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4 agosto 2021

 

Lezioni sulla storia della filosofia di G.W.F. Hegel

 

Proseguiamo la lettura della storia della filosofia di Hegel. È un percorso che si sta rivelando molto proficuo e che sempre di più ci fa cogliere quelle istanze che hanno determinato a un certo punto un viraggio del pensiero: dai presocratici, in cui esiste il domandare, a quando il domandare viene cancellato a vantaggio dell’utilizzabile, cioè la cosa non è più una domanda ma è qualcosa che si utilizza. Questo principio negativo (Il principio della dialettica, l’elemento e il suo opposto) non è neppure espresso così immediatamente da Platone, ma in sostanza è contenuto nel fatto che egli determina l’assoluto come unità di opposti. Infatti, questa unità è essenzialmente unità negativa di questi opposti, supera il loro essere altro e la loro opposizione li riconduce in sé. Avevamo visto come, in effetti, Platone coglie un aspetto di questa opposizione eliminando l’altro. All’incontro Aristotele determina espressamente come energia appunto questa negatività, questa efficacia attiva dello scindere se stesso, questo essere per sé del superare l’unità e del porre la scissione. Infatti, egli dice “L’entelechia disgiunge”; ντελχεια è una parola greca composta da tre parole: ν τλει χειν cioè fine, obiettivo, essere in atto. Invece l’idea platonica consiste piuttosto in quel superare gli opposti in cui uno solo degli opposti è esso medesimo l’unità. Naturalmente, quello che supera è l’idea. Mentre in Platone prepondera il principio affermativo, l’idea in quanto solo astrattamente identica con se stessa, Aristotele per contro aggiunge e mette in rilievo il momento della negatività, non però come mutamento e neppure come nulla, sibbene come distinguere e determinare. Questo principio dell’individuazione, non nel senso di una soggettività accidentale soltanto particolare ma nel senso della soggettività pura e peculiare ad Aristotele. Questi perciò anche del bene in quanto fine universale, fa un sostrato universale e lo tien fermo contro Eraclito e contro gli eleati. Il divenire di Eraclito è una determinazione essenzialmente giusta, ma al mutamento manca ancora la determinazione dell’identità con sé della saldezza dell’universale. Il fiume è in perenne mutamento, ma è anche un perennare… Questa è la cosa che aveva rilevato anche Heidegger quando metteva a confronto Parmenide ed Eraclito: anche Eraclito pone in effetti una sola cosa perché questo mutamento è perenne nel suo mutamento, nel suo mutarsi continuamente. Per Aristotele adunque l’attività è bensì anche mutamento ma mutamento posto nell’universale e permanente uguale a se stesso, vale a dire un determinare che è autodeterminare, quindi il fine universale realizzante se stesso; invece, nel semplice mutamento non è ancora contenuto il conservarsi del mutarsi. Questa è la determinazione fondamentale che in Aristotele ha la massima importanza. In effetti, l’entelechia è l’integrazione di potenza e atto. Vista da Hegel, ovviamente, perché questa integrazione in Aristotele c’è solo fino a un certo punto.

Intervento: …

Trovare un antecedente così nobile e grande come Aristotele lo rafforzava. Hegel chiaramente aggiunge delle cose per cui ha la possibilità di creare una filosofia “nuova”, però in nuce c’era già in Aristotele. Nella sostanza, in quanto i momenti dell’attività e della possibilità non cadono insieme ma appaiono ancora separati, Aristotele distingue vari momenti. La determinazione più precisa di questo rapporto dell’energia verso la possibilità della forma verso la materia, nonché il movimento di questa opposizione, ci danno le diverse maniere di sostanza. A questo punto Aristotele passa in rassegna le sostanze… La sostanza sensibile, dice Aristotele, ha in lei il mutamento ma in modo da trapassare nell’opposto; le opposizioni scompaiono l’una nell’altra e il terzo che resta fuori dall’opposizione che permane, il duraturo in questo mutamento, è la materia. Le categorie principali del mutamento che Aristotele nomina sono le quattro differenze: secondo il che, secondo la qualità, secondo la quantità e il dove. Adunque, il potenziale è precisamente l’ente universale in se stesso, che produce queste determinazioni senza far sorgere l’una dall’altra. La materia è la semplice potenza, che però è essa medesima opposta, sicché ogni cosa diventa in atto soltanto ciò che la sua materia era in potenza. Qui si apre una questione enorme, ma interessava precisare questo aspetto dell’entelechia. L’entelechia è forse l’idea migliore che abbia avuta Aristotele: ci sono i due momenti, la potenza e l’atto, che si integrano nell’entelechia. Quindi, è chiaro che Hegel ha avuto buon gioco a vedere in questo la sua dialettica in nuce. In effetti, sta dicendo che qualche cosa in un certo senso si produce da sé, perché la potenza non è senza l’atto e viceversa, e la relazione tra i due non è altro che l’entelechia. Però, dicevo che qui si apre una grandissima questione: il fine, il τέλος. Per Aristotele è una questione di grandissima importanza e, in effetti, lo è perché lui in qualche modo ha inventato la finalità delle cose: le cose hanno un fine. Lui sostiene questo anche con argomentazioni teoretiche robuste. L’entelechia, cioè la potenza diventa atto, quindi, ha il suo fine nell’essere in atto. Quindi, il fine ha qualcosa che appartiene alla cosa stessa, un pensiero o qualsiasi altra cosa. Ciascuna cosa ha un fine in se stessa e, infatti, dice Il punto più alto è quello in cui sono congiunte potenza, attività ed entelechia, la sostanza assoluta, che Aristotele determina in generale come l’in sé e per sé… Aristotele non la determina così. …che è immobile ma a un tempo muove e la cui essenza è pura attività senza materia. Infatti, la materia come tale è il passivo in cui si compie il mutamento, il quale passivo però non è assolutamente una cosa sola con la pura attività di questa sostanza. Certamente qui, come del resto anche altrove, vediamo che egli si limita a negare un predicato senza dire quale sia la sua verità, ma la materia è precisamente nient’altro che quel momento dell’essenza immobile. Infatti, non dice mai che cos’è la materia. Non lo può fare, anche perché ogni volta che parla della materia parla di un qualche cosa, come dicevamo tempo fa, di una materia signata. È la stessa cosa che dire, come diceva Severino: non posso pensare il concreto se non astrattamente, se non attraverso qualche cosa. L’entelechia è in Aristotele sicuramente uno dei concetti fondamentali; direi quasi che è ciò che supporta tutto il pensiero di Aristotele. Anche la questione del fine, perché a questo punto è come se mostrasse che le cose hanno una finalità intrinseca, perché la potenza ha come finalità l’atto, l’attuarsi, e non può essere senza questa attuazione, che è la sua finalità. Fin qui potrebbe apparire che non ci siano problemi. E, invece, ci sono. Hegel non lo nota: se consideriamo, anziché potenza e atto, significante e significato, possiamo dire che il fine del significante è il significato, o viceversa? Che senso ha una cosa del genere? Il significante non ha come fine il significato, la potenza non ha come fine l’atto: sono due momenti della stessa cosa, uno non è fine dell’altro. Potremmo dire che è condizione dell’altro, nel senso che se tolgo uno tolgo anche l’altro, ma questo non è il fine, il fine è un’altra cosa, il fine è un obiettivo, è qualche cosa che si deve raggiungere, che è bene raggiungere e, infatti, è il Bene assoluto. Questa idea del Bene assoluto è supportata da questo concetto teoretico dell’entelechia per cui, come dicevo, se la potenza deve diventare atto è perché ha l’atto come suo fine. E, invece, no, non è così, perché lui stesso, non Aristotele ma Hegel, dice che sono due momenti dello stesso. Potrei dire che il per sé è il fine dell’in sé? Cosa vuole dire questa cosa? Se sono due momenti dello stesso, sono simultanei. Esattamente come significante e significato, non li posso disgiungere e se non li posso disgiungere come fa una cosa essere il fine di quell’altra? Per poterla anche pensare devo disgiungere. E, quindi, ecco che la questione del fine ha un’altra portata. Se le cose hanno un fine, fine alto, degno, nobile, al quale bisogna conformarsi perché è lì che sta la verità, il bene, il giusto, allora questo significa che tutti debbono orientarsi e puntare a questo fine, cioè, tutti hanno un fine da raggiungere. Questo fine è trascendente, naturalmente – il Bene assoluto chi lo raggiunge? –, ma questo ha un vantaggio retorico, perché questo fine impone di tenere sempre le persone in tensione verso questo fine e allo stesso tempo mostrare come tutte le persone siano sempre mancanti rispetto a questo fine che non hanno raggiunto. Quindi, è l’artificio ideale per mantenere il potere sulle persone tenendole sempre in tensione verso qualche cosa che si sa non raggiungeranno mai.

Intervento: Come la religione…

Esattamente. La religione infatti ha preso a piene mani da Aristotele e da Platone. In fondo, la trascendenza a cui bisogna puntare è qualche cosa che non accadrà mai. L’hanno poi spostata nell’al di là. Ma questa idea del fine, che è sempre degno, alto, nobile, ecc., c’è ancora oggi, si è solo spostata. Durante il periodo del cristianesimo era il Paradiso, bisognava sacrificarsi per potere andare in Paradiso. Oggi non tantissimi credono nel Paradiso e allora c’è un’altra cosa: i propri figli, la propria stirpe, lo si fa per loro. Altrimenti, come si possono imporre sacrifici a qualcuno se non in vista di un obiettivo più alto, più degno, più nobile e che, quindi, lo trascende? Imporre sacrifici è impossibile se il bene è qui e adesso e io ne posso godere, che sacrifici devo fare? Nessuno. Ma questa idea del fine è stata così efficace anche perché era supportata, come ho detto prima, dal principio di Aristotele dell’entelechia: se qualcosa è in potenza questa cosa ha come suo fine l’atto, il suo attuarsi. Gentile non è caduto in questa trappola per lui entrambe, la potenza e l’atto, sono nell’atto non c’è prima una cosa e poi l’altra, sono inseparabili, inscindibili, non c’è modo di pensare una cosa del genere.

Intervento: Da qui anche le ideologie politiche…

Tutte le ideologie, nessuna esclusa. Ogni ideologia, si potrebbe dire per definizione, pone un bene che sta sempre al di là, non è mai qui e adesso. Per esempio, gli eleati non potevano cadere in una cosa del genere, cioè, la potenza diventa atto, perché l’atto è il suo fine, ma quando raggiunge questo fine? Pensate a Zenone: ci mettiamo a calcolare e ci accorgiamo che non è raggiungibile, è una follia. Quindi gli eleati avrebbero smontato immediatamente una idea del genere. Non parliamo poi di Democrito: il caos assoluto, cioè, le cose accadono casualmente ed è impossibile prevederle, aggiustarle, sistemarle, organizzarle, non c’è nessuna possibilità, come d’altra parte accade. Quindi, queste posizioni presocratiche sono quelle posizioni che non consentivano ad Aristotele di pensare a un fine ultimo, che invece è stato poi preso dal cristianesimo e facendolo suo immediatamente. È una delle armi più potenti per dominare perché prospetta qualcosa che non c’è, che non si vede, ma che si deve raggiungere. È un inganno che più straordinario non si può immaginare, ma che si deve però raggiungere. E perché si deve? Perché le cose naturalmente hanno un fine, perché ciò che è qualche cosa vuol dire che è anche in potenza. Sta qui la finezza, anche della logica aristotelica: se qualche cosa è, allora a fortiori è anche possibile. Anche il famoso quadrato logico di Pietro Ispano: in alto a sinistra il quantificatore universale, tutte le A sono B; il quantificatore particolare affermativo gli sta sotto. Ispano dice che queste due affermazioni sono subalterne perché se tutte le A sono B, è ovvio che qualche A è B. Quindi, la potenza è necessariamente finalizzata all’atto, deve perché non può rimanere potenza, non è potenza se non si compie all’atto. Questo giungere all’atto è posto in Aristotele come il fine di ciò che è in potenza, di ciò che naturalmente va verso l’atto. Così come l’anima dell’uomo va naturalmente verso Dio, che sarebbe la sua attuazione completa, finale: da qui il famoso Itinerario dell’anima a Dio di Bonaventura, che è stato preso da Aristotele, è l’itinerario della potenza verso l’atto. L’uomo è sempre soltanto potenza e l’atto è il compimento finale, cioè il congiungimento con Dio. Il finalismo teorizzato da Aristotele ha avuto il suo sbocco ideale nel cristianesimo e poi comunque nel pensiero occidentale: ogni ideologia si fonda su questo; senza questo finalismo ogni ideologia si sgonfia immediatamente. Ma tutto questo non sarebbe stato possibile senza sbarazzarsi dei presocratici. Democrito in prima istanza e, infatti, avevano proibito nell’Accademia di Platone anche semplicemente di nominarlo, e poi gli eleati e i sofisti, che dovevano essere tolti di mezzo. Ogni cosa ha un suo fine e, quindi, è fatta per raggiungere quel fine. Aristotele lo mostra nella Fisica: il seme, per es., del carciofo darà un carciofo, non produrrà una macchina da scrivere; quindi, ogni cosa è finalizzata a ciò che già è, a realizzarsi, ad andare verso il suo compimento. Ogni cosa, quindi, ha un naturale compimento, così come pensava Bonaventura dell’anima dell’uomo che ha il naturale compimento nel percorso che la porta a Dio.

Intervento: Retoricamente è potente…

Sono duemilacinquecento anni che funziona alla perfezione. Non c’è stata praticamente nessuna obiezione a una cosa del genere, anche perché quasi più di ogni altra consente l’esercizio del potere e quindi non ci rinuncia assolutamente nessuno, può essere di destra, di sinistra, di centro: questo non si tocca, perché è la condizione dell’esercizio del potere. Far credere a qualcuno di essere finalizzato a…, di essere finalizzato alla potenza della Germania, ad essere finalizzato al dominio degli operai sul mondo: ciascuno è sempre finalizzato a qualche cosa. Ma per tutto ciò occorre questa ideologia e questa ideologia affonda le sue radici nella teoria della finalità, cioè nell’entelechia di Aristotele. Vediamo che cosa ci aggiunge qui Hegel. Dice Aristotele: può avvenire che ciò che ha potenza non sia attuale. Non giova adunque a nulla il fare le sostanze eterne, come vogliono i maestri delle idee (i platonici), se non è in esse un principio da cui possa nascere il mutamento; e anche questo non basta, se il principio non è attivo perché allora non si ha mutamento? Posto anzi che esso sia attivo, e la sua sostanza invece solo una possibilità, non vi sarebbe eterno movimento perché ciò che è in potenza può anche non essere. Deve esservi adunque un principio, la cui sostanza sia da intendere quale attività. Sicché nello spirito l’energia è la sostanza medesima… La sostanza è lo spirito, il pensiero. …a questo punto però sembra affacciarsi un dubbio; difatti, ogni attivo pare essere possibile, ma non ogni possibile è agire, sicché la possibilità sembra essere il primo, essendo essa l’universale. Infatti, Hegel accosta la potenza all’in sé, a ciò che è in sé ma non è ancora per sé e, quindi, è in potenza. Ma se ciò fosse, nulla di ciò che è sarebbe, poiché sarebbe possibile che potesse essere ma anche non fosse; ma l’energia sta sopra alla possibilità… L’atto sta sopra il possibile perché è il suo compimento. Quindi, non si deve dire, come vogliono i teologi che da principio nel tempo infinito vi era un caos o la notte, o, come dicono i fisici, il tutto insieme confuso. Infatti, come potrebbe questo primo (la potenza) andare incontro al mutamento se nulla in atto ne fosse causa? Qui sta giustificando il finalismo. Come può questo primo, la potenza, mutarsi e diventare atto se non andasse incontro al mutamento? …se nulla in atto ne fosse causa? Difatti, la materia non si muove da sé ma per opera dell’artefice. Perciò Leucippo e Platone affermano che il movimento è eterno ma non dicono perché. Non lo dice nemmeno lui, però… La pura attività, secondo Aristotele, è prima della possibilità, non secondo il tempo ma secondo l’essenza… Qui è più Hegel che parla di quanto parli Aristotele. Come dire che il primo, in realtà, viene dopo. Infatti, il tempo è un momento subordinato, lontano dall’universale, ché la prima essenza assoluta è, come dice Aristotele, alla fine del VI capitolo del Libro XII, ciò che muovendosi sempre con uguale attività rimane sempre uguale a se stesso. È il pensiero. È il pensiero che si muove continuamente, ma rimane sempre pensiero, non diventa un’altra cosa. Questa essenza assoluta, come ciò che è identico a sé e che è visibile, è l’eterno cielo… Sono da prendere come allegorie. …quindi i due modi in cui si presenta l’assoluto sono la ragione pensante e il cielo eterno. Ad Aristotele faceva comodo il cielo eterno perché il cielo gli dava l’impressione di essere qualcosa di organizzato, di sistematizzato e, quindi, di conoscibile. Ma il cielo, dice Aristotele, è mosso ma è anche motore; poiché lo sferico è così motore e mosso vi deve essere un che di mezzo che muove, ma è l’immoto ed esso stesso è insieme eterno e sostanza e atto. Il famoso motore immoto. Ha pensato che occorreva un qualche cosa che non fosse mosso da altro ma che muovesse tutto, perché se è mossa da altro siamo daccapo, bisogna cercare questo altro che la muove. È chiaro che ponendo la questione in questi termini l’unica cosa che risponde a questo requisito è il linguaggio, che non ha qualche cosa che lo muove perché sarebbe fuori dal linguaggio, ed è lui che muove tutto. Questa grande determinazione aristotelica, il circolo della ragione che ritorna in se stessa, ha lo stesso significato di altre determinazioni moderne. L’immoto che muove è l’idea che rimane identica a se stessa e che mentre muove rimane in relazione a se stessa. Il pensiero rimane sempre pensiero. Aristotele ne dà questa spiegazione. Il suo muovere è determinato nella maniera seguente: muove quel che è desiderato e pensato; esso però è esso stesso immoto e l’originario dell’uno e dell’altro è il medesimo. Ecco il fine, il cui contenuto è l’appetito e il pensiero stesso, e tale fine si chiama il bello o il bene. Infatti, ciò che si desidera è ciò che appare bello, che piace, il primo di esso o il fine, ciò che si vuole con la volizione è ciò che è bello. Dice che c’è un desiderio, un’appetizione, una volizione verso ciò che è bello e questo sarebbe il fine di ogni cosa, verso cui ogni cosa tende, verso cui tutto l’agire degli umani tende. Aristotele aggiunge ancora qualcosa, ma grosso modo si tratta di questo. Perché esiste il bello? Perché alla fine, quando tolgo tutte le particolarità, tutte le variabili, ecc., rimane il bello in sé, il piacevole in sé, un qualche cosa che si cerca e che rappresenta il fine. Quindi, il fine è ciò che è bello e giusto da ricercare. Questa è un’argomentazione che naturalmente lascia il tempo che trova perché non dice nulla di che cosa debba intendersi con desiderio. Questa è un’altra delle questioni che ci mostra come alcune determinazioni, alcuni concetti come il desiderio compaiono all’interno di un testo, di un’elaborazione teorica come degli utilizzabili. Non sono più domande, sono strumenti da utilizzare, come la verità, il bene, l’essere, che non sono più una domanda. Il domandare è stato tolto di mezzo, perché solo se sono strumenti li posso utilizzare per la volontà di potenza. Il domandare è ciò che ostacola la volontà di potenza, perché se continuo a domandare devo rispondere prima che diventi un utilizzabile, e se non riesco a rispondere, come nel caso di Zenone, che si fa? Non utilizzo più la questione del movimento perché non so che cos’è? Vedete come incominciano ad apparire – questo già con Platone, l’aveva notato anche Heidegger – come certi concetti non costituiscano più una domanda autentica, come lo era per i presocratici, ma siano diventati degli utilizzabili, cioè, un qualche cosa che non questiona più ma che si usa, quindi, degli strumenti di potere. Il pensare che è puramente per se stesso è il pensare ciò che è più eccellente in sé e per sé. Quando il pensiero pensa se stesso pensa a ciò che è più eccellente per lui, almeno così dice Aristotele. La differenza e l’opposizione nell’attività e nel superamento di essa sono espressi da Aristotele nel modo seguente: il pensiero pensa se stesso con l’accogliere… Il termine greco che usa è μετάληψις, metalessi, integrazione. Potremmo dire che la traduzione tedesca sia Aufhebung. …il pensato, ma esso viene pensato nell’atto che tocca e pensa, cosicché pensiero e pensato sono identici. Aristotele ha portato il pensare verso una certa direzione però ha posto alcune cose in modo interessante. Il pensiero, poiché è l’immoto che muove … Qui ha già detto che il motore immoto è il pensiero, cioè, il linguaggio. Se si fosse accorto di questo avrebbe risolto tutto. …ha un oggetto, il quale si converte però in attività in quanto il suo contenuto è esso medesimo alcunché di pensato, cioè un prodotto del pensare e, quindi, affatto identico con l’attività del pensare... È totalmente identico con il pensare. Qui è Gentile, il quale conosceva bene tanto Aristotele quanto Hegel. …cosicché nel pensare ciò che è mosso e ciò che muove sono il medesimo... Sembra di evocare quasi quel detto di Gentile: quando penso qualcosa, di fatto penso il mio pensiero pensante …poiché la sostanza del pensato è il pensare. È questa la sostanza: è il mio pensare. La sostanza del pensato è il mio pensare. Vedremo, leggendo la Metafisica, i termini precisi, ma sicuramente qui Aristotele usa il termine οσία …il pensato stesso è la causa assoluta che immota essa medesima è identica col pensiero, che da essa è mosso. La separazione e la relazione sono assolutamente uno stesso… E qui si sente fortemente che è Hegel che sta parlando, e cioè l’integrazione dei due momenti che porta poi alla dialettica, al pensiero assoluto. Adunque il momento fondamentale nella filosofia aristotelica sta in questo: l’atto del pensare e l’oggettivo pensato sono lo stesso. Qui sembra proprio Gentile. Infatti, quello che riceve il pensato e l’essenza è il pensiero. Cosa riceve il pensato che io ho pensato? Il mio pensiero, non può uscire di lì. Il suo possesso è tutt’uno col suo atto, sicché la totalità dell’agire per cui esso pensa se stesso è più divina di quello che la ragione pensante crede di avere di divino. È chiaro che in Aristotele si pongono delle questioni di importanza straordinaria, nonostante che poi abbia convogliato il pensiero in una certa direzione. Anche qui dove dice “la totalità dell’agire per cui esso pensa se stesso è più divina di quello che la ragione pensante crede di avere di divino” c’è già comunque un andare verso un qualche cosa di divino, un qualche cosa che costituisce il fine. La speculazione (la teoria) è così ciò che va di più dilettevole e di migliore. Orbene, poiché Dio è sempre in questo stato… Quando si parla di Dio occorre intenderla nell’accezione greca antica, non è il Dio dei cristiani, non è qualcuno, è l’idea dell’assoluto. …nel quale noi siamo solo qualche volta. Egli è degno di ammirazione se tale è in grado maggiore /…/ Noi diciamo oggi nel nostro linguaggio che l’assoluto, il vero, è l’unità della soggettività e dell’oggettività, che perciò non è né l’una né l’altra, come altresì è l’una e l’altra. Questo è Hegel, ovviamente: soggetto e oggetto sono lo stesso. La filosofia speculativa di Aristotele è appunto questo considerare tutti gli oggetti pensando e trasformarli in pensieri sicché, poiché sono come pensieri, sono nella loro verità. Il che non significa tuttavia che di conseguenza gli oggetti della natura si pensino essi stessi, significa invece che a quel modo che son pensati soggettivamente da me, il mio pensiero è anche il concetto della cosa di cui, quindi, costituisce la sostanza in sé e per sé. Nella natura esiste il concetto, ma non per se stesso come pensiero in questa libertà, sibbene ha carne e sangue e sotto il peso della esteriorità. Però, questa carne e questo sangue hanno un’anima e questa è il loro concetto. La consueta definizione di verità, secondo cui essa è la concordanza della rappresentazione con l’oggetto, non si trova ancora contenuta affatto nella rappresentazione. Infatti, quando io mi rappresento una casa, una trave, io non sono ancora affatto questo contenuto ma alcunché di diverso; quindi, non sono affatto in concordanza con l’oggetto della mia rappresentazione… Se io penso una casa non sono una casa. Solo nel pensare si ha piena concordanza dell’oggettivo con il soggettivo: io sono questo. Come dire: io sono quello che penso, quello che dico. Adunque Aristotele raggiunge il più elevato punto di vista; non è possibile voler essere più profondi sebbene egli formalmente prenda sempre le mosse da rappresentazioni. Vediamo adesso cosa aggiunge. Intanto distingue il concetto del pensare da quello del pensato: sono due concetti diversi. O forse in certe cose la scienza è la cosa stessa? Nel rapporto pratico la cosa è la sostanza immateriale e la determinatezza del fine nel rapporto teoretico la ragion d’essere è il pensiero. È la determinatezza del fine che dice che cos’è una certa cosa, che fino a un certo punto è anche vero, solo che questo fine dobbiamo intenderlo bene perché il fine viene utilizzato dalla volontà di potenza. Ciò che è sfuggito è che questo fine – se vogliamo parlare di fine – è la volontà di potenza, è ciò verso cui le cose tendono e ciò da cui traggono il loro essere quelle che sono. Questa è una questione importante perché, ponendo la cosa in questi termini, rimane ciò che abbiamo detto prima, e cioè si impone il fine come ciò che è giusto, come ciò che le persone devono raggiungere. Ma se noi la poniamo come volontà di potenza allora non è perché le persone debbano raggiungere il fine perché è bene, bello, giusto, ecc., ma perché non possono non farlo. Sta qui la differenza fondamentale. Non possono non farlo perché la volontà di potenza è il linguaggio stesso nel suo agire. E, allora, a questo punto è chiaro che si apre una frattura enorme e non ricucibile tra la volontà di potenza, come esercizio volto a dominare gli altri, e la volontà di potenza come la struttura del linguaggio, e cioè il modo in cui il linguaggio agisce, affermando cose. Ogni affermazione è una volontà di potenza, è un’imposizione: se io affermo qualcosa impongo a quella cosa che sia quello che io voglio che sia. Quindi, potremmo dire che retoricamente la questione della finalità, posta da Aristotele come ideologia, e perfettamente funzionante a tutt’oggi, è quel modo retorico di piegare la volontà altrui alla mia. Per fare questo è importante che si cancelli una parte determinante, che è quella che Hegel aveva rilevata, e cioè che Dio non è là ma sono io che gli attribuisco queste cose. Questo deve essere cancellato perché, se Dio è qui e sono io che gli attribuisco certe cose, il fine, se vogliamo ancora parlare di fine, a questo punto sono io stesso o, più propriamente, è il mio dire. È il mio dire stesso il fine, che ha come unico fine ha quello di proseguire se stesso. Ma più propriamente non ha neanche un fine, non è una cosa finalizzata; sarebbe come dire che il significato è il fine del significante; non c’è nessun fine ma una simultaneità tra i due momenti; il significato non può essere il fine del significante perché il significante non può esistere senza significato. Quindi, qualcosa non può essere un fine se è già qui sempre e necessariamente. L’ho già da sempre raggiunto questo fine e pertanto non è un fine. Siamo alla Filosofia della natura, cioè, alla Fisica. Tra le scienze particolari di cui Aristotele si è occupato alla fisica è dedicata una intera serie di opere. Si studia come è ovvio la teoria circa il concetto di natura in generale, il movimento, lo spazio e il tempo. La prima apparizione della sostanza assoluta è il movimento, i cui momenti sono lo spazio e il tempo; questo concetto e la sua apparizione è l’universale, che si realizza soltanto nel mondo corporeo trapassando il principio di individuazione. Ci sta dicendo che il movimento è alla base di tutto. Capite, quindi, che non poteva accogliere la tesi di Zenone, perché se Zenone dice che il movimento c’è – di fatto, lo vede – ma non si può sapere che cos’è, allora come posso porlo a fondamento di tutto se non ho la più pallida idea di che cosa sia. Ora, questo non è un problema, è una cosa che si fa continuamente, però quanto meno teoreticamente è un problema. La Fisica di Aristotele, per gli odierni fisici, sarebbe propriamente una metafisica della natura. Infatti, i nostri fisici si accontentano di dire che cosa hanno visto, quali meravigliosi strumenti hanno creato, ma non dicono di avere pensato qualcosa. Un tempo la fisica conteneva ancora un po’ di metafisica, ma la esperimentata loro incapacità a pervenire a una conclusione ha indotto i fisici a tenerla lontana quanto è possibile e a limitarsi a quella che essi chiamano esperienza, persuasi come sono che in essa la schietta verità, non corrotta dal pensiero, possa passare intatta dalle mani della natura nelle loro mani e nei loro occhi. Questa era ancora l’idea di Husserl, anche se poi ha cambiato idea, quando parla della cosa in carne ed ossa, pensando di potere intendere la cosa senza il linguaggio, senza nessuna mediazione. Il problema, di cui si accorge almeno in parte, è che senza questa mediazione non c’è neanche quella cosa lì, non c’è niente. È vero che essi (i fisici) non si possono liberare del concetto, ma con una specie di tacito sottointeso continuano a servirsi di certi concetti, come il consistere di parti, di forze, ecc., e li adoperano senza sapere affatto se questi concetti hanno una verità e in che modo hanno verità. Ma quanto a contenuto, non parlano affatto di verità delle cose ma soltanto di apparizione sensibile. Come dicevamo prima, le cose sono diventate degli utilizzabili, non sono più domande ma degli utilizzabili, degli strumenti. Aristotele, in generale gli antichi, intendono per fisica la comprensione della natura, l’universale; perciò Aristotele la chiama dottrina dei principi. Infatti, nel fenomeno naturale si manifesta essenzialmente questa differenza tra il principio e le sue conseguenze, differenza che viene superata soltanto nella vera e propria speculazione. Viene superata sì e no. Per esempio, nel caso delle aporie di Zenone non viene superata affatto: da un lato il fenomeno, cioè Achille che supera la tartaruga; dall’altro, la speculazione che invece afferma che non lo può fare. A quale delle due dobbiamo dare retta? Relativamente al concetto generale della natura deve affermarsi che esso è esposto da Aristotele nel modo più elevato e verace. Secondo lui, infatti, nell’idea della natura hanno importanza essenzialmente due determinazioni: il concetto del fine e il concetto della necessità. Aristotele afferra subito il nocciolo del problema, che consiste nell’antica antinomia, diventata poi tradizionale, e nella diversità che corre tra il vedere le cose secondo la necessità, causae efficientes, e il vederle secondo la finalità, causae finales. La prima maniera di considerare le cose è quella secondo la necessità esteriore che si identifica col caso, per cui si suole ammettere che i fatti della natura vengono determinati esteriormente da cause naturali. L’altra è la concezione teleologica dei fini, ma la finalità può essere interna o esterna e quest’ultima ha predominato a lungo nella cultura moderna, e così si brancola tra i due modi di vedere … Dunque, Aristotele individua due cose nella natura: la finalità e la necessità. Però, questo problema, riprendendo la questione della metafisica, è già risolto con l’entelechia. La potenza sarebbe qui la necessità: è necessario che qualcosa che è sia anche in potenza; il fine è l’essere della potenza in atto. Quindi, il modo in cui Aristotele concepisce, teorizza la natura muove dal suo concetto di entelechia, cioè, lui applica l’entelechia alla natura: se qualcosa è, è perché è anche in potenza e, se è in potenza, è il suo naturale fine giungere all’atto. Sappiamo già che la potenza senza l’atto non è potenza. E, in effetti, è questo che fa Aristotele: cercare di cogliere nella natura questo movimento dialettico, che lo porterà poi a dire che se pianto il seme del carciofo non nascerà una macchina da scrivere, perché quel seme ha il carciofo in potenza e il suo atto, il suo compiersi è nell’essere carciofo. Il concetto che egli (Aristotele) ha della natura è superiore all’attuale. Infatti, per lui ciò che più importa è determinare il fine, come interiore determinazione della stessa cosa naturale. La natura ha un fine, gli umani hanno un fine, l’anima ha un fine, come diceva Bonaventura. In tal guisa egli ha inteso la natura come vita, cioè come tale che è scopo in sé e unità in sé e non trapassa in altro. Ma grazie a questo principio dell’attività determina i mutamenti conformi al suo particolare contenuto e si conserva in essi. In questa concezione Aristotele /…/ l’occhio alla finalità interna o immanente, della quale considera il necessario come una condizione esterna. Il necessario diventa ciò che deve essere. Quindi, da un lato considera la natura come la causa finale, che si deve distinguere da ciò che è fortuna e caso, cui essa appare di contro necessario che è anche in sé e poi determina in che modo il necessario si comporta nelle cose naturali. Vale a dire, è necessario che il seme del carciofo abbia come fine il diventare un carciofo.