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4 settembre 2019

 

Fenomenologia dello spirito di G.W.F. Hegel

 

Siamo pag. 193, al Capitolo V che si chiama Certezza e verità della ragione. Leggiamo questa prima pagina che è importante. Nel pensiero, ch’essa ha attinto, che la coscienza singola è, in sé, essenza assoluta, la coscienza ritorna in se medesima. Quando si accorge di essere essenza di sé ritorna su di sé e prende atto di questa cosa. Per la coscienza infelice l’esser-in-sé è l’al di là di se stessa. Ma il movimento di tale coscienza ha compiuto in lei questo: di aver posto la singolarità nel suo completo sviluppo, o la singolarità che è coscienza effettuale, come il negativo di lei stessa, vale a dire come l’estremo oggettivo; di aver svincolato da se stesso il suo esser-per-sé, e di averne fatto un essere; in tale passaggio si è sviluppata per la coscienza anche l’unità sua con questo universale, - unità che, - il Singolo tolto essendo l’universale, - per noi non cade più fuori della coscienza; e che, - mantenendosi la coscienza in questa sua negatività, - costituisce nella coscienza come tale la sua essenza. Mentre nella coscienza infelice si mantenevano questi due opposti ben separati, tant’è che l’uno era l’aspetto animale, l’altro invece era l’al di là, il divino, ma sempre distanti, perché l’uomo non può essere dio. In questo processo, ci dice Hegel, la coscienza si è accorta in qualche modo di sé, dell’universale che essa rappresenta; come se lo stoicismo, lo scetticismo, la coscienza infelice, cioè, il discorso religioso, fossero stati tutti passaggi nella storia del pensiero, dello spirito, come dice lui, quasi necessari per fare in modo che la coscienza, passo dopo passo, acquisisse se stessa in modo sempre più preciso, sempre più determinato. Ciò che sta dicendo, e lo vedremo anche nelle pagine successive, è il passaggio da tutto ciò alla ragione, che rappresenta il momento in cui la coscienza diventa non solo autocoscienza che ritorna nella coscienza ma prende atto che questo movimento è il suo, che questo movimento è lei stessa, non è un qualche cosa che acquisisce dall’esterno o che le accade, ma che lei stessa è fatta di questo movimento continuo. A pag. 194, dove parla dell’idealismo. Ma come ragione l’autocoscienza, fatta sicura di se stessa, ha assunto verso quei due negativi un atteggiamento di quiete e li può sopportare; essa è infatti certa di se stessa come realtà, ossia è certa che ogni realtà non è niente di diverso da lei;… Quindi, non c’entra più la realtà assoluta, dio, l’al di là, da qualche parte, ma si rende conto che la realtà è tutta la realtà. Kojève riporta la frase tedesca An sich alle Realität, in sé tutta la realtà, usando il termine tedesco Realität e non Wirklichkeit: Realität è la realtà effettuale, ciò con cui ho a che fare continuamente. Quindi, la ragione come tutta la realtà. Intendendosi a questo modo, quella autocoscienza viene a trovarsi in tal condizione come se il mondo le si presentasse ora per la prima volta. Punto 3. La ragione è la certezza della coscienza di essere ogni realtà… Adesso qui occorrerebbe verificare l’originale tedesco, ma probabilmente parla di Realität e non di Wirklichkeit. …così l’idealismo esprime il concetto della ragione. Anche questo è come una sorta di passaggio. Lui se la prende un po' con Fichte, il quale mantiene questi due opposti in modo tale che l’Io diventa, sì, tutta la realtà ma questa realtà è soltanto il prodotto dell’Io. Per Hegel, invece, la questione non è posta in questi termini perché dicendo che la realtà intesa come Realität, è qualche cosa che è prodotta e pensata dall’Io e basta, mantiene questi due negativi come opposti; mentre, come dicevo, per Hegel non è così, questi due opposti devono integrarsi in una sintesi, per cui non c’è più l’Io e la realtà, come pensava Fichte, ma c’è una nuova cosa, un nuovo mondo, una nuova cosa che appare e che dice che Io e la realtà siamo lo stesso, che è poi ciò che Heidegger dirà, e cioè che ciascuno è il mondo in cui è inserito, di cui è fatto. A quel modo che la coscienza sorgente come ragione ha in sé immediatamente quella certezza… Cioè: di essere la realtà. …in modo non diverso anche l’idealismo immediatamente la esprime: Io sono Io, nel senso che Io il quale mi è oggetto, è oggetto proprio con la coscienza del non-essere di qualsiasi altro oggetto;… Dicendo “Io sono Io” sto dicendo che non sono un’altra cosa. …è oggetto unico, è ogni realtà e presenzialità: - non dunque come nell’autocoscienza in generale, e neppure come nell’autocoscienza libera:… Ma l’autocoscienza non è ogni realtà sol per sé, bensì anche in sé (an sich), tosto che divenga questa realtà o anzi come tale si dimostri. Essa si dimostra così durante il cammino dove, da prima, nel movimento dialettico dell’opinione, della percezione e dell’intelletto, dilegua l’esser-altro come in sé; e poi così dimostrasi durante il cammino dove, nel movimento attraverso l’indipendenza della coscienza in signoria e servitù, attraverso il pensiero della libertà, attraverso la liberazione scettica e la lotta di liberazione assoluta della coscienza scissa in se stessa, l’esser-altro per essa stessa dilegua in quanto è solo per essa. La coscienza, cioè, si accorge di essere solo per se stessa, non è più per altro; questo per altro è dileguato, nel senso che questo esser-per-altro viene integrato nella coscienza, che quindi è in sé e per sé: non c’è più la separazione. Lui insiste in questo cammino, lo cita due o tre volte: tutto questo è un cammino, è un processo, un procedere. Poi, critica ancora Fichte. Punto 4, a pag. 196. L’idealismo che invece di presentare quel cammino, comincia con quell’affermazione, è dunque soltanto un puro asseverare che né riesce a concepire se stesso, né può rendersi concepibile ad altri. L’idealismo enuncia una certezza immediata alla quale stanno di contro altre immediate certezze che peraltro, durante quel cammino, sono andate perdute. L’idealismo enuncia, sì, una certezza, però ci sono anche delle altre certezze. Queste altre certezze, che dileguano nell’idealismo, sono state necessarie lungo questo cammino per potere giungere alla certezza che afferma “Io sono Io”. La ragione fa appello all’autocoscienza di ogni e qualunque coscienza: Io sono Io; mio oggetto e mia essenza è: Io; e nessuna coscienza smentirà alla ragione questa verità. Io sono Io, ma questa verità è una certezza che è il risultato di un cammino, non è qualcosa che si impone, che piomba dal cielo, è il risultato di un processo dialettico dove la coscienza è ritornata in sé e si è resa conto di essere se stessa, di non dipendere più dall’altro, perché l’altro è dileguato in sé, non è più contrapposto. Ma poiché la ragione fonda la verità sopra questo suo appello, essa sanziona la verità dell’altra certezza, vale a dire di quella che suona: c’è per me un Altro; altro dall’Io mi è oggetto ed essenza; ossia: mentre Io mi sono oggetto ed essenza, io lo sono soltanto in quanto mi ritraggo dall’altro in generale, e mi metto accanto a lui come un’effettualità. Se io mi metto accanto a lui come un’effettualità, è chiaro che rimaniamo due oggetti contrapposti. Soltanto quando la ragione, come riflessione, si solleva da questa opposta certezza, la sua affermazione di sé si presenta non solo come certezza e come asserzione, ma anche come verità; e non accanto ad altre verità, ma come l’unica verità. L’immediato sorgere della verità è l’astrazione del suo esser-presente del quale essenza ed essere-in-sé sono assoluto concetto, vale a dire il movimento del suo esser-divenuto. È sempre il risultato di una integrazione. Poi, pone la questione delle categorie. C’è l’Io che si pone come se stesso, però l’Io vede anche molte altre cose, molte altre categorie. Tuttavia, ciò che interessa a Hegel è che tutte queste altre categorie, di fatto, appartengono già all’Io, sono già nell’Io. Questa è una questione importante in tutta la Fenomenologia: non c’è un andamento, un percorso temporalmente lineare, ma c’è sempre un ritornare su se stesso tale per cui ciò che viene dopo è la condizione di ciò che viene prima. È questo che lo porta a dire che la ragione non è un qualche cosa che interviene dopo – i passaggi che fa li fa a scopo descrittivo – ma la ragione viene prima. Perché ci siano tutti questi passaggi, che abbiamo visti, è necessario che ci sia la ragione, cioè il risultato, la fine, l’ultimo elemento: l’ultimo elemento è la condizione perché ci sia il primo. Questo, forse, lo avevamo già visto nella Prefazione. È questa la cosa importante da tenere presente nella Fenomenologia: ciò che appare, il fenomeno, ha come condizione, per Hegel, la ragione; è perché c’è la ragione che possono avvenire tutti questi passaggi, questo cammino. Questo ci rimanda in modo interessante a ciò che diceva Severino. Ricordate “la lampada che è sul tavolo”? “La lampada che è sul tavolo” è il concreto. Certo, è fatto di astratti, ma questo concreto è ciò che appare. È vero che io devo conoscere gli astratti, ma in realtà quegli astratti, che io conosco e come condizione perché possa cogliere il concreto, non sono quegli astratti che io colgo nel concreto. Ecco la questione della Fenomenologia: da una parte, è vero che io devo sapere che cos’è una lampada e che cos’è un tavolo, che in questo caso sono astratti, ma dicendo “questa lampada che è sul tavolo” questi astratti, la lampada e il tavolo, non sono gli astratti di cui parlavo prima, sono un’altra cosa. È un concetto complesso ma fondamentale per intendere tutta la questione della Fenomenologia; che ci porta a considerare un’altra cosa ancora, e cioè: in che modo mi appaiono le cose, in che modo si manifestano? Ciò che fino ad ora ci ha raccontato Hegel – si può leggere la Fenomenologia come un romanzo – ci dice che le cose che vediamo sono per noi, sono nella coscienza, solo in questo modo le cogliamo, in quanto sono nella coscienza, in quanto sono nel linguaggio. Ora, tenendo conto dell’esempio di Severino, ciò che mi appare che cos’è? “Questa lampada che è sul tavolo” che cos’è in realtà? È un racconto, vale a dire, tutti questi elementi sono presi in una struttura, in un concreto, in cui si raccontano, si dicono e, dicendosi, pongono una questione, e cioè che ogni cosa che appare in quanto racconto. “Questa lampada che è sul tavolo” mi appare in quanto inserita in questo racconto di questa lampada che è sul tavolo. È un raccontino piccolo, ma pur sempre un racconto. La questione ancor più interessante da porsi è questa, e cioè l’eventualità che la condizione che qualunque cosa appaia è che sia un racconto, per cui solo a questa condizione qualcosa appare. Questo è in accordo anche con ciò che dicevo del fenomeno: il fenomeno appare ma appare in seguito a un percorso, a un cammino, è un risultato, il risultato di un cammino dove ciò che mi appare fa sì che l’inizio di tutto questo cammino sia. Derrida era andato vicino a questa questione ma l’aveva svolta sino a un certo punto. Ma ciò che interessa è proprio questo aspetto preciso, quello del fenomeno e di come intendere tutta la fenomenologia. La fenomenologia è l’apparire di qualcosa in quanto racconto, in quanto si racconta, nel senso che è soltanto perché è un racconto che esiste per me. Infatti, parla di “esiste per me”, “esiste per noi”, che, come dicevo prima, non è lontano da ciò che diceva Heidegger rispetto al mondo: qualcosa esiste perché è nel mondo, che io sono. D’altra parte Heidegger conosceva molto bene Hegel. Quindi, ogni cosa che mi appare mi appare perché è un racconto, un racconto che mi appartiene, di cui io sono fatto. In questo senso possiamo intendere ciò che Hegel diceva all’inizio: questa cosa è per me perché è nella mia coscienza, quindi, è per me qualcosa. È la stessa questione. A pag. 198, Punto 6. Ora, siccome alla ragione appartengono e la pura essenza delle cose e la loro differenza… Le cose sono in quanto tali perché differiscono da altro. …non si potrebbe propriamente più parlare di cose… Perché appartengono alla ragione. Questa è una critica anche a Kant. …vale a dire di un alcunché il quale per la coscienza sia soltanto il negativo di se stessa. È importante che ci sia il negativo di se stessa, ma questo negativo deve essere integrato nella cosa, non rimane come negativo a sé stante. È il discorso che faceva Severino del soggetto e del predicato: se è soggetto non è predicato, dove il predicato sarebbe il negativo del soggetto. Che se le molte categorie sono specie della categoria pura, questa è il loro genere o la loro essenza, e non è opposta a loro. Sta dicendo che tutte queste categorie che negherebbero l’unità della cosa, in realtà, appartengono già alla cosa, sono già lì. Cosa diceva Heidegger? Diceva che noi siamo già nel linguaggio, non è che a un certo punto ci siamo, nasciamo nel linguaggio, siamo già lì. Quindi, tutte queste differenze sono già tutte lì. A pag. 199. Ma questo altro di tale categoria… Ogni categoria ha sempre un altro che gli si oppone. …sono soltanto le altre prime categorie, vale a dire l’essenza pura e la differenza pura; e in quella categoria, cioè appunto nell’esser-posto dell’Altro o in questo Altro stesso, la coscienza è altrettanto lei stessa. La coscienza è anche questo Altro e, quindi, non gli si oppone più, ma diventa lei stessa. La categoria pura rinvia alle specie, le quali passano nella categoria negativa o nella singolarità; ma quest’ultima rinvia a quelle: essa stessa è pura coscienza che in ogni specie resta a sé questa chiara unità con sé, unità la quale, non di meno, vien richiamata ad un Altro che, mentre è, è dileguato, e mentre è dileguato, è di nuovo prodotto. È il movimento della dialettica: qualcosa dilegua ma viene integrata, ma in questa integrazione qualcosa di nuovo si pone come Altro, e così via. Ma non rimane mai come Altro separato; sarebbe in questo caso la coscienza infelice, il discorso religioso. A pag. 199, Punto 7. Qui noi vediamo la coscienza pura posta in duplice modo; posta, cioè, la prima volta come l’inquieto va e vieni che percorre tutti i suoi momenti nei quali le aleggia quell’esser-altro che si toglie nell’atto stesso dell’attingerlo; posta, la seconda volta, piuttosto come l’unità quieta e certa della sua verità. Per questa unità quel movimento è l’altro, mentre per tale movimento l’altro è quella quiete unità; e coscienza e oggetto si alternano in queste reciproche determinazioni. Questa è una critica che fa all’idealismo soggettivo, l‘idealismo vuoto, come dire che permangono entrambe queste due cose, un po' come accadeva nello scetticismo che oscilla tra i due estremi. Ma la coscienza, come essenza, è proprio questo intero decorso; uscire da sé come categoria semplice e passare nella singolarità e nell’oggetto per contemplare in esso questo decorso; togliere l’oggetto come distinto, per farlo proprio e per proclamarsi tale certezza di essere ogni realtà, e se stessa e il proprio oggetto. Vedete che qui rimane se stessa e i il proprio oggetto, non c’è integrazione, ma rimangono due cose distinte. Infatti, questa è la critica che fa a Fichte. La sua prima enunciazione è solo questa parola astratta e vuota che tutto è suo. Il mio pensiero crea tutto. Infatti la certezza di essere ogni realtà è solo la pura categoria. Questa prima ragione che conosce sé nell’oggetto è espressa dall’idealismo vuoto, il quale assume la ragione soltanto a quel modo in cui essa è da prima; e poiché tale idealismo indica in ogni essere questo puro mio della coscienza, ed enuncia le cose come sensazioni e percezioni, vaneggia di aver mostrato quel puro mio come realtà compiuta. L’idealismo perciò deve essere in pari tempo empirismo assoluto, ché per riempire il vuoto mio… Vuoto mio: sì, è mio ma è vuoto, perché tengo il significante separato dal significato. Ecco perché è vuoto. …ossia per indicarne la differenza, l’intero sviluppo e l’intera figurazione, la ragione di siffatto idealismo richiede un urto esterno nel quale soltanto starebbe la molteplice varietà del sentire o del rappresentare. Ha bisogno di qualcosa di esterno per confermarsi. Quell’idealismo diviene quindi un contraddittorio doppiosenso… Qui parla di una cattiva infinità; Fichte parlava di infinità, della necessità di un infinito che si avvicina sempre. Poco più avanti. …per cadere poi in braccio alla cattiva infinità, ossia all’infinità sensibile. Sta dicendo che Fichte è come se rimanesse nell’infinito potenziale. L’infinito potenziale è quell’infinito che è in potenza, è sempre in attesa di arrivare all’ultimo numero. È come chiedersi: quanti numeri posso aggiungere al numero uno? E incomincia a contare. Hegel, anche se non ne parla in questi termini, pone invece l’infinito attuale, che non è che questa infinità che è qui e adesso, non in potenza, in un futuro che raggiungerò, che è il discorso che fa in buona parte anche Popper: la verità non ce l’abbiamo ancora, però ci avviciniamo sempre di più, ma non la raggiungeremo mai. È il discorso religioso, né più né meno: la verità come l’al di là, sempre da raggiungere ma mai raggiunta, perché se la raggiungo non è più quella. Poi, incomincia a considerare i vari modi della ragione, e in queste considerazioni fa una critica abbastanza serrata allo scientismo. Parlo di scientismo e non di scienza perché la scienza, nell’accezione di Hegel, non è che il sapere, mentre lo scientismo è tutta l’ideologia scientista della scienza. A pag. 202, Ragione osservativa. La prima cosa che fa la ragione è di osservare. Questa coscienza alla quale l’essere ha il significato del suo, noi la vediamo bensì di nuovo abbassarsi all’opinione e alla percezione, ma non nel senso ch’essa si abbassi alla certezza di un Altro puro e semplice, anzi nel senso che essa ha la certezza di essere, essa stessa, questo medesimo Altro. Questo Altro non è un Altro puro e semplice sta da un’altra parte, ma è lei stessa. Precedentemente, alla coscienza era soltanto accaduto di percepire e di esperimentare, nella cosa, qualche circostanza: ora è lei che dispone le osservazioni e l’esperienza. Opinione e percezione che prima toglievansi per noi, vengono ora tolte dalla coscienza per lei stessa; la ragione si accinge a sapere la verità, a trovare come concetto ciò che per la opinione e la percezione è solo una cosa;… L’opinione pensa di avere a che fare con cose, la ragione no, sa di avere a che fare con concetti e non con cose. È ciò che vi dicevo prima: ha a che fare con concetti, racconti, storie. La ragione cerca il suo Altro,… Lo cerca come suo negativo. …sapendo che in ciò essa non possiederà nient’altro che se stessa: essa cerca soltanto la sua propria infinità. Ecco l’infinito attuale, anziché quello potenziale alla Fichte. A pag. 203, Punto 12. La coscienza osserva: vale a dire, la ragione vuole trovare e avere sé quale oggetto nell’elemento dell’essere, quale modo effettuale e sensibilmente presente. La coscienza osserva, cioè, cerca delle cose, degli oggetti. La coscienza di quest’osservare ha un bell’opinare e un bel dire di voler fare esperienza non di se stessa, ma, al contrario, dell’essenza delle cose come cose. È questo che vorrebbe fare la scienza. Se la coscienza opina e dice ciò, la spiegazione si deve ricercare nel fatto che, mentre la coscienza è ragione, la ragione come tale non è ancora oggetto della coscienza. La ragione non è ancora arrivata alla coscienza, non ha ancora preso veramente coscienza di sé. Se la coscienza sapesse la ragione come eguale essenza delle cose e di se stessa, e se sapesse che la ragione, nella sua figura più propria, può essere presente soltanto nella coscienza, allora la coscienza medesima si profonderebbe assai più in se stessa e cercherebbe la ragione, piuttosto che nelle cose, nel profondo di sé. Una volta che è consapevole di questo, la coscienza non cerca più la verità delle cose nelle cose, ma in sé. A pag. 204. La ragione, quindi, come coscienza osservativa, si accosta alle cose opinando di prenderle in verità come cose sensibili opposte all’Io; solo, l’effettuale operare di questa ragione contraddice a tale opinione; essa, infatti, conosce le cose, trasforma in concetti la loro sensibilità, ossia la trasforma, appunto, in un essere che nello stesso tempo è Io; trasforma quindi anche il pensare in un pensare che è essere o l’essere in un essere che è pensato, e afferma in effetto che le cose hanno verità soltanto come concetti. È questo che fa la ragione: le cose sono concetti o, come vi dicevo prima, sono narrazioni, racconti, storie. Prosegue con l’Osservazione della natura, La descrizione. La descrizione ci dice che vuole descrivere qualcosa minutamente, come se cogliesse gli aspetti essenziali delle cose, ma ciò che coglie è soltanto l’universale, perché per potere pensare quella cosa deve prima pensarla come universale; dopo, comincerà a coglierne i dettagli. Ma questo universale è ciò che rimane, mentre i dettagli sono quelli che di volta in volta cambiano. Infatti, a pag. 205, dice Quella coscienza dovrà anche in pari tempo ammettere di non avere a che fare in generale soltanto con la percezione, e non darà per es. alla percezione di un temperino che si trova accanto a questa tabacchiera il valore di un’osservazione. Il percepito deve, per lo meno, avere il valore di un universale, e non il valore di un questo sensibile. Ciò che percepisco deve avere valore universale, deve essere quello che è, e non per accidente; deve essere quello che è necessariamente. Così ora soltanto quell’universale è ciò che rimane eguale a se stesso… E non il dettaglio. Poiché nell’oggetto trova soltanto l’universalità o l’astratto mio, la coscienza deve prendere su di sé il movimento caratteristico dell’oggetto, e, mentre non è ancora l’intelletto di esso, è per lo meno la sua memoria,… Questo superficiale trar fuori dalla singolarità… Tirar fuori dalla descrizione. Però, rimane sempre debitore di un universale e, quindi, non è mai soltanto quello. Certo, io descrivo quella cosa, ma per poterla descrivere, per potere descrivere questo libro, occorre che ci sia un universale, che ci sia “platonicamente” l’idea di libro, e cioè che ci sia la ragione, che la ragione sia già all’opera, che questa sia già un concetto, un racconto; solo allora posso vedere tutti i vari dettagli. A pag. 206 passa a I segni caratteristici. A pag. 207, dice Da una parte i segni caratteristici debbon servire soltanto al conoscere, affinché questo possa distinguere le cose l’una da l’altra; ma d’altra parte non deve venir conosciuto ciò che nelle cose è inessenziale, anzi ciò per cui esse, strappandosi dall’universale continuità dell’essere in generale, si distaccano dall’Altro e sono per sé. I segni non devono soltanto avere un rapporto essenziale col conoscere; ma devono anche essere le determinatezze essenziali delle cose; e un sistema artificiale dev’essere conforme al sistema della natura stessa e deve esprimere soltanto questo sistema. Eh già, ma come? Queste determinatezze essenziali delle cose… per stabilire che cosa è essenziale devo stabilire un criterio, e questo criterio chi me lo dà? Quindi, quando io descrivo le cose essenziali, in realtà, descrivo il mio criterio per stabilire le cose essenziali. A pag. 208, Punto 17. Solo, questa dispiegata ostensione delle determinatezze rimanenti eguali,… Cerca delle determinatezze che restino eguali. …ciascuna delle quali descrive quieta la sequenza del suo processo e si fa largo per diportarsi a suo modo, per sé, passa essenzialmente a sua volta nel suo contrario, nella confusione, cioè, di quelle determinatezze; ché il segno caratteristico, la determinatezza generale, è l’unità dell’opposto, ossia unità del determinato e dell’universale in sé; questa unità deve dunque scomporsi in tale opposizione. Se io determino qualche cosa la determino in relazione a ciò che quella cosa non è. Quindi, questa determinatezza è sempre debitrice di ciò che le si oppone, che deve esserci perché possa darsi questa determinatezza. Questo, come dice giustamente Hegel, crea confusione: questa cosa è determinata, sì, ma in base a una differenza con qualche altra, ma siamo certi che è differente, in base a che cosa? E queste differenze, come le determino a loro volta, precisamente? Ci vuole di nuovo un criterio, ma allora, di nuovo, a questo punto non conosco la determinatezza di una certa cosa ma il criterio che utilizzo per stabilire la determinatezza. Che è la stessa cosa che già anticipava nella Introduzione, quando diceva: io voglio cercare la verità, ma se non sono già nella verità non la reperirò mai, perché ciò che reperisco è quel medio che mi consente di avvicinarmi alla verità e, quindi, è sempre e solo con questo ciò con cui io ho a che fare, con un criterio. Se ora, secondo l’un lato, la determinatezza vince l’universale, ov’essa ha la propria essenza…  È determinato, quindi, non ha più a che fare con l’universale ma è lui in quanto tale. Sarebbe l’astratto rispetto al concreto. …questo, d’altra parte, conserva il proprio dominio sulla determinatezza, la sospinge al suo limite e là ne mescola le differenze e le essenzialità. L’universalità è ciò che permane ed è la condizione per potere stabilire delle determinatezze. L’osservare teneva in bell’ordine, l’una fuori dall’altra, queste differenze e queste essenzialità, e credeva di possedere in esse qualcosa di fisso; ma ora vede un principio accavallarsi sull’altro, vede formarsi passaggi e confusioni, vede congiunto ciò che prima teneva senz’altro per diviso, e diviso ciò che teneva per congiunto; per conseguenza questo tenersi saldo al quieto essere rimanente eguale a se stesso, proprio qui, nelle sue più generali determinazioni, - quando, per es., si tratti di sapere quali segni caratteristici abbia l’animale o la pianta, - deve vedersi tormentato da mille istanze che lo derubano di ogni determinazione e che mettono a tacere l’universalità cui quello si era innalzato, riabbassandolo a un osservare e a un descrivere privi di pensiero. Il dettaglio vorrebbe ergersi a universale, ma non lo può fare, e quindi si ritrova di nuovo con dei dettagli che, di fatto, non dicono che cos’è la cosa. Dicono soltanto qualcosa di contingente; vorrebbero porsi come universali ma non riescono. A pag. 209, Punto 18. Siccome il determinato, per sua natura, deve perdersi nel suo contrario,… Per determinare qualcosa devo distinguerlo da ciò che non è. …quell’osservare che si limita al semplice o che mediante l’universale delimita la dispersione sensibile, trova dunque nel proprio oggetto la confusione del suo principio… Poco dopo. Da poi che ora l’istinto della ragione si mette in cerca della determinatezza conformemente alla natura c’essa possiede e che essenzialmente consiste non nell’essere per sé, anzi nel passare nell’opposto, esso si mette in cerca della legge e del concetto di lei; li cerca bensì come se anch’essi fossero effettualità essente;… Come se anche la legge fosse un fatto di natura… le famose leggi di natura. …ma quest’ultima in effetto gli si dileguerà, e i lati della legge diventeranno puri momenti o pure astrazioni, per modo che la legge vien fuori nella natura del concetto, il quale ha cancellato in sé l’indifferente sussistere dell’effettualità sensibile. Quando io cerco di stabilire una legge, una volta che ho pensato che la legge è stabilita, io ho stabilito solo un concetto, un concetto che non ha nulla a che fare con ciò che la legge vorrebbe esprimere. È sempre la stessa cosa, nel senso che ciò che ho trovato, che ho stabilito, è un criterio: anche la legge è un criterio. È con quello che ho a che fare. A pag. 210, Punto 20. A questa coscienza che resta all’osservare, che la verità della legge sia essenzialmente realtà ridiventa bensì una opposizione verso il concetto e verso l’universale in sé; ovverosia un qualcosa di siffatto qual è la legge sua, alla coscienza non è un’essenza della ragione; la coscienza opina di ricevere ivi un alcunché di estraneo;… Pensa che sia un’altra cosa rispetto a sé, la ragione. …ma essa confuta questa sua opinione in quanto, in effetto, non prende l’universalità della legge nel senso che tutte le singole cose sensibili avrebbero dovuto mostrarle l’apparenza della legge medesima, per poterne affermare la verità. È il problema dell’induzione: è vero che il sole sorge tutte le mattine? Possiamo soltanto dire che fino ad oggi è successo così. E domani? Non lo sappiamo. Quindi, in che modo possiamo assicurarci che questa affermazione sia vera? Non lo possiamo fare, quindi, non è una certezza, non è una verità. Poco dopo dice …che le pietre, sollevate da terra e lasciate andare, cadono, essa non pretende che si faccia una simile prova con tutte le pietre, essa dirà certo che si deve almeno provare con parecchie pietre, dal che si potrà poi concludere con la massima probabilità o di pieno diritto o per analogia, alle pietre rimanenti. Eppure non solo l’analogia non dà alcun pieno diritto, ma anche, in forza della sua natura, confuta così spesso se stessa, che, - se vogliamo anche noi concludere per analogia, - l’analogia stessa non permette di giungere a conclusione alcuna; la probabilità a cui si ridurrebbe il resultato dell’analogia, perde, rispetto alla verità, ogni differenza di probabilità maggiore o minore:… Perché tende all’infinito, la probabilità non può essere né maggiore né minore. …per quanto grande possa essere, essa non è niente di fronte alla verità. Ma in effetto l’istinto della ragione accetta tali leggi come verità; e soltanto in rapporto alla loro necessità, ch’esso non conosce, l’istinto si lascia andare a quella distinzione, e abbassa a probabilità anche la verità della cosa,… A pag. 213, Punto 22, dove parla de Le materie. La materia, al contrario, non è una cosa nell’elemento dell’essere, sì bene l’essere come universale o l’essere nella guisa del concetto. La ragione che tuttora è istinto fa questa giusta differenza, ma senza sapere che mettendo la legge a prova in ogni essere sensibile… Dice: verifichiamo se è così, con tutte le pietre, presenti, passate e future. …proprio in quest’atto essa toglie quell’essere della legge che è soltanto l’essere sensibile della legge;… Toglie alla legge quell’essere che dovrebbe essere quello che la rende tale. …e senza sapere che, mentre essa ragione intende come materie i momenti della legge, l’essenza di questi è già diventata, alla legge, un universale, ed è già enunciata, in tale espressione, come un sensibile non sensibile, come un essere privo di corporeità e tuttavia oggettivo. Bisogna ora vedere qual piega sia per prendere per quell’istinto il suo resultato, e quale nuova figura del suo osservare stia così per sorgere. Come verità di questa coscienza sperimentativa noi vediamo la legge pura, che si è liberata dell’essere sensibile;… La legge pura è la legge che deve essere universale, non può essere soltanto di questa cosa. …la vediamo come concetto il quale è presente nell’essere sensibile, movendosi, peraltro, con perfetta indipendenza; il quale, calato nell’essere, ne resta libero ed è concetto semplice. Questo che, in verità, è il resultato e l’essenza, sorge ora esso stesso per tale coscienza; ma sorge come oggetto; e invero, poiché per la coscienza quest’oggetto non è Resultato ed è senza rapporto al movimento precedente, sorge come una particolare specie di oggetto, e la relazione della coscienza verso di esso si presenta come un osservare diverso. Dice poiché per la coscienza quest’oggetto non è Resultato, cioè, non è il risultato di questo movimento dialettico, non è nella ragione. Questo oggetto è senza rapporto al movimento precedente, è fuori dal movimento dialettico, è preso per se stesso, quindi, sorge come una particolare specie di oggetto e la relazione della coscienza verso di esso si presenta come un osservare diverso, cioè, la coscienza non lo riconosce più come un qualcosa che è risultato della ragione.