di fuoco ora una forma d’aria. Dunque, la materia è ciò che v’è di comune in tutte le essenze, c’è sempre. E questo è il problema, perché la materia per lui è non-essere; quindi, questo non-essere è sempre e comunque presente. A pag. 1069. Si domanda Il fuoco e l’aria non sono essenze? Certo, l’uno e l’altra sono essenza. Perché sono visibili? No. Perché hanno la materia? No. Perché hanno una forma? Neppure per questo. Ma nemmeno perché sono un insieme di queste due. Perché allora? Per l’essere. Ma anche la quantità “è” e anche la qualità “è”. Sì, diremo, ma si tratta soltanto di omonimia. Ma che vuol dire il verbo “è” nel fuoco, nella terra, in cose simili? E in che differisce, questo “è” da quello delle altre cose? /…/ L’essere che si aggiunge a bianco sarebbe identico all’essere senza aggiunta? No, l’essere senza aggiunta è l’essere di primo grado, l’altro, invece, è per partecipazione e secondario. Ha bisogno, di nuovo, di stabilire un essere primario e un essere secondario; l’essere primario è quello che riguarda l’Uno, l’essere secondario è quello che invece è viziato dai molti. E questa è una questione che compare sempre in Plotino, l’abbiamo già vista anche a proposito della sostanza. A pag. 1079. Dice, parlando dei relativi: In se stesso dici però il bello esiste; ma è più bello o il contrario se in relazione a un’altra cosa. Anche “grande” vale per se stesso e si accompagna a “grandezza”, ma non è più tale se viene riferito a qualche cosa d’altro. Altrimenti si dovrebbe negare il bello perché c’è un’altra cosa più bella; né dobbiamo negare che una cosa sia grande per il fatto che ce n’è un’altra più grande; anzi, non ci sarebbe nemmeno il “più grande” se non ci fosse il “grande”, e non si sarebbe il “più bello” se non ci fosse il “bello”. Qui è Platone, cioè, le cose che noi vediamo sono delle immagini, delle rappresentazioni, delle idee, che stanno lassù. A pag. 1081. I numeri, per il fatto che sono numeri, hanno in ciò il loro fondo comune: poiché non è l’unità che produce il due, né il due produce il tre, ma sono tutti la stessa cosa. E se essi non divengono ma sono e siamo noi che immaginiamo che divengano e che il numero più piccolo sia anteriore e il più grande sia posteriore, in realtà i numeri, in quanto numeri, cadono tutti sotto il medesimo genere. Qui lui riprende anche Aristotele. In effetti, tutti questi numeri hanno in comune il fatto di essere numeri, se ciascuno è un numero. Ma la cosa che interessa a lui in tutto ciò è il fatto che si tratta sempre di stabilire che esiste un qualche cosa, il numero, l’idea di numero, che poi si applica ai molti. C’è un Uno, questo Uno poi deborda, e da lì poi sorgono i molti. È come dire che dall’Uno, con la U maiuscola, sorgono tutti i numeri per processione, perché dall’uno io posso cominciare a contare; e quindi è come se di lì nascessero tutti i numeri; ma sempre a partire dal fatto che c’è l’Uno. Andiamo a pag. 1097. La contrarietà di due termini non esiste perché ci siano fra di essi degli intermedi, ma appartiene proprio ad essi: salute e malattia per il fatto di non accogliere intermedi sono due contrari. Al di là del fatto che ci sono anche gli intermedi, perché uno può stare più o meno bene, ma lui invece qui vuole distinguere, facendo delle volte anche degli esempi che c’entrano poco. Ancora qui, sempre sul relativo, a pag. 1099. In generale il “relativo” non è ciò che prima è e poi appartiene a un altro, ma è soltanto ciò che nasce dal rapporto e che, indipendentemente dal rapporto che gli dà il nome, è nulla in se stesso: il doppio, per esempio, viene detto doppio in quanto riceve la sua nascita e la sua esistenza dal raffronto col cubito; prima, non se ne aveva fatto la nozione. Soltanto in questo rapporto di una cosa per un’altra viene ad avere il suo nome e il suo essere. Anche qui lui si accorge di alcune cose, ma se ne accorge con l’unico scopo di poterle controllare. Dice che il relativo è ciò che nasce dal rapporto. Sì, certo, ma questo rapporto, per esempio, in Aristotele non segue gli elementi; nell’entelechia, ad esempio, la potenza e l’atto non seguono l’uno all’altro, ma sono simultanei. Per Plotino, no, c’è prima il rapporto fra i due, quindi, prima l’uno e poi l’altro, e poi la relazione. A pag.1117. C’è l’universo vero e c’è l’immagine dell’universo, cioè la natura di questo mondo visibile. L’Universo reale non è in null’altro, poiché non c’è nulla prima di esso; ciò che viene dopo l’Universo, se veramente dovrà esistere, sarà necessariamente in esso, anzi dipenderà adesso… Tutte queste cose di per sé non hanno grande interesse, ma per far notare come l’insistenza di Plotino su questo aspetto preciso, che c’è sempre un qualche cosa che necessariamente c’è e dal quale procedono le altre cose: questo deve esporlo interrottamente, non cessa mai di farlo. Infatti, qui dice, stessa pagina, In generale, se in questo Universo viene a trovarsi una cosa che sia diversa da Lui, essa partecipa di Lui e si unisce a Lui e riceve da Lui la sua forza; non lo divide certamente, ma lo trova in se stessa e gli si avvicina senza che mai Egli esca da sé, perché non è possibile che l’essere sia nel non-essere; semmai, è il non-essere nell’essere. Questa distinzione, che fa lui, è significativa. Dice che non è possibile che l’essere sia nel non-essere: qui la divisione è netta, è precisa. Se proprio qualcuno insiste, semmai lo dobbiamo proprio dire, allora è il non-essere nell’essere, perché l’essere contiene tutto, quindi contiene anche il non-essere. Ma il non-essere non può essere nell’essere. L’idea, che abbiamo già visto altre volte, che ci sia la possibilità dell’entelechia, cioè della simultaneità di un elemento e del suo contrario, è ciò che in tutta la sua opera Plotino tenta di arginare, affinché non ci sia questo pericolo. Abbiamo visto forse la volta scorsa che se l’Uno fosse auto contraddittorio, cioè contenesse il suo contrario, non sarebbe la verità, non sarebbe l’Uno, non sarebbe Dio. A lui interessa che l’Uno sia incontaminato, identico a sé, quindi, assolutamente senza contraddizione. Tutte le contraddizioni sono a seguire, nell’Intelletto e nell’Anima. A pag. 1123. Perciò l’unità dell’anima non esclude la molteplicità delle anime, così come l’Essere non esclude gli esseri, né la molteplicità del mondo intellegibile è in contrasto con l’unità; né dobbiamo ammettere le molteplicità delle anime per riempire di vita i corpi, e nemmeno dobbiamo credere che la molteplicità delle anime sia dovuta all’estensione corporea; invece, anche prima dei corpi, esistono sia molte anime, sia l’Anima unica. C’è sempre questo aspetto, cioè, prende un elemento - può essere l’anima, la sostanza, qualunque cosa - e dice che è molteplice, che contiene i molti, ma c’è l’altra anima che invece è unica. Questo aspetto è ininterrotto nel discorso che fa Plotino. A pag. 1129. Perciò quando tu dici “uno in molti”, tu non intendi dire che esso sia diventato molteplice, ma attribuisce a quell’uno la maniera d’essere dei molti, poiché vedi nello stesso tempo l’uno nei molti. bisogna però intendere “uno nei molti” non come se esso appartenga ai molti… Che sarebbe la tragedia. …né singolarmente né nel loro insieme: quell’uno, invece, appartiene soltanto a se stesso ed è se stesso e non si abbandona mai. Tu dici “uno in molti”; no, in realtà tu vuoi dire che lo vedi molteplice, ma questo vederlo molteplice è fallace, perché l’Uno non può essere nei molti, perché l’Uno appartiene soltanto a se stesso; quindi, se fosse in molti, apparterrebbe a tutti questi molti, ma, appartenendo soltanto a se stesso, è identico a sé, è, in altri termini, è la verità epistemica. Siamo al quinto trattato. A pag. 1147. Ciò che è “uno e numericamente identico” possa essere tutto intero sempre e in ogni luogo, lo ammette la nozione comune… Ogni tanto anche lui si aggancia alla doxa quando non sa bene dove andare a cercare. …quando tutti spontaneamente parlano del Dio che è in ciascuno di noi come di un “uno e identico”. Tutti quanti parlano di questo Dio in questo modo, quindi, è così: vox populi, vox Dei. E poiché non si può chiedere a loro il modo in cui quel dio è presente, e nemmeno si ha la voglia di esaminare criticamente la loro opinione, essi sostengono semplicemente che è così e, fermandosi a questo pensiero, si basano sull’uno e identico e mai vorrebbero essere separati da questa unità. E questa è la questione interessante, perché dice anche perché ha funzionato questa cosa, perché uno non vuole separarsi da questa unità, che sente in sé – questa unità, cioè, questa verità – che sente dentro di sé e a cui non vuole rinunciare per niente al mondo. Ed è questo il più solido principio di tutti che le nostre anime in qualche modo enunciano;… Tutte le nostre anime enunciano questa cosa qua. …è un principio che non viene dedotto da casi particolari ma che è anteriore ad essi ed è anzi anteriore al principio che sostiene afferma che tutte le cose tendono al Bene. E infatti questo principio sarà vero soltanto a condizione che tutto aspiri all’Uno e l’Uno esista e l’aspirazione tenda a Lui. Se tutto quanto tende all’Uno – che, tra l’altro, è una petizione di principio – allora vuol dire che l’Uno esiste, perché ogni cosa tende all’Uno. E questo lui lo chiama il principio più solido di tutti, cioè il fatto che le nostre anime lo enunciano continuamente perché vogliono questo Uno, aspirano a questo Uno: dunque, l’Uno esiste. Sembrano delle scempiaggini, ma tenete conto che sono le questioni su cui si è fondato e continua a fondarsi il discorso occidentale. E questo vi dovrebbe indurre a maggiore rispetto. Questo Uno, certamente, procede, per quanto gli è possibile, verso le altre cose… Come per quanto gli è possibile? Ma non era onnipotente? Prima può tutto, adesso invece procede per quanto gli è possibile; sembra dire che fa quello che può. …appare molteplice e in qualche modo anche lo è; ma l’antica natura e l’aspirazione al Bene, vale a dire a se stesso, conducono realmente all’Uno, e a Lui – e cioè a se stessa – tende ogni natura. Perché ogni natura è fatta dell’Uno, quindi, tendendo all’Uno, tende anche a se stessa. Per ogni singola natura, infatti, il bene consiste nell’appartenere a se stessa e nell’essere se stessa: cioè nell’essere una. Per ogni singola natura il bene consiste in questo: ciascuna cosa è quella che è per virtù propria, in quanto appartiene a se stessa. Il famoso λέγειν τί κατά τίνός, il dire che è un dire qualche cosa per qualche cos’altro, qui non c’è più, perché la cosa vive per sé stessa, ripiegata su se stessa; poi, in questo ripiegamento ogni tanto deborda qualche cosa ed ecco apparire gli enti. Altrettanto con ragione si dice che il Bene è proprio dell’Essere: perciò non bisogna cercarlo al di fuori. Dove, infatti, potremmo trovare un bene che sia fuori dell’essere? Cioè, un bene che non è. E come si potrebbe trovare il proprio bene nel non-essere? È ovvio che esso va trovato nell’essere perché non è non-essere. Se esso esiste ed è nell’essere, esso sarà in ogni cosa in se stessa. Perché ogni cosa partecipa dell’essere. Noi, dunque, non siamo separati dall’essere ma siamo in Lui ed Egli non è separato da noi: tutti gli esseri sono perciò Uno. Noi non possiamo essere separati dall’essere, in nessun modo, perché siamo e, quindi, siamo esseri; e questo essere è qualche cosa che, in definitiva, riguarda l’Uno. Tutto ciò è stato poi ripreso dal cristianesimo: tutti quanti apparteniamo a Dio, siamo compresi in Dio, perché lui comprende tutto, quindi, anche noi. A pag. 1161. E poi bisognerebbe riflettere sul modo in cui le nostre anime raggiungono il Bene: non è vero che io raggiungo un bene e tu un altro; noi raggiungiamo ambedue lo stesso Bene, e lo raggiungiamo non perché una corrente scenda di lassù su di me e un’altra su di te, in modo che il Bene sia in alto e le sue derivazioni stiano quaggiù; no, ma è necessario che Colui che dona sia presso coloro che ricevono affinché questi ricevano realmente; e Colui che dona, non dona ad estranei, ma ai suoi. Come il cristianesimo ha aggiustato questa cosa, poi lo vedremo, ma in linea di massima è una cosa che per il cristianesimo comporta qualche problema, come dire che ci sono i suoi prediletti, gli eletti, e poi c’è la marmaglia. Chi sono i prediletti per il cristianesimo? Sono quelli che sono in grazia di Dio; quelli che, invece, hanno perso la grazia di Dio, per vari motivi, cioè apostasia o per anatemi, ecc., sarebbero gli estranei, cioè, quelli che volontariamente hanno abbandonato Dio. A pag. 1165. Tu sei già arrivato nel Tutto e non indugi più in una sua parte e non dici più di te stesso: “Come sono grande!”, ma lasci da parte questa grandezza per diventare “tutto”. Eppure eri “tutto” anche prima;… Nietzsche: “Diventa ciò che sei”, che è un enunciato gnostico. …ma poiché ti sei aggiunto qualcosa d’altro oltre il tutto, tu, proprio per questa aggiunta, sei diventato piccolo, poiché l’aggiunta non veniva dal Tutto - al quale non si può aggiungere nulla! - bensì dal non-tutto. Ma se uno si è fatto qualcuno per mezzo del non-essere, egli è non-tutto, e sarà tutto quando avrà eliminato il non-essere. Cioè, la materia. Quindi, io sono già il tutto. Se mi allontano dal tutto, mi allontano da Dio, ecco che, come dice Plotino, divento più piccolo. Se io cerco – questo poi avverrà nel Medioevo, con la teologia medioevale – di dare delle definizioni di Dio, lo rimpicciolisco, lo riduco a una cosa che ha delle proprietà. Da qui la teologia negativa: posso dire soltanto ciò che Dio non è; scordando che posso dire ciò che Dio non è a partire da ciò che presuppongo che sia. A pag. 1169. La molteplicità è una defezione dall’Uno e l’infinità è una defezione completa, poiché essa è una molteplicità innumerabile? E perciò l’infinità è un male e noi siamo cattivi quando siamo a molteplicità? I molti sono i cattivi, diceva Platone. Una cosa diventa molteplicità quando. Incapace di essere d’accordo con se stessa, esce da sé e si disperde; e se in questo suo disperdersi viene privata totalmente dell’uno, essa diventa molteplicità, in quanto viene a mancare chi unifichi ogni sua parte con le altre; se, invece, disperdendosi sempre, persiste, diventa grandezza. Quindi, misurabile, quindi, molteplici, i molti. Ma che c’è di grave per una cosa nel diventare grandezza? Sarebbe grave se ne avesse coscienza, perché allora si accorgerebbe di aver defezionato da se stessa e di essere andata lontano. Ogni cosa, infatti, non cerca un’altra, ma se stessa, perché il viaggio fuori di sé è vano, a meno che non si faccia per necessità. Qui c’è una cosa interessane. Dice: viaggio fuori di sé è vano. Qui c’è tutta la psicologia. Non il viaggio fuori di sé, ma il viaggio deve essere dentro di sé: si viaggia dentro di sé e si scopre se stessi. Questa idea balzana è un’invenzione di Plotino, quindi del neoplatonismo e dopo nel cristianesimo, naturalmente; si dice anche: trova te stesso in Dio. Plotino dice che il viaggio fuori di sé è vano, l’unico viaggio che conta, quello importante, è quello dentro di sé. Ma dentro di sé che cosa si trova? Se si è aperti, si trova l’Uno; perché io vengo dall’Uno, quindi, l’Uno c’è ancora dentro di me in qualche modo e, guardandomi dentro, lo scopro. Ognuno è maggiormente se stesso, non quando sia molteplice e grande, ma quando appartenga a se stesso;… Diventa ciò che sei, riappropriati di te stesso: tutto il ‘900 è fatto di questi messaggi, che sono prettamente neoplatonici, direi addirittura gnostici. C’è una sfumatura, che è qualcosa di più di una sfumatura, gnostica, perché, se io guardo dentro di me, allora raggiungo la conoscenza, eritis sicut dii. Il desiderio di grandezza, in questo senso, è proprio di chi ignora la vera grandezza e tende a ciò che non è necessario ma all’esteriore. Quando dicevamo “su se stesso”, intendevamo appunto l’interiorità. Interiorità su cui poi il cristianesimo ci ha costruito tutte le storie. E conclude il primo capitolo con questa frase, che è significativa: Il grande, quanto più è disordinato, tanto più è brutto. C’è uno scritto di Agostino sulla bellezza, Ordine e bellezza. In fondo, per il neoplatonismo ordine e bellezza sono la stessa cosa. Il disordine è il brutto, perché l’ordine è l’Uno, è l’ordinato: ogni cosa è al suo posto, le cose stanno come devono stare. Lo diceva in qualche pagina prima: le cose sono così perché sono così nell’Uno, e se sono così nell’Uno vuole dire che è giusto che siano così. Invece, il grande, quanto più è disordinato, tanto più è brutto. A pag. 1177. Anzitutto, dobbiamo comprendere, in via generale, che l’essenza delle idee non esiste perché un pensante le abbia prima pensate e poi, col suo pensiero, abbia dato ad esso l’esistenza. Esattamente il contrario di ciò che diceva, per esempio, Gentile: quando io penso, penso il mio pensiero, non c’è un’altra cosa che posso pensare. La giustizia non nacque perché uno abbia pensato che cosa sia la giustizia, né ebbe origine il movimento perché uno abbia pensato che cosa sia il movimento. Questo pensiero, infatti, deve essere posteriore alla cosa pensata – cioè, il pensiero della giustizia rispetto alla giustizia stessa – e, d’altra parte, il pensiero dovrebbe essere anteriore alla cosa che venne all’esistenza, per opera del pensiero, se essa esistette perché fu pensata. Ma se la giustizia viene a identificarsi col pensiero corrispondente, è assurdo anzitutto che la giustizia non sia che la sua definizione. È assurdo che una cosa non sia altro che la sua definizione. Vi ricordate le categorie di Aristotele? Aristotele afferma esattamente questo: ciascuna cosa, la sostanza, l’ούσία, è esattamente proprio ciò che se ne dice. Per Plotino no, questo diventa assurdo. Che vuol dire, infatti, aver pensato la giustizia o il movimento se non che ti ha intuito ciò che essi sono? Si è intuito? Come? È impossibile, infatti, cogliere il concetto di una cosa che non esiste. Quindi, se la penso, esiste necessariamente. A pag. 1185. Perciò, se le cose sono in quella quantità non a caso, il numero anteriore ed è causa di quella precisazione. Prima c’è il numero… perché il numero viene da Dio. Cioè: mentre il numero già esisteva, le cose che nascevano partecipavano via via della enumerazione, e nello stesso tempo, ciascuna di esse partecipava dell’uno per poter essere una. A pag. 1189. Ma se si dicesse che l’uno è l’unità non hanno esistenza perché non esiste alcuna unità che non sia una determinata unità… Di nuovo, Aristotele: non c’è forma senza la sostanza. …e si pensasse che l’uno sia semplicemente un’affezione dell’anima rispetto a un singolo ente,… Un’affezione dell’anima, qui riprende Aristotele sull’interpretazione: i segni sono affezione dell’anima, cioè, sono ciò che noi diciamo. …che cosa impedirebbe anzitutto di dire che l’essere è solo un’affezione dell’anima e che non esiste essere alcuno? Cosa impedisce? Infatti, nulla impedisce. Per Aristotele difatti è così: questo essere come verità assoluta, come verità epistemica, non esiste, è un’invenzione. Plotino compie l’operazione quasi inversa: se si dicesse che l’Uno non ha esistenza perché non esiste alcuna unità senza una determinata unità, allora si giunge a concludere che anche l’essere non esiste. Il che è vero. Se poi si afferma che l’essere tocca e scuote l’anima e produce così rappresentazione di sé, diremo che anche riguardo all’uno noi vediamo che l’anima ne è toccata e ne accoglie la rappresentazione. Inoltre, questa affezione o idea dell’anima la vediamo una o molteplice? Qui è scivolato dalla questione dell’uno e dell’essere, che evidentemente era ostica, alla questione dell’anima, che invece si maneggia più facilmente. Se diciamo che non è una, noi dalla cosa stessa non possiamo ricavare l’uno, poiché dichiariamo che l’uno in essa non c’è: perciò possediamo l’uno in quanto è nell’anima senza che esso sia un uno particolare. Cioè, ricaviamo l’uno perché possediamo l’uno, che è nell’anima, ma nell’anima questo uno non è un uno particolare, è l’idea di uno; quindi, l’uno preesiste. Sembrano così evidenti. Ma noi – diranno (i detrattori) –possediamo l’uno perché ne abbiamo tratto dalle cose esterne una certa nozione o impronta: l’uno, cioè, è un certo concetto ricavato dalla cosa stessa. Coloro che pongono i due concetti dei numeri e dell’uno come una classe di ciò che chiamano “concetto”, dovrebbero accettare anche le esistenze corrispondenti, sempre che qualcosa del genere rientri nell’esistenza; e su questo punto potremmo fare mille obiezioni contro di loro. Non le fa, però potremmo… Ora, se essi dicono che una tal cosa, affezione o pensiero, è entrata in noi, solo in un secondo momento, dalle cose (per esempio, “questo” o “qualcosa”, ed anche “folla” o “festa” o “esercito” o “moltitudine”); poiché, essi dicono, come la “moltitudine”, se prescindiamo dalle cose che son dette molte, ed è nulla la festa, se prescindiamo dai fedeli, che fluiscono gioiosamente… /…/ …e molte altre cose consimili essi nominano, come “destro” e “alto” è i loro contrari; che hanno a che fare con l’esistenza l’espressione “a destra” o il fatto che uno stia qui e un altro lì, in piedi o seduto? /…/ Contro simili affermazioni dobbiamo dire anzitutto che ciascuna delle cose citate ha una sua propria esistenza... Nessuno lo ha negato, ma soltanto che questa esistenza viene dalla relazione con altro. …la quale ovviamente non è uguale per tutte, poiché manca sia il loro reciproco rapporto, sia il loro riferimento all’Uno. Dobbiamo comunque affrontare ad una ad una le obiezioni mosse. Quindi, contro simili affermazioni cosa dobbiamo dire, si chiede Plotino. Ciascuna delle cose citate ha una sua propria esistenza, la quale ovviamente non è uguale per tutte, poiché manca sia il loro reciproco rapporto sia il loro riferimento all’Uno. Cioè, tutte queste cose citate mancano del riferimento all’Uno, quindi, sono stupidaggini. A pag. 1203. Che significato ha il numero cosiddetto infinito? I nostri argomenti, infatti, gli fissano un limite. E giustamente, se il numero è veramente numero, poiché l’infinito è in contrasto con il numero. E allora perché diciamo: “il numero è infinito”? Ma come parliamo di “linea infinita” (noi però diciamo “linea infinita” non perché essa sia tale, ma perché è possibile, dopo un molto grande come quella dell’universo, pensarne una ancora più grande), così è pure del numero? Perché è difficile pensare a un certo punto che è talmente grande che viene difficile pensare qualcosa di finale. Infatti, se sappiamo quanto ammonti, possiamo sempre raddoppiarlo senza toccarlo in se stesso: poiché ciò che è, soltanto in te. pensiero e rappresentazione, come potresti aggiungerlo agli esseri? Qui, di nuovo, sottolinea ciò che è in te, che tu senti, che è qualcosa che soltanto tuo, che quindi è fuori da ogni argomentazione e da ogni argomentabilità. Diremo forse che fra gli intelligibili c’è la linea infinita? Sì, la linea infinita è un’idea, un concetto, quindi, è un intelligibile. Perché, altrimenti, la linea di lassù dovrebbe avere una certa lunghezza. Ma se essa non ha una certa lunghezza numerabile, dovrà essere infinita. Questa è la sua argomentazione: perché non c’è la linea infinita? Perché altrimenti la linea di lassù se ne ha a male; perché non è numerabile quella di lassù, quindi non può essere infinita. A pag. 1205. Ma nel mondo intelligibile il numero è limitato; ma noi ne pensiamo sempre uno maggiore di quello dato, e, per questa ragione, l’infinito è un risultato del nostro contare. Ma lassù non si può pensare un numero maggiore di quello pensato, poiché esso esiste già: non ci fu mai né ci sarà mai un numero tale che possa essergli aggiunto. Anche lassù, tuttavia, il numero potrebbe essere infinito, poiché non è misurato. Da chi lo sarebbe? Quello che è, è tutto, poiché è uno, tutt’insieme e intero, non racchiuso da nessun limite, ed è quello che è perché è in se stesso; poiché nessuno degli esseri è, in generale, chiuso da limiti, mentre ciò che è limitato e misurato si trova impedito nella sua corsa verso l’infinito e ha bisogno di misura; ma quegli esseri superiori sono tutti “misure” e perciò sono tutti belli. Perché sono ordinati, sono misurati; il bello come prodotto del vero. Bello è infatti il Vivente come tale, poiché possiede una vita perfetta e non è privo di nessuna vita. Egli possiede la vita senza misura di morte, senza alcunché di morte e di mortale; neppure la vita del Vivente stesso è debole, è anzi la vita prima è chiarissima che possiede lo splendore della vita come la prima luce di cui vi vivono le anime di lassù e da cui attingono le anime che scendono quaggiù. Si sa che lassù c’erano le anime, che andavano verso gli dei con il cocchio; poi, incidenti vari, si spezzano le ali e vengono giù. Platone la mette meglio, io ve l’ho fatta un po’… Siamo al Trattato 7. Il titolo, che mette Plotino, dice Come è nata la molteplicità delle idee: Il Bene. Ma, come avrete notato, sicuramente, in tutte queste cose che sta dicendo Plotino, dove il discorso si fa complesso, lui lo raggira, lo evita, come fa un retore. Quando c’è qualche cosa e avverte che potrebbe risorgersi contro di lui o che creerebbe qualche difficoltà, immediatamente scivola via. Lo abbiamo visto prima riguardo all’uno e all’essere, immediatamente si rivolge all’anima, che è più facile da maneggiare. Questo per sottolineare ancora una volta un aspetto importante delle Enneadi. Le Enneadi sono propaganda. Plotino insegna come fare propaganda, un insegnamento che poi il cristianesimo ha fatto suo, ampliato e praticato per duemila anni. Lui ci ha detto come si costruisce la propaganda, ne abbiamo forse accennato: si muove da qualcosa che non può essere negato perché non è dimostrabile; quindi, qualunque cosa, posta come ipostasi, va benissimo. Questa cosa non si può argomentare, ma deve essere sentita dentro; dando a chi non la sente la colpa di non essere all’altezza, di non avere, come direbbe Agostino, ricevuto la grazia. A questo punto si fornisce a ciascuno la possibilità di avere in sé una verità assoluta, inconfutabile. Ecco la potenza dell’ars oratoria di Plotino. ciascuno che utilizza, senza dire mai, naturalmente, ma che utilizza anche delle figure gnostiche. Questa idea di avere Dio, quindi, di essere Dio, in fondo. Plotino nega questa cosa perché nessuno è l’Uno, ci si avvicina quanto si vuole, ma non è mai l’Uno. Questa cosa è stata ripresa poi da Popper: ci si avvicina alla verità, ma non la si raggiungerà mai. Però, questa idea è stata ed è ancora l’idea vincente: ciascuno conosce la verità perché la sente, quindi, sa; quindi, tutto ciò che crede essere vero, non lo argomenta perché lo sente, perché ciò che lui crede essere vero diventa ciò che sente come vero: quindi, è vero perché lo sento.